Lettere in viaggio
«Argentina 20 maggio 1913
Carissime mamma e sorella
Vengo a scrivervi e la mia mente non sa quale parola fare uscire prima perché tutte insieme vogliono volare alla nostra casa. Fanno trenta giorni che ho messo piede all’Argentina e quasi non ci credo di essere in questa parte di mondo. Solo la vista di Vincenzo nel porto mi ha fatto comprendere di essere arrivata e che il mio paese, madre e diffortunata sorella erano spariti per sempre.
Non sapete che cosa abbiamo passato, io, Caterina Ligios e Giovanna Porru, e gli altri paesani, ventitre giorni in mare, un purgatorio lungo come un inferno, tutto il giorno nel ponte del vapore come nella piazza della festa e non si sa quanta gente c’è.
Alla partenza anche gli uomini piangevano lasciando Genova che era l’ultimo pezzo della Patria…»
Così cominciava Oltremare, il romanzo epistolare che nel 2004 la casa editrice Il Maestrale, di Nuoro, pubblicava. Nel 2009 usciva Vincendo l’ombra, ancora con il Maestrale, un altro romanzo in gran parte epistolare. Una seconda ‘puntata’ che si apriva con una lettera del 3 aprile 1928 dalla Sardegna, da parte della sorella rimasta nell’Isola.
Oltremare
Un epistolario reale l’avrei voluto trovare e l’avevo cercato. Nel 1987, in occasione del gemellaggio del mio paese d’origine, Gavoi, in Barbagia, con un circolo di emigrati sardi in Argentina (nel paese c’era stata un’importante immigrazione in Argentina, soprattutto all’inizio del Novecento, ricordata dai suoi poeti estemporanei), ero stata incaricata di tenere una relazione. Ero andata in giro per il paese per capire cosa fosse rimasto nell’immaginario collettivo di quella emigrazione, per raccogliere documentazione e, possibilmente, trovare un epistolario. Dell’antica emigrazione paesana restavano poveri, confusi ricordi immiseriti dal tempo, che ero riuscita a capire attraverso la Storia dell’emigrazione italiana e sarda in quel lontano Paese. Molte fotografie e molte lettere erano andate distrutte; alcune non si potevano far leggere, per ragioni di famiglia, qualcuna mi fu fatta leggere in modo furtivo. Poi ebbi in mano frammenti di corrispondenza quasi incomprensibili e per la scrittura e per la lingua che entrava e usciva dai confini, pagine di un elenco di passeggeri e lo statuto di un’associazione di mutuo soccorso.
Ho sempre amato i diari, le biografie, le autobiografie, le memorie, e, in modo particolare, gli epistolari. Dal colto e bellissimo Lettere a Milena di Kafka scoperto nell’adolescenza, a lettere portate dai miei alunni – quando insegnavo – come documento storico o scritte da loro. Mi accingo a leggere qualsiasi lettera da quelle di Virginia Woolf a quelle di un’illetterata, con lo stesso interesse, con la stessa curiosità, convinta come sono che a ogni persona può capitare, se in preda a un forte sentimento, di scrivere un piccolo testo letterario che vale la pena di leggere e di conservare e che lettere e memorie spesso ricreano lo spirito del tempo più di molti saggi. Pur avendo questa passione per gli epistolari e pur essendo rimasta delusa dal non averne trovato uno, non cominciai a scrivere subito il mio primo romanzo epistolare, Oltremare. Scrivevo altro.
Solo nel 1994, sette anni dopo, cominciai a scriverlo perché ne sentivo l’urgenza. La scrittura durò due anni. Il romanzo racconta la storia di due sorelle divise dall’Oceano il cui legame è tenuto in vita dalle lettere. La maggiore, Grazia, raggiunge, nel 1913, il marito e i fratelli in Argentina per fare la cameriera a Buenos Aires, nella villa dei ricchi proprietari italiani della estancia dove lavora il marito. La sorella più giovane, Antonia, affetta da epilessia, ricamatrice, tessitrice e sarta, è costretta a restare in Sardegna. Volevo scrivere di emigrazione e di donne, di loro non si parla, le storiche hanno cominciato a farlo in questi ultimi anni, e insieme raccontare la storia dell’immaginario paese di Olai, nell’interno della Sardegna, e dei suoi abitanti. Quelli che emigrano in Argentina e quelli che restano. Di come la Storia entra nelle loro piccole esistenze.
Fui molto indecisa sulla forma. All’inizio pensavo di alternare racconto e lettere ma la cosa non mi convinceva. Dopo tanti tentativi, optai per un romanzo di sole lettere. Ne scrissi 71. La materia non mi mancava, la cultura barbaricina la possedevo.
Dalla nascita, io di famiglia inurbata, mi sono nutrita di due culture. Quella sarda, familiare, sotterranea, che ricreava il paese dentro le pareti della casa cittadina. Un’enclave dove il sardo barbaricino si alternava all’italiano parlato da tutti con la figlia più piccola. Cultura carica di affettività, legata a quella famiglia grande che era il paese dove trascorrevo le vacanze. La lingua – nell’infanzia credo di essere stata perfettamente bilingue – era passaporto per consentirmi di essere integrata nel paese a ogni ritorno. L’altra cultura, quella cittadina, parallela, in superficie, come dire alla luce del sole, che mi apriva al mondo più vasto.
Cagliari mi offriva biblioteche, un teatro, locali cinematografici, luoghi dove ascoltare musica sinfonica e operistica. Ma la civiltà cittadina mi arrivava anche attraverso i racconti dei viaggi, degli spettacoli teatrali visti in Continente che mio padre alternava a quelli della sua infanzia paesana.
La cultura popolare sarda faceva parte del mio immaginario. Possedevo un deposito, una miniera. Nelle profondità di quella cultura mi immergevo, a quel tesoro attingevo nei miei componimenti scolastici fin dalla scuola elementare, suscitando lodi sulla mia fantasia, tale era, allora, la distanza della città più grande dai paesi dell’interno dell’isola. Avevo un bel dire che erano racconti che avevo ascoltato in paese. E di racconti, allora, ne conoscevo molti per l’abitudine di andare in giro nel vicinato con un quaderno in cui annotavo quello che mi veniva raccontato. Dicevo che stavo scrivendo un libro che sarebbe dovuto nascere senza ulteriori interventi, per così dire, per partenogenesi. Passavo dall’ascolto di un racconto dell’infanzia della mia nonna bambina, così simile a uno di Grazia Deledda, o dell’austera vita del paese durante il periodo di transumanza dei pastori alla lettura di una fiaba di Andersen o di Wilde o di Piccole donne che mi portavano altrove.
Così come oggi passo con lo stesso piacere dall’ascolto di un canto a tenore alle Variazioni Goldberg, o dalla lettura di un diario popolare a una lunga descrizione proustiana. Nei miei romanzi epistolari, Oltremare ha avuto un seguito con Vincendo l’ombra, le cui vicende vanno dal 1928 al 1943, c’è la cultura popolare sarda, ma dovevo narrare anche di quella argentina. Dell’Argentina amavo la geografia letteraria, Borges, Bioy Casares, e quella paraletteraria come i testi dei tanghi che avevo ascoltato fin da bambina, che ben si legavano alla cultura popolare dei migranti. Dalla cultura tangheira viene irretito Francesco, fratello di Grazia e Antonia, che – in Vincendo l’ombra – si dimentica del luogo in cui è nato e della sua lingua per farsi argentino. L’Argentina è, in quegli anni, terra di intensa emigrazione, crogiuolo di culture diverse di cui Grazia racconta fin dalla prima lettera di Oltremare. Nei due romanzi ci sono più culture popolari che si intrecciano e vanno e vengono meticciandosi e arrivano anche a Olai portate da chi torna e attraverso le lettere. Prima di cominciare a scrivere Oltremare mi ero documentata dal punto di vista storico per narrare in modo credibile. Avevo anche scovato, nei mercatini, qualche numero di Caras y Caretas, rivista popolare molto diffusa in quegli anni anche in Europa, e altro materiale.
Il primo, vero problema che mi si presentò fu la scelta della lingua. Quale lingua usare nella corrispondenza? Le lettere dovevano essere verosimili ma chi leggeva doveva essere in grado di capire senza nessuno sforzo. Una prima scelta fu di fare delle sorelle, due donne che avevano conseguito la licenza elementare. Due brave scolare in grado di scrivere in un italiano comprensibile e dignitoso. Un italiano regionale, con traduzioni quasi letterali dal sardo come capita, a volte, anche a noi sardi acculturati. Volevo ricostruire, anche con la scelta delle parole, un mondo che non c’è più, sapevo che le parole si portano dietro le cose. Temevo, però, che la lingua che volevo ricreare diventasse una parodia del sardo. Era solo l’eco di quella parlata, di quell’italiano irrorato dal sardo che volevo ricreare. Il suono, il ritmo, in una parola la musicalità, ma anche la secchezza, l’essenzialità di un italiano parlato e scritto solo a scuola e arricchito da qualche espressione in sardo, che si potesse capire dal contesto. L’oralità e la scrittura popolare dovevano esserne la sostanza, mediate dalla forma letteraria. Non è stato facile. La lingua delle lettere si modifica nel corso del tempo, così come la vita delle protagoniste.
Oltremare si ferma al 1928, quando comincia Vincendo l’ombra. Sono cambiati i tempi di qua e di là dal mare. In Argentina alle aperture democratiche dei primi del Novecento sono seguiti governi che hanno tolto la libertà, ostili agli immigrati. In Italia c’è la censura fascista che apre le lettere, soprattutto quelle da e per l’estero. Non potevo più continuare a narrare attraverso le sole lettere. Decisi di far tenere ad Antonia un diario dove scrive quello che non può scrivere alla sorella o le notizie che le arrivano dall’Argentina portate da chi ritorna. Ma Antonia scrive anche lettere che non spedisce o che, durante la seconda guerra mondiale, non arrivano. La sorella Grazia è immersa nella realtà argentina. Scrive della famiglia, dei fratelli, dei paesani, dei ricevimenti dei suoi padroni altoborghesi.
La sua lingua è sempre più meticciata. Una miscidanza di italiano, spagnolo e sardo. A volte è la figlia Antonietta, studentessa del liceo e poi dell’università, ad aiutare la madre nello scrivere in quella lingua italiana per lei sempre più difficile o a rispondere alla zia. Con gli anni cambiano anche mentalità e lingua di Antonia. La sua lingua si arricchisce, ruba parole e espressioni ai giornali femminili. Antonia è una lettrice, amplia il suo orizzonte con la lettura di libri e racconti. Una cultura piccolo borghese si apre un varco nelle sue lettere, diventa materia di scrittura. Le lettere delle due sorelle contengono anche materiale della cultura popolare argentina e sarda: ho salvato un canto funebre che ormai solo io conoscevo. Ho inserito qualche verso pieno di forza e sentimenti sardisti, mutettus popolari cagliaritani, una preghiera a una madonna argentina, il testo di un tango, una ninna nanna sarda, ma avevo anche composto una strofa di un canto a tenore, in modo istintivo, visto che non conosco la tecnica. Evidentemente sentivo i due romanzi come luogo dove far rivivere o vivere questo materiale.
Lavorai ad ogni lettera come a un piccolo racconto. La chiusa, dopo le prime, divenne la stessa: tua sorella che mai ti dimentica. Una formula codificata, di quelle che allora si apprendevano alla scuola elementare. Mentre portavo avanti la storia mi resi conto che quella chiusa diventava un legame che teneva insieme il testo dandogli unità. Tagliai e tagliai, ossessionata come ero dalla forma. Tagliai rischiando di buttare l’acqua sporca col bambino. Quando avevo dei dubbi, ripetevo dentro di me le frasi pensando a come le avevo ascoltate tante volte e quasi registrate. Spesso le leggevo a voce alta. Ma la scrittura è anche qualcosa di automatico e di irrazionale, non è un mero esercizio. Tu questa lingua ce l’hai nel DNA, mi disse una volta un colto pedagogista sardo mio lettore che quella lingua ben conosceva.
Ho già detto che sono stata aiutata dalla mia conoscenza della cultura barbaricina che continuava a vivere all’interno della mia famiglia ma come fossilizzata, ferma alla giovinezza dei miei genitori, al tempo in cui erano andati via dal paese.
Non è la storia della mia famiglia quella che racconto nei due romanzi, nessuno dei miei era mai emigrato ma racconto una cultura, un mondo in cui avevano vissuto i miei avi. In più avevo la distanza datami dal mio vivere in città, dal possedere i due codici, quello cittadino e quello paesano. Da vicino e da lontano. E da lontano veniva il mio desiderio di scrivere una storia legata alla cultura del paese amato. L’avevo capito molti anni prima di cercare l’epistolario. C’era stato un lento avvicinamento. Nella tarda adolescenza, subito dopo la morte della mia nonna materna, che segnò un confine, la casa fu rilevata da una parente; da allora i ritorni in paese furono rari e fugaci. Mi ero portata via le fotografie tra cui quella di un paesano emigrato in Argentina, e qualche documento di famiglia. Tornata in città, buttai giù velocemente un’ingenua notazione sulla cultura del passato del paese e la chiusi dentro una busta. Senza che me ne rendessi conto avevo preso un impegno: avrei dovuto scriverne. Volevo salvare qualcosa di quel mondo lontano i cui ultimi bagliori erano arrivati fino a me. Oscuramente volevo potesse ancora vivere. Le mie nonne, mia madre, non avevano potuto fermare con la scrittura quello che avevano conosciuto. Io, che sentivo la bellezza di quella cultura, che avevo fatto a tempo a conoscere mentre moriva, forse avrei potuto farlo.
Ci furono altri tentativi, ci giravo intorno: articoli, recensioni, qualche riflessione che non mi coinvolgeva più di tanto. Fu una lettura a riportare alla superficie, come in una seduta di analisi, il magma. La lettura, nel 1977, del romanzo di Salvatore Satta Il giorno del giudizio. Prima che esplodesse come caso letterario con l’edizione Adelphi, avevo letto la dimessa edizione CEDAM del magnifico libro del giurista nuorese. Più tardi, in un articolo sull’Unità, avevo riflettuto sulla presenza della morte in quel libro concludendo con la frase: ha dato la parola ai suoi, quanti di noi riusciranno a fare altrettanto? Non mi resi conto di aver scritto quelle parole se non quando le vidi stampate e ne fui spaventata. Passarono altri anni, continuavo a scrivere qualche articolo ma mi ero decisa a pubblicare qualche mia storia ed ero tornata in paese dopo molto tempo, creando con esso un rapporto nuovo legato all’identità del passato e alle sperimentazioni dell’oggi. Sulla traumatica, coinvolgente esperienza di lettura del libro sattiano, qualche tempo prima di cominciare a scrivere Oltremare, scrissi un breve racconto e altri legati alla cultura del paese, pubblicati poi in una raccolta. Ma non scrivevo di quello di cui davvero volevo scrivere, fino al 1994, quando la storia era ormai cresciuta dentro di me.
Mi sono chiesta perché il capolavoro sattiano abbia avuto quest’effetto dirompente su di me. Non solo perché é uno dei più bei libri del Novecento, e perché, come ha scritto la sua biografa Vanna Gazzola Stacchini, tocca corde profonde, ma perché è un romanzo nutrito di autobiografia e di memorie collettive, uno straordinario documento antropologico. In questo libro pervaso dalla presenza della morte, Salvatore Satta salva rendendola universale, molta della cultura nuorese: modi di vita, canti, espressioni idiomatiche tradotte letteralmente dal sardo. Questo romanzo, il cui mondo mi è familiare, mi dette nuovo impulso a tirare fuori la storia che forse aveva cominciato a nascere dentro il quaderno in cui da bambina annotavo i racconti del paese.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Mariangela Sedda, laureata in filosofia, ha insegnato nelle scuole medie superiori. Ha scritto molti racconti tra cui il più noto è Storie di ordinaria scrittura (Stampa Alternativa, 1992), il più recente è Gavoi: un paese così bello mai, vari testi teatrali come L’esilio dei re (Condaghes, 2000) e Scavi: storie di miniera, un monologo andato in scena con le musiche di Mauro Palmas, e i romanzi Oltremare, trasmesso da Rai International nel ‘99 e pubblicato da Il Maestrale nel 2004; Vincendo l’ombra (Il Maestrale, 2009) e La cancellazione (Il Maestrale 2018). Mariangela Sedda ha scritto anche numerosi racconti per l’infanzia. L’ultimo Sotto la statua del Re, (Delfino, 2005) è stato presentato alla fiera del libro di Torino. Collabora alle pagine culturali di riviste e quotidiani regionali e nazionali. Ha fatto parte della redazione della rivista “Società sarda”.
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