di Lella Di Marco
Sono fra le fondatrici dell’Associazione Annassim di Bologna – donne native e migranti delle due sponde del Mediterraneo, alla quale Hend nella conversazione che segue fa riferimento. Una associazione di volontariato di donne che per circa un ventennio ha agito sull’accoglienza con una pratica basata sulla relazione umana, sullo scambio dei saperi nonché sulla valorizzazione delle migranti, con le loro culture, le loro conoscenze non necessariamente accademiche ma inscritte nella genealogia femminile. Con atteggiamento laico abbiamo tralasciato, da sempre, tematiche come la religiosità e la sessualità, per non scatenare conflitti e divisioni. Consideriamo quello religioso un sentimento privato, da vivere in intimità o collettivamente in luoghi condivisi di culto.
In tanti anni molte cose sono cambiate: la stessa consapevolezza delle donne, il loro sentirsi o non sentirsi con coscienza parte della nostra comunità, la desertificazione della politica culturale, la confusione negli approcci e soprattutto le difficoltà della sinistra a capire e gestire il fenomeno migratorio, assieme ad un rapporto di facciata, ambiguo e disastroso.
Adesso stiamo facendo una minuziosa analisi su due decenni di intervento nostro e i limiti-carenze dell’attuale fase politica. Riteniamo la situazione non solo molto critica ma anche pericolosa per la convivenza e la pratica della democrazia. Stiamo riscontrando sempre più elementi buonisti di estrema tolleranza con scelte assistenziali e caritatevoli (a sinistra) e deriva autoritaria, di chiusura e rifiuto (a destra), mentre avanzano i problemi identitari. Di fatto ci sembrano predominanti nel governo del fenomeno la presenza e l’influenza di forze religiose che sostituiscono quelle politiche. Imam ed ecclesiastici, con fare tutt’altro che laico, coordinano dibattiti, accoglienza, mense popolari, assistenza sociale e spesso sanitaria, produzione di idee, favorendo l’avanzare di una certa cultura sempre più distorta, che continua a non vedere il/la migrante come soggetto umano con i suoi bisogni di persona e di cittadino autonomo ma soltanto un minus habens, da continuare a mantenere tale. Bisognoso di eterna assistenza.
Il nostro impegno oggi è lavorare sul piano culturale, provare ad essere “sentinelle” della massificazione dei desideri, combattere le solitudini, le depressioni, i bassi sentimenti di odio, rancore, invidia, disprezzo. Capiamo che ci possano essere punti di vista diversi dal nostro, ma legittimamente contrastiamo con forza opportunismi, arrivismi, scelte di comodo, anche di migranti che saltano sul treno del sovranismo o secondano la copertura di certi partiti politici. Riprendere in mano la cultura, lo studio, l’approfondimento della conoscenza, la produzione di idee, ci sembra indispensabile e urgente. Su questo lavoriamo nativi e migranti laici, dalla parte delle persone. Umanamente e politicamente.
Hend Ahmed è con noi come tante altre, per scelta consapevole. A parte le sue specificità caratteriali, è una persona generosa, disponibile, sensibile alle problematiche sociali, alla buona educazione dei figli, al ruolo della donna e al suo riconoscimento sociale, al bisogno di appropriarsi di strumenti culturali, impegnata soprattutto a combattere il pregiudizio che vuole gli immigrati come parassiti che chiedono assistenza anche quando non ne hanno bisogno. Su questo è disposta a rischiare tutto. Tende sempre, in ogni situazione, ad affermare la sua dignità rifiutando possibilità di privilegi o assistenza sociale. Dice, da sempre, che finché ha forza e salute quello che vuole è soltanto ciò cui ha diritto: un lavoro, una casa, assistenza sanitaria e una buona scuola per i figli. Nell’Associazione Annassim ha un ruolo attivo: intanto è portatrice di informazioni e di conoscenze fondamentali. Fa da mediatrice con altre donne migranti relativamente all’attività dell’associazione e negli incontri istituzionali non ha difficoltà a parlare in pubblico e a rivolgere eventuali critiche ai politici presenti. Ufficialmente si rapporta molto bene con le istituzioni i cui rappresentanti l’apprezzano anche per la sua efficacia comunicativa. Ha una grande abilità intuitiva a capire le persone e le situazioni soprattutto nei dettagli, nelle particolarità che ad altri sfuggono, tanto che la chiamiamo scherzando “l’antropologa della porta accanto”. Lavora per l’aggregazione fra donne e considera il centro Zonarelli come la sua comunità nella quale si trova a suo agio perché si sente accolta, stimata. Negli anni è cresciuta con noi ma anche con i suoi figli che crescevano. Li segue leggendo i loro libri di testo e soprattutto discutendone con loro. Adesso che sua figlia è iscritta all’Università è molto contenta non solo perché la ragazza ha superato il test di ammissione che le dà la possibilità di ottenere l’assegno annuo di tremila euro erogato dalla Regione Emilia Romagna, ma anche per gli stimoli che riceve dalla conoscenza di nuove discipline come l’antropologia.
Nella presente fase, come scritto all’inizio, noi, come attività stiamo sviluppando una riflessione sui nostri venti anni di intervento, ripercorrendo le vite e le consapevolezze di ciascuna per capire quale livello di scambio culturale si è realizzato fra di noi, il rapporto fra noi e la comunità. L’intervista a Hend e altre scritture autobiografiche sono finalizzate anche a fare conoscere uno spezzone di immigrazione dall’interno e dal vivo. È ovvio che senza un nostro luogo garantito nel tempo, per le attività e i nostri incontri, la nostra storia sarebbe diversa e forse si sarebbe interrotta prima. Attualmente abbiamo costituto un’aggregazione territoriale, coinvolgendo anche i commercianti per la gestione di una Biblioteca costituita al centro Zonarelli con iniziative culturali periodiche. Il tutto è stato messo in piedi in maniera volontaria e gratuita tre anni fa, nella logica di “Noi accogliamo con la cultura”, realizzando anche una piccola pubblicazione sul valore della lettura e dello studio. Con nostra piacevole sorpresa abbiamo scoperto che in questo periodo il Comune di Bologna ha lanciato un progetto con lo stesso titolo, però mirato esclusivamente al dialogo inter-religioso.
Cara Hend, preferisci ti faccia delle domande o parli a ruota libera?
«Se devo parlare di me non ho alcun problema. Adesso mi sento veramente libera di esprimere quello che sento. In tutti questi anni di vita in Italia ho capito tante cose, sono maturata come donna e come cittadina. La vita stessa e tante belle relazioni con altre donne, mi hanno insegnato a saper contare sulle mie forze trovando la spinta dentro me stessa, anche a superare pudore, timidezza, insicurezza, senso di inadeguatezza alla realtà in cui mi sono venuta a trovare in Italia ventidue anni fa ed avevo soltanto 15 anni. Ho acquistato forza e determinazione a decidere della mia vita. Scegliere come gestirmi. Ho fatto tale conquiste in Italia da immigrata inesperta di tutto, oggi ho la cittadinanza italiana ma il mio cuore pulsa egiziano.
Io sono nata al Cairo, ho subito respirato aria egiziana, ho preso latte da madre egiziana, la mia lingua materna è l’arabo, il primo pane che ho mangiato è stato il pane egiziano cotto secondo l’antica tradizione egizia».
Fermiamoci un attimo su cosa significa ancora per te essere nata e cresciuta in Egitto, dove abitavi, come era strutturata la tua famiglia, che vita conducevi?
«Intanto il mio riferimento territoriale è una zona dell’Egitto: la capitale e precisamente la zona antica del Cairo, dove esistono ancora le vecchie abitazioni. La mia famiglia occupava una di quelle case, un monolocale a piano terra, dove abitavo con i miei genitori e tre sorelle più grandi di me. L’intimità veniva garantita da tendine divisorie. In quell’unico vano si conduceva la vita.
I miei ricordi sono belli perché avevo affetto, ero nutrita, c’erano i miei e non mi mancava nulla. Mio padre faceva il falegname e mia madre l’infermiera, in loro assenza le mie sorelle si occupavano di me che ero l’ultima nata. La maternità per una lavoratrice egiziana non aveva tutele. Dopo qualche giorno dal parto si ritornava già a lavorare.
Crescendo, la mia vita è cominciata a svolgersi per la strada. Assieme a tutti gli altri bambini che abitavano nella zona. Per la strada non ricordo ci fossero dei pericoli. Non c’era traffico di veicoli, e anche a scuola andavamo da soli, senza accompagnamento di adulti. La spinta educativa era una repentina conquista dell’autonomia, a sapersi governare da soli anche se ancora molto piccoli, ma poi c’era una specie di responsabilità collettiva di tutti i residenti. Come se ciascuno si sentisse responsabile della protezione di ogni bambino ed, anche per strada, avesse il dovere di salvaguardarlo da ogni pericolo. Certo, il Cairo non era la grande città di oggi con traffico, grandi arterie, enormi costruzioni. Tieni conto che in Egitto da sempre le differenze sociali sono enormi. Esistono i poveri e i ricchi che diventano sempre più ricchi e privilegiati. Non c’è uno strato sociale intermedio, come potrebbero essere nei Paesi occidentali i professionisti, medici, avvocati, professori universitari … Non c’è assistenza sociale né sanitaria. Tutto è privato e a pagamento. Anche entrare in un parco e respirare un po’ di aria pura o giocare i bambini poveri da sempre ne sono esclusi».
Come è avvenuta la tua formazione e la preparazione ad entrare nell’età adulta come ragazzina che matura per diventare donna?
«Noi come etnia non siamo arabi ma copti, soltanto dopo la conquista dell’Egitto da parte degli arabi la stragrande maggioranza della popolazione ha assorbito la cultura araba, la lingua e la religione. Io sono stata educata sui princìpi indicati dal Corano, a quella concezione del mondo, della vita e della morte, a quel senso di fratellanza, alla cura del corpo, a renderlo più bello a mantenerlo pulito, non come forma di civetteria o mezzo di seduzione ma per mantenerlo bene, proteggerlo, custodirlo in quanto dono di Dio. L’uso delle essenze profumate per noi è fondamentale, come la depilazione a filo o con una specie di ceretta a caldo, naturale, realizzata con succo di limone e zucchero. Il nostro corpo deve essere sempre liscio, levigato, in ordine, come i capelli che manteniamo sempre puliti, lunghi e raccolti sotto un velo. Per me come per tante altre donne musulmane il velo non è una imposizione. Anche adesso che potrei toglierlo lo mantengo come segno visibile della mia identità. Adesso che conosco tante cose, capisco che anche sul Corano c’è stata una lettura storica diversa a seconda dei tempi. Io penso che tutto quello che fa parte della concezione musulmana della donna per esempio, non è stato indicato da Dio quando ha dettato il Libro sacro, ma è una lettura e un volere politico determinato da chi comandava nei diversi periodi storici, l’ha diffuso come volere di Allah. La stessa cosa è accaduta con i Vangeli nella religione cristiana. Quei testi vanno capiti, decifrati e messi in pratica anche con gli strumenti culturali che ciascuno ha, ma si può dire che l’alfabetizzazione, l’istruzione di massa è un fatto relativamente recente, in tutto il mondo, così a saper leggere erano i sacerdoti, gli imam che spiegavano al popolo, influenzando i comportamenti e determinando la formazione delle idee. Io penso che questo sia reale, altrimenti non si spiegherebbe la continua discussione sulle religioni, sui testi sacri … sul rivedere posizioni interpretative e altro. Per quanto mi riguarda, credo, pratico certi princìpi, trasmetto i miei valori religiosi ai miei figli, non commetto azioni contrarie ai princìpi del Corano e sono in pace con me stessa e con gli altri. Quello che ho mi basta e ringrazio sempre Allah. Penso che la nostra presenza sulla terra è un passaggio temporaneo, e sono pronta a seguire in ogni momento la chiamata di Dio che è un viaggio in un altro luogo. Certo si fa riferimento al Corano anche quando si educa alla sessualità, alla circoncisione per i maschi o ad altre mutilazioni genitali per le bambine per offrirle in dono – così preservate al futuro sposo. Così l’idea del matrimonio e del diventare sposa anche giovanissima è volontà dei genitori per la figlia ma anche aspirazione della stessa bambina che crescendo la rafforza sempre più».
Puoi raccontare episodi o ritualità per te molto belli vissuti anche collettivamente?
«Ricordo come una grande festa per tutti la nascita di un bambino. Collocato in una cesta, veniva portato in giro per il caseggiato, fatto vedere a tutti, perché lo conoscessero e ci fosse uno scambio di voti augurali. La madre intrecciava salti sulla cesta declamando espressioni propiziatrici mentre altri della famiglia distribuivano semi di ogni genere di cereali e legumi, augurando benessere a tutti. Gli astanti rispondono augurando benessere al neonato donando loro soldi. Il tutto per me è come si volesse dimostrare che ogni persona che viene al mondo è un bene per tutta la comunità e quest’ultima se ne deve prendere cura finché non è in grado di essere autonomo e dare il suo contributo attivo.
E poi un rito per me bellissimo era quello della preparazione del pane. In Egitto i tetti delle case sono a terrazza, quindi la superficie è calpestabile, così sul tetto di ogni agglomerato di case tipo condominio, c’è una forno di terracotta alimentato a legna. Le donne in media una volta la settimana salgono con il loro sacco di farina e cominciano ad impastare soltanto con acqua e sale. Dopo la lievitazione naturale riprendono ad impastare per inglobare ancora aria che rende l’impasto ossigenato, quindi più morbido. Dopo un po’ di riposo così da fare lievitare ancora, si riprende la pasta in mano per realizzare come delle palline che vengono schiacciate con il palmo della mano fino a farne una sfoglina rotonda sottile che viene cotta nel forno molto caldo. Quel pane preparato per l’intera famiglia in genere deve essere sufficiente per una settimana, così quello che si prevede non verrà consumato immediatamente sarà fatto asciugare ancora dell’acqua contenuta all’interno, perché non produca muffa, in un altro forno molto caldo ma senza fuoco che arde e poi riposto nelle ceste di vimini diviso in parti uguali fra le diverse donne in rapporto alla farina portata. In Egitto il pane è un alimento fondamentale quotidiano. Accompagna tutti gli altri alimenti necessari al sostentamento come gli stufati di carne e verdure, le salsine, la zuppa di ceci di favino egiziano … o gli stufati di verdura. La nostra cucina ha molte caratteristiche in comune con quella mediterranea come la turca, la greca, la palestinese o libanese, forse anche la siciliana, dove c’è la stessa produzione agricola, legata alle condizioni climatiche del posto. Con i ceci cotti e pestati ridotti in crema, aggiungendo succo di limone, sale olio, e la tajina che è una crema di sesamo aromatizzato con aglio, realizziamo l’hummus, una pasta omogenea cremosa ottima da spalmare sul pane o come contorno a piatti di carne o peste arrostiti su braci di crusca. Un ortaggio che usiamo molto è la melanzana. La cuciniamo in molti modi e arrostita su brace, dalla polpa ridotta a impasto cremoso con l’aggiunta di spezie ed olio realizziamo un altro tipo di humus da spalmare sul pane. Altro piatto vegetale di origine copta sono i falafel, specie di polpette di cereali, spezie e verdure fritte in olio bollente.
Ho citato i cibi tradizionali, quelli che continuano a preparare ancora le mie sorelle in Egitto ma dopo la dominazione inglese soprattutto e con l’apertura al turismo e a molti altri contatti con l’esterno anche nei ristoranti o rosticcerie il tipo di cibo che si serve è tutto uguale, internazionalizzato. Forse i Paesi dove la tradizione, come la nostra, è ancora presente in questo campo sono il Libano e la Palestina.
Per le donne la preparazione collettiva del pane era un evento gioioso e speciale. Una occasione per socializzare, incontrarsi, stare assieme scambiandosi notizie, informazioni, saperi. Io anche se ero molto giovane ho imparato molto in tali incontri».
Torniamo un attimo alla scuola, alle materie che studiavate e di cosa ti è rimasto come impronta culturale, oltre la conoscenza dei fatti
«Io ho frequentato le scuole elementari obbligatorie e poi un corso triennale di formazione professionale. Mi piaceva molto la storia dell’Egitto, la sua cultura riconosciuta in tutto il mondo, il mistero dell’arte egizia e dei faraoni, della scrittura egizia, l’interesse che studiosi e archeologi hanno sempre avuto per il mio Paese, e tutto questo mi ha dato come l’idea di appartenere ad un grande Paese e che anche io come egiziana sarei stata in giro per il mondo, apprezzata e riconosciuta come appartenente ad una grande civiltà, che ha avuto molto da insegnare a tutto il mondo. Ci sono rimasta molto male quando ho studiato la dominazione romana, e il comportamento di Cleopatra. Capisco che non ha senso esprimere dei giudizi sui processi e i personaggi storici ma io non potevo accettare la regina dell’antico Egitto, le scelte politiche e sentimentali e la sua fine a Roma. Questo mi faceva sentire come un senso di sconfitta; lei egizia che aveva dato alla luce, da un potente romano, un figlio anche mezzo scemo…
Viceversa ero molto entusiasta quando ho studiato che la città del Cairo è stata costruita da Jawhar-Siqilli, ingegnere egizio-siculo, nato a Ragusa nel 911 d.C. Ho cominciato da allora ad amare l’Italia e a considerarla come una meta felice della mia vita futura».
È da tale punto di entusiastica scoperta che hai cominciato a maturare il tuo progetto di emigrazione?
«Forse, ma questo in fondo è un dettaglio. La mia scelta è più complessa e meno gratificante per gli sviluppi successivi che continuano ancora e mi producono sofferenza e dolore.
Avevo 15 anni quando si è avvicinato alla mia famiglia un italiano che lavorava in Egitto con una impresa edile. Si era innamorato di me e voleva portarmi in Italia per sposarmi. A me lui piaceva, anche se aveva quasi 25 anni più di me. Mi sono innamorata come si può innamorare una adolescente, acerba, inesperta, immatura che intanto aveva cominciato a vedere nella tv egiziana i canali italiani con le telenovele d’amore. I miei genitori non sono stati contrari. Da subito hanno visto una buona collocazione matrimoniale per la figlia. Tra l’altro loro si erano già separati e in Egitto si cominciava a sentire un po’ di crisi economica.
Per potermi sposare ed avere il passaporto per l’Italia è stata dichiarato che ero maggiorenne. Tutto è possibile con i soldi, soprattutto in Paesi non democratici. Sono arrivata in Italia e precisamente a Bologna pensando di avere il mondo in mano e di vivere come la principessa delle favole. A 16 anni ho avuto la prima figlia e a 17 con il secondo parto, un figlio maschio. Breve periodo di assestamento, cerco di ambientarmi ma sono sola. Frequento la moschea poiché mio marito era entrato in Islam diventando musulmano, e in moschea aveva dei compiti particolari nella gestione del centro islamico, durante le funzioni, la preghiera, le festività. Ricopriva, come italiano che conosceva bene il territorio, incarichi di mediazione con le istituzioni, tipo il Comune, i quartieri, per l’uso del terreno pubblico per costruire luoghi di culto, o con la questura per dei permessi di soggiorno o seguire dei fratelli e sorelle immigrati in pratiche burocratiche.
In quel periodo nonostante i bambini piccoli cui badare mi sono messa a disposizione dell’imam per le pratiche riguardanti la cura dei morti col rito musulmano. Per le donne defunte non c’erano curatrici. Ho fatto un corso di formazione in moschea, e a tutt’oggi sono chiamata anche negli ospedali per occuparmi della preparazione dei cadaveri delle donne e delle bambine, prima della sepoltura. All’inizio l’impatto è proprio traumatico. A parte la questione emotiva ci sono sensazioni diverse. In Egitto tutto avviene subito con il cadavere ancora caldo, non ancora irrigidito. In Italia c’è prima la sosta in cella frigorifera all’obitorio o anche nella camera mortuaria dell’ospedale e quindi con l’irrigidimento della salma la manipolazione degli arti è più difficile come la chiusura degli orifizi e l’uso delle bende di lino.
In seguito il mio matrimonio è stato un delirio e la sofferenza continua, tanto che dopo la nascita del terzo figlio ho deciso la separazione. Tempi molto duri e dolorosi e credo essere riuscita a sopravvivere e a ricostruire me stessa e una vita dignitosa e serena, vita con i miei figli grazie alle relazioni con altre donne fra le quali molte italiane che mi hanno sostenuta e aiutata a conquistare una coscienza come donna, come madre, come cittadina, e a sapere usufruire delle possibilità che un Paese ricco di cultura e democratico può dare. Assieme abbiamo costituito una associazione di donne native e migranti, della quale sono stata anche presidente e da circa 20 anni siamo presenti sul territorio
Oggi lavoro, mantengo e mi occupo dei miei figli che sono la mia priorità. Nei loro comportamenti corretti, nel loro impegno nello studio e nel lavoro, vedo il mio riscatto sociale e umano. Osservo mia figlia di 21 anni impegnata all’università, entusiasta dei suoi studi in lingue, contenta dei suoi successi, delle sue scoperte nel percorso universitario di antropologia e mi sembra di toccare il cielo con un dito. Sono anche il mio successo: essere riuscita a dare loro una vita libera, autonoma, per appropriarsi della cultura indispensabile per essere un cittadino attivo e utile per la comunità intera. Ma il mio cuore batte sempre egiziano».
Perché dici questo? che significa? stai male in Italia, non ti senti appagata, rispettata, capita, apprezzata?
«Non so come essere chiara per farmi capire senza equivoci. Io mi rendo conto che nessun Paese al mondo può appagare pienamente. Credo che quello del Paese che ti rende felice è un falso problema. C’è qualcosa che si rompe dentro e ricucire la ferita che pur sempre rimane è difficile. Una volta ho sentito un filosofo delle migrazioni, sostenere in una conferenza, che nessun immigrato potrà mai essere felice. Forse è vero come è vero che tutto quello che abbiamo intorno non ci aiuta. Se imparo che ho dei diritti come donna, cittadina, lavoratrice e poi sul lavoro sono discriminata o costretta a lavorare 12 ore al giorno senza pausa, e se rivendico i miei diritti sono licenziata: come faccio ad essere appagata anche se sono cittadina italiana? Lo stesso esempio potrei fartelo in tanti altri campi dalla sanità alla abitazione. Pensavo che in Occidente, in un Paese democratico anche i diritti costituzionali fossero garantiti.
E poi in molte situazioni il fatto che sono egiziana viene fuori sempre – è quella parte di identità subito visibile, non che mi dispiaccia ma è quella sulla quale mi devo sempre confrontare, come dovessi giustificarmi. Io stessa, poi, ho sempre l’attenzione rivolta al mio Paese di origine, là dove sono le mie radici. Mi interessano le sue scelte politiche e il suo ruolo nel mondo, le sue relazioni internazionali e le sue responsabilità per lo sviluppo, per l’emancipazione delle donne, per il contrasto al terrorismo, per la cessazione dei conflitti, per la pace. Ero disgustata, enormemente offesa ed umiliata quando, al potere i fratelli musulmani – aggregazione politica islamista, fondamentalista e arretrata culturalmente – usando una visione religiosa (decisa da loro stessi) ha approvato la legge che legalizzava ai mariti la possibilità di congiungersi con la moglie entro 6 ore dal decesso, e restringeva le possibilità di istruzione e lavoro per le donne. Legge per fortuna poi abrogata con il successivo governo, come all’inizio la stessa persona del Presidente Al Sisi mi ha fatto sperare bene soprattutto quando le mie sorelle mi dicevano che aveva preso iniziative a favore dei poveri facendo abbassare il prezzo del pane e della farina. Gli ho scritto anche una lettera, ma presto mi son dovuta ricredere. Ogni volta che ritorno al Cairo non esito ad esporre le mie posizioni ed il livello di consapevolezza democratica che ho conquistato in Italia e non ho paura di espormi prendendo posizioni pubbliche, partecipando alle sommosse di piazza come è stato per la primavera araba e la manifestazione di piazza Tahrir al Cairo. Vorrei non esistessero più nel mondo Paesi autoritari con la negazione della libertà individuale e i fondamentali diritti umani».
Parlami della tua vita a Bologna, come sei organizzata tra figli e lavoro, che relazioni sociali hai, quali sono le tue frequentazioni, se sei inserita nel contesto sociale.
«La mia vita è molto piena soprattutto di ore lavorative ed il mio bisogno maggiore nelle 24 ore è riuscire a fare la doccia in pace e dormire. A volte sono costretta ad uscire alle 3 del mattino per mettere in ordine la merce in negozio. Io lavoro in un grande supermercato nella prima periferia di Bologna che poi è un altro comune. Ho il contratto come facchina, sistemo la merce, la ripongo anche nella cella frigorifera, e poi nel reparto vendite dove ho la responsabilità dei vini e alcolici. Il lavoro è molto pesante con orari e spostamenti di turno imprevedibili. Io lo faccio con piacere anche perché le relazioni con i colleghi e il rapporto con il pubblico sono gratificanti. Sento che mi stimano sia i colleghi che i dirigenti. Aggiungo che quando posso non mi sottraggo alle loro richieste non previste, come per esempio allungare i tempi di lavoro, se ci sono emergenze. In quel posto mi sento utile apprezzata e stimata. Figurati che al bar ci sono, per me, almeno 40 caffè ‘sospesi’ (che non riesco ancora a bere), lasciati da clienti o colleghi che così mi vogliono augurare una buona giornata. E poi le colleghe sono molto gentili, vere amiche, mi invitano alle loro feste familiari o andiamo a mangiare fuori. Mi vedono come una “araba-musulmana” anomala. Non riscontrano pregiudizi in me o chiusure mentali, pur essendo musulmana non ho problemi a toccare le bottiglie di vino o i salumi. Credo che anche il lavoro vada rispettato. Se mi rifiutassi di toccare quella merce creerei dei problemi agli altri nell’organizzazione del lavoro. Io non bevo alcolici né mangio insaccati o carne di maiale, quindi credo di osservare correttamente i precetti del Corano, mentre in tutti i supermercati o centri di ristorazione, molti lavoratori musulmani si rifiutano di entrare in contatto con bottiglie di vino o carni suine. E poi, con me, fra i lavoratori ci sono dei gay e dei ragazzi disabili, io con loro ho buonissimi rapporti anche di solidarietà. Se loro sono in difficoltà corro ad aiutarli. Perché non dovrei? Per me è spontaneo. Tutti i miei colleghi hanno voluto assaggiare i cibi tipici dell’Egitto ed io con piacere li ho preparati per loro. Sono impazziti per i falafel e l’hummus di ceci, così anche per la vendita al pubblico hanno cominciato a prenderli dalla grande produzione industriale. La merce si vende ma il direttore mi ha detto che non c’è confronto con la bontà del cibo preparato da me.
Con un tempo lavorativo così lungo e articolato anche con brevi pause, per me non rimane spazio. Quando torno a casa il bambino piccolo vuole stare con me e spesso quando mi vede distesa sul letto per la stanchezza, mi aggiusta la coperta, mi carezza, mi prende la mano e mi dice “non ti preoccupare Hend a te penso io, adesso riposati e dormi – quando sarò grande e riuscirò a lavorare ti darò tutti i soldi e così non dovrai più lavorare tu”.
Io voglio sempre essere informata su tutto, le mie sorelle dall’Egitto ogni giorno mi mandano info sui fatti più eclatanti e sulla realtà italiana leggo i giornali e le diverse notizie e avvisi che sono postati in rete. E poi se ne parla sempre al lavoro. Quando vado agli incontri della mia associazione o ad iniziative dove mi chiedono di intervenire come immigrata, devo chiedere delle ore di permesso. Il tempo per ogni cosa da realizzare sono ore perse al lavoro, non pagate o che devo recuperare anche di domenica».
Come mai sei parte attiva nell’associazionismo? Hai mai avuto riscontri spiacevoli come migrante egiziana con le tue abitudini?
«La vita e l’operato dell’associazione mi stanno molto a cuore. Con e per mezzo delle donne di Annassim mi sono sentita meno sola, ho cominciato a capire come funziona la politica e quali sono le dinamiche che alla fine sovrastano anche noi, per cui urge un’attenzione continua da parte dei cittadini sulla politica. Ho capito che questo è fondamentale per vivere come cittadini. Accettare e praticare tutti gli strumenti che un Paese democratico ci mette a disposizione, poi se continuiamo a subire ingiustizie nessuno ci può rinfacciare l’indifferenza e il disinteresse. Il mio incontro con l’associazionismo è stato casuale. Quando avevo i bambini piccoli andavo ai giardinetti con loro, a parte che per me egiziana, potere usufruire gratuitamente di un parco attrezzato con giochi e pieno di alberi, era un miraggio, per me, quello, è stato anche un luogo dove ho incontrato molte donne migranti nella mia condizione e molte volontarie del centro Zonarelli. Premetto che io abitavo vicino al centro interculturale dove c’è anche il parco. Un giorno una marocchina e una volontaria dell’associazione Annassim mi hanno chiesto di partecipare al loro corso di italiano per imparare meglio la lingua. L’incontro con loro e la mia partecipazione alla vita del Centro continuano con entusiasmo a distanza di tanti anni. Sono stata nelle scuole con progetti di intercultura, ho partecipato ad iniziative sulla violenza alle donne, sulla repressione delle donne nei Paesi arabi, sulle rivolte della primavera araba in Egitto, sulle femministe egiziane e su alcuni pensatori egiziani costretti a lasciare l’Egitto. Ho accolto per conto del Centro Zonarelli un gruppo di studenti venuti dal Cairo con progetti internazionali. In passato noi come associazione abbiamo avuto assegnati degli orti urbani per coltivare le nostre piante, e così assieme alle donne marocchine abbiamo cercato di fare un orto etnico soprattutto con piante aromatiche. La mia sorpresa è stata grande quando ho scoperto che in Italia mangiate il basilico mentre non fate uso in cucina di malva cotta nel brodo di pollo. Da noi il basilico a foglie molto larghe è una pianta ornamentale per aiuole o ai bordi delle strade, se ne apprezza il verde e l’odore. Maggiore è stata la mia sorpresa quando ho mangiato gli spaghetti con il pesto che ho trovato buonissimi. Adesso lo preparo sempre in estate, per i miei figli, che tra l’altro impazziscono per gli spaghetti con qualsiasi condimento.
Ecco gli orti urbani del comune di Bologna che dopo la nostra richiesta, per noi l’allora sindaco Cofferati e il presidente di quartiere Malagoli hanno fatto cambiare il regolamento, che prevedeva l’assegnazione dei piccoli lotti di terra soltanto ai pensionati di origine contadina o che avessero dimestichezza con l’agricoltura. Certo nel tempo cambiano tante cose anche i comportamenti umani.
Ricordo che all’inizio quando ci hanno viste tutte velate con i vestiti neri e lunghi, gli ortolani bolognesi fra di loro si dicevano: “Eccole, se le lasciamo fare arriveranno anche con i cammelli e pianteranno datteri”. Erano però incuriositi dalle nostre piante e così quando noi, come da nostra usanza, abbiamo cominciato ad offrire loro il tè arabo alla menta o al coriandolo, piante che noi stesse coltivavamo, hanno cominciato ad essere meno sospettosi. Adesso quando ci vedono si alzano e ci salutano. Mentre ci chiedono se vogliamo della menta dai loro orti. Io in quel periodo ho seguito per un intero anno solare un ragazzo universitario di Ferrara che voleva sviluppare una tesi sugli orti urbani come mezzo di socialità per le donne migranti. Per me è stato molto interessante anche per la riconoscenza che mi ha dimostrato lui anche dopo la laurea».
Mi sembra un bel passo avanti, ma di fatto il comportamento iniziale dei vecchi ortolani è stato espressione di un pregiudizio, legato all’etnia, all’estraneo alla loro comunità. Hai vissuto altri episodi del genere?
«Pochi a dire il vero, io frequento pochi luoghi e poi giro sempre in automobile. Una volta sono entrata per un caffè in un centro anziani, mi è stato servito in malo modo ed anche l’igiene mi sembrava poco curata. Ho fatto con gentilezza le mie osservazioni e un vecchietto mi ha risposto che se non mi piaceva potevo tornarmene al mio paese e ha aggiunto che “non esiste che noi migranti veniamo in Italia per comandare”. Che il vecchietto si sentisse minacciato da noi non mi ha sconvolto più di tanto ma l’unica cosa terribile che ricordo e che mi fatto soffrire molto è stata un invito a cena a casa sua, da parte di una donna di Annassim, che poi è andata via dall’associazione. Lei aveva invitato me e una sorella marocchina dicendo di non stare sempre attaccate ai bambini e di lasciarli a casa per quella occasione. Così avremmo parlato fra adulte senza essere disturbate. A parte che per noi uscire di sera è stata una novità e un sacrificio, i bambini piangevano perché volevano uscire con noi. Così li abbiamo portati fuori ma quella signora appena ci ha visto non ci ha fatto entrare dicendoci che dovevamo imparare come si vive in Italia. Io e l’altra siamo andate via mortificate, svalutate davanti ai nostri figli e anche imbarazzate per come avremmo giustificato ai nostri mariti il nostro repentino ritorno a casa. Abbiamo pianto per tutto il tragitto. Io ho perdonato quel trattamento offensivo perché anche la mia religione insegna a non portare odio e risentimento, ma quella è stata proprio l’unica volta in cui mi sono sentita straniera in questo Paese.
Poi mi sono accaduti episodi buffi come il tizio di circa 50 anni che mi vuole aiutare a portare i pacchi o accompagnare in macchina a casa perché non mi stancassi…vabbè ero più giovane ma lui era un cretino che pensava di potermi adescare. Mi ha vista che buttavo dei sacchi di rifiuti nei bidoni vicino l’albergo in cui lavoravo per pulire le camere e pensava chissà che cose strane su di me…Scemo poveretto – ti risparmio la mia risposta. Ho fatto fermare il traffico. Poi, mai successo altro con gli italiani. Unici contrasti con le donne marocchine con le quali adesso evito i rapporti. Loro non accettano il mio essere disinvolta, autonoma e soprattutto di avere deciso io la separazione da mio marito. Dicono che non sono una buona musulmana, che parlo con i maschi, che mangio al tavolo con loro mentre i musulmani devono rimanere separati maschi e femmine e che se mio marito è andato via la colpa è mia. Però questo riguarda la mia storia personale intima e preferisco non parlarne. Le amiche vere di cui mi fido, e il mio avvocato, conoscono i veri motivi della separazione voluta da me.
Di tutta l’attività in Annassim è stato molto bello il periodo in cui ci eravamo organizzate per i catering. Ci chiamavano sia per iniziative pubbliche che private. Anche soltanto per preparare una cena in una famiglia. Una volta addirittura per un matrimonio con un buffet per 300 persone in un parco in una villa a Sasso Marconi. Lavoro bello ma impegnativo con responsabilità sulla scelta degli alimenti e sulla preparazione delle pietanze. Avevamo fatto tutti il corso di formazione richiesto dalla AUSL. Ma poi ciascuna di noi ha fatto altre scelte e il gruppo si è sciolto. Un’altra cosa che mi piace è quando andiamo a parlare con i rappresentanti politici. Scatta da parte loro sempre un interesse positivo nei confronti di una donna straniera araba e impegnata nel sociale. Questo ha funzionato molto bene anche perché siamo state sempre al fianco di italiane. Adesso mi hanno chiesto di collaborare ad un libro collettivo sulla “meticceria”, una specie di indagine su quanto di scambio culturale in tanti anni è avvenuto tra donne native e migranti che si sono relazionate ed hanno fatto assieme attività culturale e sociale. Vedremo cosa verrà fuori».
Da quanto mi hai detto non mi è chiaro del tutto se vedi il tuo futuro in Italia o progetti un ritorno in Egitto.
«Il nostro futuro è sempre nel volere di Allah. In Italia mi sento di avere un posto, un ruolo e finché i miei figli non saranno del tutto autonomi e indipendenti economicamente sono la mia priorità. Loro sentono molto, dall’educazione ricevuta, l’attaccamento all’Egitto dove da piccoli li portavo in vacanza ogni estate. Trovavano i nonni, le zie, i cugini, giocavano per le strade come facevo io da piccola. Si sentivano liberi e parte di una comunità Oggi anche loro hanno altri bisogni ed esprimono desideri diversi
La grande, 21 anni, ha progetti di studi universitari e lavoro qualificato in Italia o in qualche altro Paese europeo. Studia lingue e parla così bene l’arabo che la docente di arabo che ha in facoltà, a volte, preferisce fare leggere lei in aula, perché ha un accento corretto, al posto della lettrice marocchina, venuta dal Marocco. Noi egiziani assieme ai palestinesi siamo i soli, fra i Paesi arabi, a parlare l’arabo classico. Le nostre università sono specializzate. Negli altri Paesi si parlano dei dialetti arabi e a volte anche fra noi arabi la comprensione è difficile.
Il maschio, anni 20, tecnico meccanico, è scontento di questo Paese. Passa il suo tempo tra il lavoro, il sabato in discoteca e gli amici. Mi sembra poco soddisfatto. Dice che l’Italia offre ai giovani poche possibilità per un futuro migliore, e pensa di cercare lavoro a Dubai. Il piccolo non si esprime ovviamente, dice di volersi sposare e rimanere con me. Certo non vedo possibilità neppure in Egitto pensandoci senza nostalgia. Per i poveri in quel Paese la vita non è facile, a parte le restrizioni politiche, la condizione delle donne, la situazione abitativa: sarebbe un calvario. Pensa che ancora oggi nel vecchio cimitero musulmano costruito dai primi arabi al loro arrivo come conquistatori, vivono più di mezzo milione di persone. Hanno sistemato il loro giaciglio su tombe dismesse, hanno portato mobili, televisori, sedie, tavoli, fornelli. Lì cucinano, mangiano, dormono. Ci sono anche sedi di imprese private che non possono affittare una casa. E tende di stoffa determinano i confini e lo spazio dell’intimità familiare.
Se ci penso mi viene l’ansia. E poi sai che in Egitto, se scoprono dei gay li prendono, li torturano e li condannano al carcere? Di ieri la notizia di un ragazzino di 16 anni che aveva una storia con il giovane portiere del suo condominio di 17 anni e che sono stati subito processati e condannati a cinque anni di carcere. In Egitto la concezione della vita e le politiche ormai, sono come nei Paesi occidentali; si mira al profitto, al guadagno esagerato vendendo più possibile quello che si ha, che si produce. Una cosa che mi fa molto male è vedere in questo ampio divario fra gli strati sociali, l’arricchimento esagerato di molti e l’emarginazione sempre più dei poveri. Questi sono esclusi dai consumi, anche da quello che dovrebbe appartenere loro. Per esempio: il cotone egiziano che è il più pregiato nel mondo. Dormire fra quelle lenzuola, ricordo, era una sensazione gradevolissima, con la morbidezza e l’odore di pulito naturale. I campi di cotone vengono coltivati da contadini egiziani, oggi quella produzione di cotone è venduta ad altri Paesi nel mondo che lo usano per biancheria e vestiti di lusso mentre l’Egitto da tali Paesi compra gli scarti per farne tessuti misti a fibre sintetiche. Gli egiziani poveri usano lenzuola in fibra sintetica importate dalla Cina, quelli naturali sono negli alberghi per i turisti occidentali e nei negozi di lusso.
L’Egitto per me è forse il mito della mia infanzia. Lo spazio di quando ero ragazzina e spensierata, Un mio eventuale ritorno nella terra dei faraoni significherebbe anche non ritrovare più i miei genitori, una sorella ed altri parenti, che sono morti. Mentre un’altra sorella che ha sposato un palestinese, vive in Palestina nella fascia di Gaza, fra mille difficoltà. E poi vedi in Italia se hai una casa, il lavoro, nessuno ti disturba. Io vedo delle cose che non mi piacciono come l’eccessiva libertà delle ragazze, il loro modo di vestire, certi comportamenti poco corretti, il correre dietro ai maschi e tentare in qualunque modo di essere come loro. Aggressive, prepotenti, con poco rispetto per adulti e anziani. Allora sento che c’è un modello che loro vogliono seguire, imposto anche dalla televisione ma ci sarà anche la distrazione o l’assenza dei genitori nelle loro famiglie. Ma conosco anche ragazze brave, che probabilmente non vengono apprezzate, perché “non alla moda”, ma ci sono e fra queste vedo mia figlia».
Conclusioni
Lei ha trovato il coraggio di parlarne con le altre donne, senza sensi di colpa, spinta soltanto dalla necessità di capire, ma le contraddizioni che vive sono brucianti. Lei che rifiuta una vita ai margini, l’ubriacatura del consumismo che scopre in molte altre donne e in numerosi uomini migranti, avverte altresì l’impossibile equilibrio tra un modo vecchio di essere e i nuovi bisogni emergenti. Lei che ha capito la mancanza di rispetto maschilista nei confronti delle donne, lo sfruttamento sul lavoro, la bufala del cibo ecologico e gli imbrogli della grande distribuzione nell’agroalimentare propone un modello alle donne più giovani, vivendo le contraddizioni pur dolorose tra la vita che vive e le sue aspirazioni. Ha capito che il grande mercato del consumismo è desolante come la comunicazione-manipolazione delle soggettività è disgregante e produce comunque sofferenza.
Condizione non unica la sua, a proposito della quale andrebbe fatta una puntuale riflessione, appunto, sul complesso rapporto donna-società. Per il momento a lei rimangono il potere e il dovere dell’essere madre attiva e consapevole.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
___________________________________________________________________________
Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.
_______________________________________________________________