di Claudio Rosati
Vicino al Museo di Casa di Zela, un museo di comunità in un ritaglio di campagna della pianura pistoiese, a Quarrata, vivono e lavorano le sorelle Gabriella e Stefania Michelozzi, due delle diciotto pastore riprese dalla Anna Kauber nel documentario In questo mondo che vuole essere “una interpretazione femminile” di un “mondo millenario e fortemente patriarcale”. Si può dire che il museo sia in qualche modo in connessione con la scelta delle sorelle Michelozzi perché fa della riflessione sulla ruralità contemporanea e la memoria della campagna una delle sue linee di impegno.
Conosco le pastore per averle incontrate, in alcune occasioni, proprio per il Museo di Casa di Zela. L’ultima volta sono stato a pranzo da loro con altri volontari del museo a conclusione di un incontro con Luigi Berlinguer. Ma la sollecitazione del documentario è servita ad approfondire il caso e a toglierlo da quella vicinanza domestica che spesso è distrattiva e che ci fa dimenticare che la realtà è sempre interpretazione.
Gabriella e Stefania allevano ottanta pecore, sessanta capre e altri animali, non in una zona isolata di montagna, ma a Forrottoli, un piccolo paese a 134 metri di altitudine, in uno dei triangoli, quello di Firenze, Pistoia, Prato, più industrializzati d’Italia. Coltivano orzo, grano e granturco e fanno molte altre cose; in pratica quello che non facevano i pastori che non coltivavano la terra. La pastorizia, in questo caso, è stata all’inizio funzionale al recupero di aree abbandonate e infestate dalla acacia.
Da qui in cinquanta minuti si va in piazza della Signoria a Firenze. In questo caso la risorsa-terra è nell’interstizio di un’area urbanizzata dove la campagna ha conosciuto, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, la monocultura delle piante sempre più industrializzata («il distretto vivaistico più grande di Europa», è uno dei modi di presentarsi). Qui, grazie alla meccanizzazione, è possibile coltivare e vendere una pianta quasi senza toccarla. Con duemila aziende, molte a conduzione familiare, il vivaismo è una realtà economica importante. Con luci e ombre. Sicuramente ha preservato il paesaggio dalla distesa di capannoni che ha lastricato altre campagne d’Italia, ma lascia anche una scia di fitofarmaci di cui si ha sempre più consapevolezza. Insomma, verde e concimi chimici. Quasi un ossimoro.
La specificità pistoiese data dall’ambiente e da una raffinata cultura che si manifestava nel saper spedire le piante «con il ‘pane’ senza che si seccassero», ormai si sta rarefacendo e scomparendo come pratica «trasmessa di generazione in generazione», come recita l’articolo 2 della Convenzione Unesco sulla salvaguardia del patrimonio immateriale. A soppiantarla è la vasetteria, che vede le piante coltivate direttamente in vaso e non più nel campo (Bargellini, 2019). Una tecnica più semplice, più veloce e redditizia ma, proprio per questi motivi, con più concorrenti. In primis, gli albanesi assorbiti nei vivai pistoiesi durante le grandi ondate migratorie e tornati ora in Albania dove hanno impiantato filari di piante lungo la costa di Scutari.
Alle pendici di Forrottoli, dove operano le nostre pastore, il vivaismo è arrivato più tardi rispetto alla pianura. L’area naturale della Querciola, in cui si trova il Museo di Casa di Zela, in una casa colonica che sfida la damnatio memoriae della mezzadria, è un’eccezione perché per estensione è l’unica nella piana tra Pistoia e Firenze con i campi e le coltivazioni tradizionali. Nel resto filari e filari di piante o campi coperti da teli neri e vasi di plastica. Il vivaismo è arrivato qui più tardi perché Quarrata aveva sviluppato un’industria del mobile imbottito che aveva impiegato manodopera altrimenti riservata ai campi. Poi la crisi e la chiusura di molte fabbriche.
L’azienda delle sorelle Michelozzi appare pertanto dissonante rispetto al contesto e disegna insieme a poche altre isole una topografia di campagna interstiziale al pari del lago di Peretola, ai margini dell’autostrada e dell’aeroporto di Firenze, ripopolatosi di recente, malgrado gli aerei che lo sorvolano, con cento fenicotteri provenienti dalla Spagna e dal Marocco.
Gabriella e Stefania Michelozzi tornano così alla terra che non tradisce come quella dei vivai che ha dato redditi notevoli, anche con tasse pagate solo sul reddito dominicale e agrario dei terreni, ma che conosce tutti i rischi dell’impresa industriale. Innestano la tradizione contadina, in parte appresa per impregnazione in casa, con le declinazioni di un’agricoltura attenta alle relazioni con l’esterno. C’è chi dice che la nuova contadinità non è una sopravvivenza del passato, ma una nuova invenzione. Il modello di riferimento, in questo caso, è quello derivato dalla memoria familiare di un’azienda «multifunzionale e autosostenibile» che nel secondo dopoguerra dall’autoconsumo passa alla vendita del surplus. «Se i nonni ci campavano, proviamoci anche noi». Nonni particolarmente capaci se, nel 1958, vincono il primo premio di centoventimila lire per la produttività indetto dal Ministero per l’Agricoltura e le Foreste. Le sorelle ricostruiscono così con la memoria dei racconti e di quando andavano con il secchio a raccogliere le olive, la topografia delle coltivazioni. Capiscono, soprattutto, che per raggiungere l’equilibrio non occorre che ci sia l’ordine ma il rispetto dei tempi della natura.
Alla base della decisione di investire nel podere dei nonni (cinque ettari), non è una risposta allo spopolamento delle aree interne, ma il licenziamento nel 2009 da un call center che ha segnato, per la lunga mobilitazione – un’assemblea permanente di 102 giorni –, la vita e la coscienza di molti giovani. Il call center è un tritacarne. «Se lavori in un call center ti consideri precario anche se sei a tempo indeterminato», dice Duccio (Sofri, 2010). In quel periodo nei call center italiani sono a rischio ventimila posti di lavoro.
«(Io e mia sorella) all’inizio dell’assemblea siamo venute qui per presidiare – racconta Gabriella dell’esperienza dell’assemblea permanente –, noi a casa lavoriamo in agricoltura, abbiamo una piccola azienda di famiglia che si porta avanti dall’800, vista la situazione abbiamo deciso di sfruttare le nostre risorse di casa e il piccolo artigianato legato alla tradizione toscana come le ceste e ci siamo messe a fare i mercatini. Io abito da sola. A novembre raccolta olive e poi venivamo la sera qui. Il presidio è stato duro e difficile, per chi ha presidiato e ha tenuto una certa condotta è stato difficile. Ai mercatini non è che si vende se non ti conoscono e se hai un artigianato diverso dal solito. È stato redditizio sotto Natale, poi noi avevamo una scatola dove c’era scritto che si raccoglievano i soldi per i lavoratori Answers, nel nostro piccolo abbiamo contribuito. Ci siamo un po’ ingegnate all’ultimo momento a fare le marmellate di castagne, abbiamo venduto le piante aromatiche del momento, la nepitella per i funghi. Ero più saltuaria ma partecipavo, mi tenevo frequentemente in contatto con la gente qui e i rappresentanti sindacali. Condividevamo momenti, situazioni, a partire dalla cena al resto, portavamo le (nostre) cose, si condivideva questo (…). Una volta entrate in assemblea permanente il nemico più grande diventa il tempo. Il tempo è nemico, è una corsa contro il tempo, contro lo stress, le privazioni, la paura, i crolli psicologici, l’ansia, le bollette, i debiti, le critiche, le lacerazioni inevitabili» (Bartolini, 2010).
Nel racconto di Stefania, operatrice telefonica, e di Gabriella, supervisora, la conquista di un tempo differente da quello urbano, incardinato nel call center, dà la spinta non solo a riprendere le redini del podere di famiglia, ma a resistere nella nuova vita di pastore e contadine. «Per un anno, dopo il call center, non ho risposto al telefono», dice Gabriella. «Non si tratta di salvare niente, ma di salvare quello che abbiamo perso: la cooperazione, il contatto con la natura, gli aiuti ai vicini. Nei paesi è più facile». A dirlo, con una sintonia che pare così quella di un movimento, è Lucia Sàez, biologa, che ha lasciato la città per fare, con un socio, la stessa scelta di Stefania e Gabriella in una Spagna da paesi sempre più vuota (Moreno, 2019).
Le due pastore imparano a fare il formaggio, l’orto e il vino. Gabriella, all’inizio, collabora con un pastore e con altre persone che «sono nate – dice – sotto una pecora» e si fa accettare in un mondo che considera abbastanza chiuso. Mettono su un agriturismo, Canto di primavera del sogno antico, che ha un livello di autenticità rurale che possono vantare pochi agriturismi nella regione con una delle più alte densità nel settore in Italia: più di 4 mila imprese. Gabriella preferisce però considerare l’impresa come una fattoria.
Su You Tube si vede un filmato promozionale, Pranzo in fattoria. Agriturismo Canto di primavera del sogno antico, che gioca proprio sui valori dell’autenticità. «O come vi siete vestiti?», dice Gabriella nell’accogliere i due sprovveduti ospiti cittadini che pensano di essere andati sì in campagna, ma pur sempre a un ristorante. Con gli altri agriturismi condividono il dato della conduzione femminile: il 44,8% degli agriturismi in Toscana è gestito da donne.
Hanno capacità di stringere alleanze, con i vicini, secondo l’antica usanza mezzadrile dello scambio d’opra ma anche con le pratiche della postmodernità come la maestra di yoga, passando per attività da fattoria didattica. «La nostra agricoltura – dicono – è quella di ottanta anni fa». Mettono a disposizione capre e pecore per la pulitura degli uliveti. Le capre intervengono su terreni incolti o semi incolti, poi entrano in azione le pecore. Dimostrano come «i legami territoriali possono tradursi in preziosa risorsa, aprendo a nuove soluzioni del nesso produzione/consumo (agricoltura biologica o conduzioni economiche meno intensive, canali di vendita diretta o fornitura di domanda aggregata come i Gruppi di Acquisto Solidale, ‘filiera corta’ così via)» (Simonicca, 2013-2014).
Le sorelle Michelozzi declinano queste possibilità che nel loro vernacolo si presentano come naturalmente incastonate in un puzzle, dal corso per diventare agrichef, cuoca della materia prima, alla custodia del territorio. La proiezione pubblica della loro attività – non solo commerciale – ne fa mediatrici (verrebbe da dire che hanno preso dalla precedente esperienza del call center) tra ambiti diversi, in un contesto di antica impronta contadina (“quell’Italia rurale”, di cui parla Franco Arminio), di cui spesso si sono persi o cancellati i fili di collegamento generazionale o culturale. In una campagna che si è dissolta – è significativo che gli orti, in genere, siano più frequenti nei residui urbani – offrono una risorsa per quell’immaginario di cui abbiamo bisogno come consumatori evoluti e politici consapevoli dei limiti dell’attuale sviluppo.
Il Museo di Casa di Zela, preso in questo caso come idealtipo dei musei demoetnoantropologici sparsi in Italia, spesso in aree periferiche, si rivolge a persone che sette volte su dieci abitano in città – in altri Paesi europei il rapporto è già di 8 o 9 su 10 – e che spesso hanno perso anche la memoria generazionale di quella campagna evocata dalle sue collezioni di vanghe e zappe. È a pochi chilometri di distanza ma ha un gap da colmare. È quello del campo nel quale dovrebbe cercare nuove alleanze per accrescere il senso e la ricchezza di una diversità culturale presente su un territorio marcato dalla «polverizzazione del costruito che consuma suolo senza generare città», come dice Joseph Di Pasquale (Cingolani, 2019).
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Riferimenti bibliografici
P. Bargellini, Le trasformazioni del vivaismo pistoiese, in “La Vita”, 17 novembre 2019.
S. Bartolini, Vivere nel call center, in Cgil Pistoia, La lotta perfetta. 102 giorni all’Answer, Pistoia, Settegiorni, 2010: 47-136.
S. Cingolani, Da Singapore a Milano. Né campagne, né periferie. Il centro del mondo è la città, in “Il Foglio”, 14-15 dicembre 2019.
A. G. Moreno, La joven quesera que evidencia lo insostenible de vivir y trabajar en la ciudad, in “El Pais”, 27/XII/2019.
A. Simonicca, Agriturismo, in “AM. Antropologia museale”, n.34/36, 2013-2014: 14-16.
A. Sofri, Per l’ultimo dell’anno si va all’Answers?, in Cgil Pistoia, 102 giorni all’Answer. La lotta perfetta, Pistoia, Settegiorni, 2010: 153-159.
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Claudio Rosati, autore di musei, saggista e docente di Antropologia museale e Comunicazione dei Beni Culturali in corsi universitari. Presiede il collegio dei probiviri dell’International Concil of Museum-Comitato italiano ed è socio fondatore della Società Italiana per la museografia e i Beni Demoetnoantropologici. Ha diretto il settore Musei della Regione Toscana. Ha pubblicato recentemente presso i tipi di Edifir, Amico Museo. Per una museologia dell’accoglienza.
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