Nel trentesimo della scomparsa (22 gennaio 1990) Giorgio Caproni torna in libreria con un nuovo titolo, Il mio Enea (Garzanti, «I grandi libri»), che riunisce le testimonianze, in versi e in prosa, del suo singolare incontro con il personaggio virgiliano. I versi sono quelli, celeberrimi, del poemetto Il passaggio d’Enea, eponimo della raccolta apparsa da Vallecchi nel 1956 che, sappiamo, costituisce uno snodo cruciale della poesia di Caproni: il libro che ne inaugura la fase più innovativa e matura, consegnata a opere come Il seme del piangere, Congedo del viaggiatore cerimonioso, Il muro della terra, Il franco cacciatore, Il conte di Kevenhüller, fino al postumo Res amissa. Le prose sono il ventaglio di articoli e la messe di riferimenti distribuiti in varie sedi nell’arco di un quarantennio, a partire dall’elzeviro Enea a Genova (apparso il 7 ottobre 1948 sul settimanale «L’Italia Socialista»).
In questo archetipo Caproni racconta la sua scoperta, nell’estate del 1948, di un piccolo monumento all’Enea fuggitivo del secondo dell’Eneide, con il padre sulle spalle e il figlioletto per mano, incredibilmente ubicato, per lui che era stato per vent’anni genovese, in piazza Bandiera, una delle piazze più bombardate della città più bombardata d’Italia; e giunto lì, per giunta, dopo aver peregrinato, nel corso di due secoli, in altre piazze di Genova. Circostanze che, agli occhi di Caproni, fanno della statua un Enea «in carne e ossa», o meglio il simbolo dell’uomo in fuga da incendi e rovine, proteso a un futuro incerto. Un simbolo che si incide sulla viva carne del presente, raffigurando l’«uomo posto nel centro d’un’azione (la guerra), proprio nel momento della sua maggior solitudine: quando non potendo più appoggiarsi a nessuno (nemmeno al padre, vale a dire nemmeno alla tradizione ch’ormai cadente grava fragilissima sulle sue spalle) egli deve operare, del tutto solo, non soltanto per sostenere se stesso ma anche per sostenere chi l’ha sostenuto fino a ieri (il padre; la tradizione) e chi al suo fianco lo segue: cioè anche per Anchise e per Ascanio». L’inattesa visione, accolta con «eccezionale meraviglia» e «acuta curiosità», inaugura dunque quel ‘tema di Enea’ che il poeta tornerà a declinare fino agli ultimi suoi giorni e di cui questo libro ci restituisce puntualmente il cammino, con l’ausilio del prezioso ‘Baedeker’ allestito da Filomena Giannotti (suddiviso in una appassionata ed esaustiva Introduzione, un dovizioso apparato di Note e una utile Cronologia), e con i pregevoli contributi di Alessandro Fo (Prefazione) e Maurizio Bettini (Postfazione).
Un libro che è una bella scommessa, perché l’idea fissata in quel primo ‘pezzo’ rimane nel corso degli anni sostanzialmente identica, scritta e riscritta fino alla saturazione, tanto da destare una certa insofferenza nello stesso autore: «l’ho detto parecchie volte»; «mi dispiace di dovermi ripetere»; «l’ho già detto e ripetuto mille volte»; «quante volte l’ho già detto». Insofferenza che sfiora in prima battuta anche il lettore, messo di fronte, nella prima parte, a ben sette versioni, più o meno variate, dello stesso ‘pezzo’ e, nella seconda, alle altre ugualmente ripetitive occorrenze del motivo in interviste o altri interventi.
L’azzardo mi sembra felicemente superato: il corpus, in cui Alessandro Fo giunge a ravvisare «una sorta di poema sinfonico, una singolare, sperimentale nuova Eneide della contemporaneità», costituisce in ogni caso un cospicuo apporto alla conoscenza di un aspetto altamente significativo dell’opera di Caproni, aggiungendo al meritorio recupero, con le dovute filologie, di una serie di testi rari il vantaggio di un commento che ne studia con devota dottrina ogni minima variante (un particolare plauso merita il lavoro dedicato a Il passaggio d’Enea, esplorato e discusso centimetro per centimetro, e in un serrato confronto con la ricca letteratura critica che ne è fiorita).
L’Enea di Caproni, l’Enea del «piccolo gruppo di marmo così pudico e quasi vergognoso di sé in questa piazzetta seminascosta, e perciò così familiare e alla portata di tutti», è uno di noi. Non l’eroe, il guerriero, il capostipite di un impero glorioso, ma un pover’uomo solo, solissimo in un mondo che brucia: una figura in cui l’uomo Caproni, dopo il duro battesimo della guerra e della resistenza, cesura che ha sconvolto ogni orizzonte, può rispecchiarsi; e che per il poeta segna il passaggio da una dimensione prevalentemente privata (quella delle raccolte Come un’allegoria [1932-1935], Ballo a Fontanigorda [1935-1937], Finzioni [1938-1939], Cronistoria [1938-1942]) alla cognizione di una sorte condivisa.
Questa figura, che Alessandro Fo riconduce a un «attimo di chiaroveggenza», «un’epifania che illumina, con forte impatto emotivo, un qualche asse portante dell’esistenza», è insomma una di quelle forme privilegiate in cui le ragioni della vita si sposano spontaneamente alle ragioni dell’arte, le ragioni individuali alle ragioni collettive: un condensatore di emozioni, uno specimen che racchiude mondi (e la spia di una condizione universale).
Racchiude, mentre ne è in un luogo appartato racchiusa, la città di Genova, patria elettiva, celebrata in versi memorabili (da Stanze della funicolare a Sirena, a L’ascensore, a Stornello, fino al culmine di Litania, che, non a caso, comprende anche una «Genova di lamenti. | Enea. Bombardamenti»), e protagonista di queste pagine (con la sua «chiusa lingua in salamoia», le «chiuse tradizioni», il «chiuso spirito mercantile», con le sue «bisagnine», cioè le erbivendole, che alla statua di Enea «fecero buona accoglienza data la comodità ch’esse ottenevano per lavare gli erbaggi», con i suoi ‘omerici’ e burberi pizzardoni), per giungere all’amorosa panoramica di Genova (inaugurata da un perentorio «Genova sono io»), che abbraccia l’intera città (dai sobborghi collinari al porto, da Levante a Ponente, dai quartieri borghesi agli angiporti di dubbia fama) e i suoi quadrati quanto umbratili e bizzarri abitanti.
Racchiude «l’umile Italia», che ha il volto «romanico» del poeta Carlo Betocchi, «quell’operaio o artigiano che in realtà Betocchi era, il quale sulle remote orme d’Enea, di contrada in contrada, è sempre andato vagando in cerca d’una nuova speranza da fondare», e l’Italia umiliata e offesa del dopoguerra, con «le case spellate e senza più palpebre di persiane o d’imposte», e la sua «bianca generazione», la generazione azzerata e senza oriente di cui Caproni è parte e che può vedere nell’Eneide, come suggerisce Maurizio Bettini, «un poema assolutamente ‘postbellico’. Un poema che, proprio nella sua interna frantumazione ideologica e poetica, era l’unico capace di rispecchiare un mondo oggettivamente in frantumi».
E racchiude, infine, un messaggio per noi, noi di qui e ora, soprattutto affidato al potere del canto disteso nel Passaggio d’Enea, dove, intorno al pilastro di Enea «solo nella catastrofe», che «in spalla | un passato che crolla tenta invano | di porre in salvo, e «per la mano | ha ancora così gracile un futuro | da non reggersi ritto», Caproni costruisce, tra i versicoli della Didascalia e quelli dell’Epilogo, in ampie arcate di endecasillabi (i Versi), il suo monumento al monumento che gli ha rivelato un aspetto decisivo del suo personale destino. Un aspetto che si irradia certo sul destino della generazione con «la guerra | penetrata nell’ossa»[1], ma che ha la forza di raggiungere il nostro presente. Se «Enea un pontile | cerca che al lancinante occhio via mare | possa offrire altro suolo […] l’imbarco sperato | da chiunque non vuol piegarsi», noi non possiamo non associare il suo «lancinante occhio via mare» allo sguardo sperduto dei disperati in disperante ricerca di un porto quale che sia (che a sua volta si riverbera nei nostri sguardi smarriti di esuli in patria, di expatriot, come il Jim Morrison commemorato da Patti Smith nell’Urlo della farfalla); e non possiamo non sottoscrivere l’appello fraterno (la fraternità attinta dal dolore) di questo «libro antifascista per genesi e natura» (Fo).
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Note
[1] Nel terzo dei coevi Lamenti.
______________________________________________________________
Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
_______________________________________________________________