di Antonino Cusumano [*]
Nello studio delle culture dei popoli non è stato sufficientemente analizzato il ruolo che la pesca ha esercitato ed esercita presso le comunità costiere nella organizzazione delle forme sociali, nella strutturazione degli universi simbolici nonché nell’ordinamento delle norme e dei valori morali. Il dualismo città-campagna, entro il quale e attraverso il quale la ricerca storiografica più avvertita ha voluto inquadrare e spiegare il modello di sviluppo che si è imposto nell’economia del nostro Paese, ha lasciato inevitabilmente nell’ombra lo specifico contributo che a questo complessivo processo di trasformazione hanno recato i centri bagnati dal mare. Eppure, il territorio nazionale si caratterizza per la naturale prevalenza delle aree costiere ed è segnato dal vistoso addensarsi degli insediamenti umani lungo le rive. Ciò, tuttavia, non è valso a determinare “meccanicamente e semplicisticamente”, la nascita di società marinare, di città cioè che hanno costruito sul mare la loro storia economica, sociale e culturale. «Gli abitanti della costa si distinguono fra loro dal modo in cui si rapportano al mare; gli uni costruiscono le case proprio sulla riva, gli altri se ne tengono ben distaccati per non perdere la terra sotto i piedi; i primi hanno il mare sempre sotto gli occhi, i secondi gli voltano le spalle» (Matvejevic 1991:25).
Perché una popolazione rivierasca si trasformi in una comunità marinara è necessario che proietti sul mare la quotidiana ricerca delle risorse indispensabili alla sua stessa sopravvivenza. Occorre che addomestichi le misteriose potenze marine mediante il ricorso a collaudate tecnologie materiali e a strategie collettive di protezione rituale. Dalla terra abitata dai pescatori si guarda al mare come ad una madre severa e generosa, luogo ricapitolativo dello spazio e del tempo, cosmos di memorie e identità. Il mare, dunque, nella rappresentazione degli uomini che vi gettano ogni giorno le reti come a disegnarvi una fitta e inestricabile trama di percorsi, relazioni e appropriazioni, non è soltanto l’habitat fisico delle prede da catturare, ma è anche centro gravitazionale dei pensieri, dei gesti e delle parole di tutta una comunità, che ha affidato ai cicli biologici della pesca la declinazione del calendario delle stagioni e dei ritmi della vita. Il rapporto che i pescatori stabiliscono con il mare non è assimilabile a quello che i contadini intrattengono con la terra. La stessa attività alieutica è una pratica di prelievo e di raccolta di risorse che non sono stabili né coltivabili né tanto meno visibili. La naturale mobilità della preda, l’impossibilità di esercitare un vero e proprio lavoro di sistematica e pianificata produzione che consenta di agire direttamente sul pescato per migliorarne la quantità e la qualità, il carattere irregolare della relazione che passa tra unità di tempo impiegato e unità di beni predati, anche a seguito della molteplicità e complessità dei fattori (oceanografici, climatici, tecnici) che intervengono nel processo lavorativo, questi e altri elementi strettamente connessi alla specificità dell’ambiente marino fanno profondamente diversa la gestione della pesca da quella dell’agricoltura.
Il diritto di proprietà privata, storicamente determinante nella organizzazione degli spazi agricoli, diventa una categoria logico-giuridica quasi del tutto inapplicabile sulla superficie uniforme e fluttuante del mare. I territori della pesca non sono né patrimoni trasmissibili né domini riconoscibili entro rigidi e marcati confini. L’unico “catasto marittimo” possibile è quello che i pescatori istituiscono attraverso l’uso, l’esperienza e la tradizione. «Il mare non è né accumulabile né negoziabile e neppure in una certa misura delimitabile come possono esserlo i beni fondiari» (Dufour 1990: 51). L’identificazione e l’appropriazione delle zone di pesca sono operazioni che attengono alle conoscenze, ai saperi e alle abilità specifiche del mestiere del pescatore.
Il controllo territoriale di uno spazio che non può essere oggettivamente disciplinato dalle leggi della proprietà privata è affidato ai sistemi di riferimento e di orientamento che l’intera comunità marittima ha organizzato e messo a punto nell’arco temporale di più generazioni, una sorta di “mappa mentale” che guida alla partizione delle acque e dei fondali, registra confini e soglie, segnala percorsi, pericoli e distanze. Su questo atlante della memoria precisi toponimi indicano le secche o i banchi più pescosi, altre denominazioni definiscono convenzionali punti di riferimento visuale a terra (“punti di mira”). La localizzazione di boe e galleggianti in funzione di determinate rotte e particolari tracciati contribuisce infine a descrivere le dinamiche territoriali e le migrazioni stagionali di chi è impegnato nell’inseguimento delle prede e nella ricerca di nuove zone di mare da sfruttare. Questi oggetti e questi segni costituiscono, in verità, alcune delle coordinate in cui si articola l’orizzonte spaziale assunto dai pescatori, elementi strutturali di quell’invisibile e potente architettura di simboli destinata a dare ordine e significato alla immensa, eguale e inquietante distesa d’acqua salmastra.
L’uso e l’organizzazione degli spazi del mare in superficie sono evidentemente correlati alla percezione e all’esplorazione dei relativi fondali, alla ricognizione di quel misterioso mondo sommerso abitato dalle diverse specie ittiche di cui un buon pescatore deve conoscere abitudini, cicli di riproduzione e spostamenti. L’osservazione di ciò che resta invisibile all’occhio è resa possibile dall’insieme di pratiche e di saperi tecnici che la comunità ha lungamente elaborato e gelosamente trasmesso entro i tradizionali circuiti familiari e parentali. «È solo pescando che gli uomini acquisiscono le conoscenze che permetteranno loro di avere un diritto d’uso su ciò che diventerà per una comunità, un gruppo, una famiglia, un equipaggio, un territorio di pesca» (Geistdoerfer 1990: 95). Della latitudine nascosta dell’universo-mare primitivi scandagli sperimentati dalle generazioni più anziane hanno ricostruito la natura dei rilievi e le caratteristiche della vegetazione. I dati informativi raccolti attraverso empiriche strumentazioni, appresi per trasmissione orale e archiviati nella memoria etnico-professionale, formano ancora presso le società marinare, che pur dispongono di tecnologie ben più avanzate, patrimoni cognitivi insostituibili, più autorevoli a volte, sicuramente più accessibili delle nozioni scientifiche contenute in certe dettagliatissime carte nautiche.
Il lavoro sul mare non impone soltanto speciali procedure di domesticazione e di codificazione dello spazio. Postula altresì un’opera, non meno delicata e strategica, di plasmazione e rifondazione del tempo. Il calendario delle attività di pesca è strutturato in funzione dei cicli biologici delle specie ittiche da catturare. Ma deve anche piegarsi alle vicende degli elementi atmosferici, all’evolversi dei fenomeni metereologici. Venti, correnti e maree sono variabili dipendenti che hanno un peso specifico considerevole in un mestiere che lascia gli uomini sospesi in un fragile equilibrio tra cielo e mare. Nel quadro delle costrizioni ecologiche legate alle peculiarità dell’ambiente marino, il tempo del lavoro non può essere regolato né misurato dalle usuali scansioni. Irregolare è la durata di permanenza in mare dell’equipaggio, discontinui e contratti sono i ritmi delle operazioni di pesca, indistinta e precaria è la linea di demarcazione che separa le ore della fatica da quelle del riposo. Sfugge ai pescatori la dimensione lineare del tempo, la naturale sequenza cadenzata sul corso del sole che accompagna e governa la vita quotidiana di contadini e pastori. A segnare le unità temporali sono le uscite dal porto e i rientri, le cosiddette “sbordate”, la “calata” e la “salpata” delle reti, solitamente sincronizzate in corrispondenza dell’apparizione o sparizione di qualche particolare stella o dell’insorgere di determinati fenomeni atmosferici o di altri indizi nel cielo. La stessa retribuzione, tradizionalmente disciplinata dal sistema “alla parte”, non è dipendente dal numero delle ore o delle giornate lavorative bensì dalla quantità del pescato sbarcato e/o venduto.
Le regole che valgono a terra sembrano non contare in mare, laddove azioni e responsabilità non sono mai individuali e i codici di condotta di ciascuno sono rigidamente subordinati ai duri vincoli materiali imposti dalle speciali dimensioni ambientali. L’intimo, intenso e quotidiano contatto con il mare priva i pescatori di un concreto ed equilibrato rapporto con la terra. La loro vita si consuma sull’acqua e quanto più prolungato è il tempo che vi trascorrono tanto più debole sembra essere la loro capacità di controllo e di orientamento sulla terraferma. Signori delle onde e dei fondali, padroni delle più diverse tecniche di sfruttamento delle risorse ittiche, conoscono tutte le vie d’acqua antistanti al porto, ma quando vi sbarcano ridotto è il perimetro entro il quale si muovono a proprio agio: tra le banchine del molo e la piazza del mercato. Qui è il centro della loro vita di relazione, luogo d’incontro e di scambio delle informazioni professionali e delle notizie cittadine. Qui, nello stretto spazio che tiene unite le barche alle vecchie bitte logorate dalle funi di attracco, resta ancorata la loro identità di uomini erranti, la cui condizione è assimilabile a quella dei frontalieri, destinati a migrare ininterrottamente lungo quella difficile frontiera che corre tra la fidata costa e l’incerto orizzonte. Con lo sguardo e con la mente orientati verso il mare, anche quando sono a terra, i pescatori vivono un’esperienza dimezzata, sentendosi paradossalmente quasi più protetti nella solitudine delle distese marine che nella babilonia dei traffici urbani. Mentre conoscono perfettamente i punti in cui trovare le cernie e le orate, possono arrivare ad ignorare i luoghi pubblici socialmente preminenti, le sedi del potere amministrativo ed economico, gli uffici di rappresentanza, le banche, il palazzo comunale.
Alla gerarchia territoriale imposta dalle stratificazioni sociali si sommano le specifiche percezioni spazio-temporali direttamente connesse all’esercizio di un mestiere che tende a tenere lontani i lavoratori dalla propria abitazione e dalla propria famiglia, limitando le possibilità di accesso solo a quegli ambienti che valgono a confermare e a rafforzare il senso dell’appartenenza professionale. Attorno all’opposizione fondamentale mare\terraferma, che orienta la rappresentazione logico-simbolica dei pescatori, si struttura una marcata divisione dei compiti e delle funzioni fra uomini e donne all’interno delle comunità di pesca. L’assenza dei primi da ogni forma di partecipazione alla vita familiare accentua il ruolo femminile di supplenza, il gravoso carico di responsabilità delegato alle mogli nella gestione e nell’amministrazione dei beni e delle risorse come nei processi educativi e formativi dei figli. «Con gli uomini lontani, la casa può diventare più che un luogo dove le donne sono confinate, la base del loro potere territoriale» (Thompson 1990: 10).
D’altra parte è la barca il contesto fisico nel quale i pescatori esercitano la loro incontrastata autorità, l’universo entro il quale assumono i saperi e sviluppano le dinamiche di gruppo, l’osservatorio dal quale si sporgono a guardare e giudicare la realtà. Microcosmo autosufficiente come lo può essere una casa, il natante è qualcosa di più dell’indispensabile mezzo tecnico di lavoro. Fulcro di tutta l’attività produttiva, capitale prezioso e perciò stesso carico di cure e di speciali attenzioni, l’imbarcazione è il ponte gettato dagli uomini sul mare, piccolo legno che sfida l’immensità dei flutti, ventre che protegge e rassicura. Entro la sua stiva si dispiega il senso della domesticità dei pescatori, il loro bisogno di sicurezza, i sentimenti tutti umani dell’attesa e della speranza. Il governo e la manutenzione della barca assorbono gran parte del tempo che i marittimi trascorrono sul molo. Il corredo delle attrezzature (reti, nasse, funi, ami, sugheri…) è soggetto a costanti revisioni e periodiche riparazioni. Ogni battuta di pesca va preparata da un accurato lavoro collettivo di raccolta dei materiali e di verifica e messa a punto degli strumenti. Dell’imbarcazione come degli attrezzi ogni pescatore deve essere tecnicamente “padrone”. Dal loro corretto uso e dalla loro perfetta funzionalità dipendono praticamente la sicurezza dell’equipaggio in mare, la capacità di dare soluzioni tempestive ed efficaci ai problemi che insorgono durante le operazioni di pesca.
Il continuo e sistematico controllo esercitato sull’apparato strumentale spiega in qualche modo la conservazione, pur nell’ambito delle moderne società industrialmente attrezzate, di molte delle tecniche artigianali di cattura, la resistenza dei pescatori costieri, in particolare, a introdurre innovazioni nel ciclo tradizionale di appropriazione delle risorse per il timore di perdere quelle garanzie assicurate dalle strategie operative lungamente sperimentate. La stessa permanenza di queste pratiche produttive di tipo arcaico si riconnette alla persistenza di un sistema di regole, tacitamente condiviso e largamente perseguito dalla collettività, volto a tutelare gli equilibri degli habitat naturali e i ritmi biologici della fauna ittica, allo scopo di evitarne il progressivo e rovinoso impoverimento. Un complesso di credenze e di rituali sociali ancora attestati presso le piccole comunità vale ad imporre divieti e tabù funzionali alla difesa di quell’ordine ambientale nel quale si iscrive la ciclica riproduzione dei beni offerti dal mare. Ciò che sul piano delle mediazioni tecniche i pescatori mettono in opera è dunque strettamente correlato a modalità di relazioni e modelli di rappresentazione simbolica orientati a porre ciascuna sequenza dei processi lavorativi entro un adeguato orizzonte protettivo. In questo quadro il mare è percepito come un sistema integrato, una struttura circolare di interazioni dove le vicende umane e quelle dei pesci sono contestualizzate in una complessa trama di mutualità e interdipendenze.
«Tale rappresentazione si impernia appunto sullo statuto oggettivo di essere vivente del pesce, riassunto però in una dimensione antropomorfizzata: la conoscenza dei processi biologici propri di ciascuna specie ittica – cicli vitali, ritmi stagionali – si articola coerentemente infatti con l’attribuzione di qualità e sentimenti quali furbizia, paura, gelosia, delicatezza. Gli uomini e gli esseri che popolano il mare condividono la medesima qualità di creature, in cui simili appaiono i bisogni fondamentali, simile il processo vitale. Entrambi appartengono alla Natura, dei cui ritmi partecipano» (Giallombardo 1990: 162-163).
Le strategie ecologiche tradizionalmente adottate dai pescatori esitano dunque nelle pratiche di adattamento e di adeguamento ai cicli biologici degli animali che abitano il loro stesso universo esistenziale. Tecniche, abilità e saperi sono coerentemente organizzati in funzione di questo controllo della produzione e della riproduzione delle fonti di sostentamento. I meccanismi che regolano l’accesso alle risorse marine e ne governano la gestione non procedono da modelli scientifici di conoscenza né dipendono da livelli individuali di sensibilità. Rinviano invece a modi e forme originali di una cultura specializzata nel processo di domesticazione del mare, di appropriazione del suo patrimonio ittico, una “cultura della pesca” che presenta tratti distintivi e peculiari caratteristiche morfologiche e semantiche. Al centro e a fondamento di questa concezione del mondo è l’acqua, elemento cosmogonico e primordiale, su cui sono fondate le origini mitiche e storiche dell’uomo; simbolo di vita e di vitale energia, ma anche potenza minacciosa, forza naturale da imbrigliare e dominare per trarne e sfruttarne le ricchezze nascoste. Le diverse teogonie che si richiamano alla creatività e alla «sacralità delle acque» (Seppilli 1977) e le molteplici strategie tecnologiche sperimentate dalle collettività dei pescatori per esorcizzare i rischi di una possibile depredazione della Natura, sono i due piani dell’ambivalente rapporto che gli uomini istituiscono con il mare, inteso quest’ultimo come specchio delle speranze e delle paure, spazio della vita e della morte.
Verso la “cultura del mare e della pesca” la ricerca antropologica ha fino ad oggi mostrato un’attenzione debole e parziale. Contrariamente a quanto si è verificato per le società dei pastori e degli agricoltori, anche le più lontane nel tempo e nello spazio, eppure largamente descritte e puntualmente analizzate, le comunità dei pescatori non hanno attratto l’interesse che di un ristretto numero di studiosi. Poco sappiamo ancora della organizzazione della loro vita e ancora meno delle loro dinamiche territoriali. «Purtroppo abbiamo a disposizione un maggior numero di dati sul modo di orientarsi dei polinesiani nei loro lunghi viaggi per le transazioni kula, di quanto ne possediamo per i nostri vicini di casa che operano quotidianamente sul mare» (Mondardini Morelli 1984: 110). Se ciò è potuto accadere è anche perché si è sovente negata autonomia e identità culturale alla categoria dei marittimi, assimilando la loro attività a quella svolta nelle campagne o considerandola a questa complementare, annettendola comunque all’interno dell’ampio orizzonte socio-economico che definisce la “civiltà contadina”.
Studiare le forme del lavoro e le strutture simboliche che identificano la cultura marinara significa dunque in qualche modo recuperare alla conoscenza antropologica una realtà storicamente centrale, economicamente essenziale nell’area del Mediterraneo. Su questo grande mare, antichissimo crocevia delle umane civiltà, si affacciano ancora numerosi e attivi centri che vantano rinomate tradizioni marittime, località portuali dove è possibile trovare in piena operatività attrezzate flotte di motopescherecci d’altura assieme a navigli più o meno consistenti di piccole imbarcazioni costiere. Sulle acque del Mediterraneo pescano oggi natanti di grande stazza munite dell’equipaggiamento più moderno (radar, ecoscandaglio, apparati elettronici, pilota automatico, celle di surgelazione…), abilitati allo sfruttamento dei banchi più lontani e all’esercizio di battute di pesca della durata di più giorni. Ma vi continuano a praticare le tecniche artigianali tradizionali, in forma di integrazione o di esclusiva e principale attività, silenziose barche a remi che ancora con la lampara o con le nasse si allontanano poche miglia dalla costa per la cattura del pesce azzurro e dei crostacei.
La larga diffusione dei sistemi ergologici di tipo industriale non sembra aver cancellato la figura arcaica del pescatore, descritta da Braudel, che «sfrutta il mare come un contadino fa con il campo. Non si allontana mai molto dal porto o dalla cala del suo villaggio. Se alza gli occhi, riesce a vedere casa sua» (1992: 34). La coesistenza di queste due realtà tecnologiche nello stesso contesto produttivo raramente si risolve in sovrapposizione o contrapposizione e più spesso corrisponde a una funzionale divisione di ruoli economici, ad un oggettivo divario dei livelli professionali. Dentro l’universo della pesca tradizionale hanno sempre convissuto più mestieri, un complesso di pratiche diverse specializzate tecnicamente per la cattura di determinate specie ittiche, un ampio ventaglio di attività autonomamente organizzate e distintamente strutturate al loro interno. Lo stesso apparato strumentale, a partire dall’imbarcazione, varia per caratteristiche costruttive, tipologie morfologiche e consistenza patrimoniale, in rapporto a questo o a quel “mestiere” esercitato sul mare.
Procedure, ritmi e sequenze operative fanno profondamente diversa la pesca col cianciolo da quella col tremaglio, quella a strascico da quella con i palamiti o con le nasse. Ognuna di esse costituisce un modello sistemico concluso in sé, ciascuna rinvia ad un articolato quadro socio-culturale connotato da specifiche conoscenze e abilità, permeato cioè dai cosiddetti “saperi” che sono «impliciti nel fare» e appresi «per impregnazione» (Angioni 1986: 91). Il processo di modernizzazione dei mezzi tecnici di produzione alieutica ha certamente impoverito e rarefatto, senza tuttavia dissolverlo, il frastagliatissimo panorama delle “arti” tradizionali di pesca. Alla crisi ormai irreversibile delle tonnare e delle attività finalizzate alla raccolta delle spugne e dei coralli si accompagna la scomparsa delle pratiche artigianali di cattura più povere e minute, l’abbandono di quelle tecniche di predazione più che di pescagione vera e propria, più prossime alla cultura dei cacciatori che a quella dei pescatori, strettamente connesse alle precarie vicende familiari di un’economia di sussistenza oggi del tutto obsoleta.
L’introduzione dei motori nelle imbarcazioni e il ricorso a nuovi materiali di fabbricazione industriale rappresentano senza dubbio i fattori determinanti della trasformazione delle strutture materiali della pesca nel Mediterraneo. Sono cambiate e relativamente migliorate le condizioni professionali dei pescatori. Sono tendenzialmente omologati tempi e tecniche del lavoro, razionalizzati i sistemi di produzione e di commercializzazione a misura di un più largo e selettivo mercato. Sono modificate strategie e modalità operative, in riferimento a determinate fasi di lavorazione. Sono accresciuti il peso e il ruolo delle mediazioni strumentali che l’uomo ha posto tra sé e il mare, in ragione soprattutto di una maggiore sicurezza per la propria vita. Resta tuttavia ineludibile e immutabile, pur nel variare dei modi di produzione, questo rapporto esclusivo e pervasivo che lega i pescatori e la loro vita al magico mondo delle acque, all’effimero gioco delle correnti, al fuggevole argento delle prede. Restano le astuzie e i segreti professionali, i procedimenti empirici e le abilità individuali, i linguaggi e le posture, le credenze e gli stili, le rappresentazioni simboliche e i modelli etici, resta tutto ciò che è patrimonio sommerso di una cultura che è per “natura” decisamente non conservatrice, una cultura che fonda, anzi affonda sul mare la propria identità.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
[*] Il testo che si pubblica in anteprima per gentile concessione dell’Editore è parte di un volume dell’autore, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, in corso di stampa nella collana del Museo Internazionale delle Marionette di Palermo “Antonio Pasqualino”.
Riferimenti bibliografici
G. Angioni, 1986, Il sapere della mano, Sellerio Palermo.
F. Braudel, 1991, Il Mediterraneo, Bompiani Milano.
A. H. Dufour, 1990, Leggere e gestire i fondi marini, in “La Ricerca folklorica” n. 21: 51-55.
A. Geistdoerfer, 1990, Funzioni specifiche delle tecniche di pesca in una produzione alieutica, in “La Ricerca folklorica”, n. 21: 95-98.
F. Giallombardo, 1990, I pescatori e i salatori, in A. Buttitta (a cura), Le forme del lavoro, Libreria Dante Palermo: 160-182.
P. Matvejevic, 1991, Mediterraneo, Garzanti Milano.
G. Mondardini Morelli, 1984, Lavoro e territorio nella cultura dei pescatori. Note preliminari, in “La Ricerca folklorica”, n. 9: 107-112.
A. Seppilli, 1977, Sacralità delle acque e sacrilegio dei ponti, Sellerio Palermo.
P. Thompson, 1990, Il potere nel privato. Variazioni esplicative nelle comunità marinare, in “La Ricerca folklorica” n. 21: 7-12.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015).
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