Durante un’intervista di qualche tempo fa, il compositore Nicola Piovani ricordava con un certo rammarico la perdita dei suoni e dei rumori che, fino a un paio di decenni prima, sentiva provenire dal caseggiato in cui abitava: le donne che si parlavano da una finestra all’altra, il martellare e gli stridii di trapani e di lime degli artigiani, lo schiamazzo dei ragazzi che giocavano nel cortile, le canzoncine trasmesse dalla radio o cantate da chi effettuava le pulizie casalinghe … Che erano, poi, le voci, i suoni e i rumori della vita quotidiana della gente, che si sono tramandati per secoli, come possiamo arguire leggendo, per esempio, l’Infinito del Leopardi (l’età presente e viva e il suon di lei) e la prima stanza del Sabato del villaggio.
Tutto quel mondo sonoro è scomparso o sta scomparendo confondendosi con un rumore di fondo sordo e monotono. La modernità, con i suoi motori, con la frenesia impostaci da un modo di vivere nevrotico, ha stravolto la quotidianità di una volta e ci ha deformato l’orecchio tanto che non riusciamo più a badare a quei suoni con i quali si manifesta la vita sociale.
Soltanto in particolari situazioni, come quando ci troviamo in aperta campagna, ci rendiamo conto che le immagini che scorrono dinanzi al nostro sguardo vivono perché ci parlano, perché emanano suoni, rumori, sibili: è lo stormire delle piante, è il canto degli uccelli, l’abbaiare dei cani lontani, il tonfare ritmico di un trattore a dare vita ad un paesaggio; senza questi suoni eterogenei non riusciremmo a distinguere un paesaggio da un altro e non ci accorgeremmo che tutto quanto cade sotto il nostro sguardo finirebbe per non dirci nulla di sé. Non si tratta di una colonna sonora, come quella che si adopra nel cinema, che si sovrappone alle immagini in un secondo tempo per cercare di sottolineare i vari momenti delle sequenze filmiche, perché tutti i suoni percepiti e percepibili non sono altro che attestazioni di vita, anzi costituiscono la vita stessa, tra essi e la vita vissuta non c’è nessuna separazione. I paesaggi hanno vita propria e la vista, l’udito e gli altri tre sensi sono soltanto strumenti che ci aiutano a conoscere e a descrivere il mondo che ci circonda:
« … tutto suona nello stesso momento senza priorità, cronologia o graduatoria d’importanza. Tutto giunge al mio orecchio come un vento o un’onda, ma sono io a separare, a distinguere, a dare priorità ed importanza».
Bisogna tener conto, dunque, nella descrizione di un paesaggio sonoro, anche di un fattore di cui spesso ci dimentichiamo: perché, come nell’inchiesta etnografica si corre il rischio di influenzare le risposte dei testimoni,
«Ascoltare un paesaggio è molto diverso dal “semplice” osservarlo, laddove entriamo in una sorta di distanza contemplativa dell’oggetto. Negli spazi acustici c’è una variabile più immediata e significante: noi stessi, che non solo ascoltiamo con le nostre modalità, allegro/adirato, ma entriamo a far parte del paesaggio, occupandolo facendolo rumore, contribuendo a modificarlo».
Queste due riflessioni, appena riportate, si trovano nel recente lavoro di Claudio Corvino (Napoli come non l’avete mai sentita, Newton Compton, Roma 2019), il quale ha provato a descrivere questo insieme di suoni che fa parte della nostra esistenza e che ci avvolge per tutte le ventiquattro ore della nostra quotidianità, cercando nello stesso tempo di isolare, tra il frastuono moderno del traffico automobilistico e la coltre dei rumori della modernità, tutte quelle manifestazioni sonore tipiche e peculiari di ogni città, di ogni villaggio e di tutti i luoghi, anche quelli non umanizzati: un mondo sonoro la cui scomparsa fa rammaricare il maestro Piovani.
Il lavoro di Corvino si inserisce in un campo che per ora ha visto protagonisti solo i musicisti, quei compositori che si rifanno alle teorie di Raymond M. Schafer; sono pochi, infatti, gli interventi di antropologi e di paesaggisti in cui il tema è trattato. In questo modo il volume di Corvino si presenta come una specie di manuale che riguarda il paesaggio sonoro in Italia. La sua analisi si è esercitata principalmente su Napoli, città ritenuta fra quelle più canore del mondo ed anche fra le più rumorose; Napoli, tuttavia, non è il solo luogo su cui l’antropologo pone la sua attenzione, perché, spesso e volentieri, il suo sguardo, per dare maggiore consistenza alla sua riflessione sui paesaggi sonori, si sposta in altre città, su altri gruppi diversi e simili a quelli che popolano la città partenopea; si serve, inoltre, per portare altri esempi, di testi risalenti sia a tempi recenti sia ai secoli passati e talora riferentisi ad altre comunità culturali. In questo modo la sua ricerca si arricchisce di notizie e di informazioni, dandoci la possibilità di capire non solo Napoli ma anche i luoghi in cui viviamo, quelli che andiamo a visitare da turisti e quelli che non vedremo mai perché da noi troppo lontani.
Per trattare questi argomenti Corvino ha girato in lungo e largo e per molti anni la città partenopea, trascrivendo, dopo averlo fissato su un registratore elettronico, tutto ciò che il dispositivo è riuscito a captare, cercando di privilegiare, però, quei suoni che una volta erano quasi peculiari del capoluogo campano e che risuonano ancora negli orecchi di chi vi ha vissuto negli anni passati e in quelli degli abitanti più anziani. E difatti l’antica fonosfera si è persa non solo perché è cambiato il mondo, ma soprattutto perché si trattava di «suoni preindustriali … [che] erano unici e irripetibili, indissolubilmente legati alla persona, animale, cosa o meccanismo che li aveva prodotti». Oggi i suoni percepibili hanno origini da apparecchiature elettriche o elettroniche, e sono, dice Corvino, immortali, perché «vivono nei cavi o nell’etere»; sono inoltre ripetibili, sempre eguali, all’infinito.
Il lavoro di Corvino oltre che lungo è stato improbo, perché innanzitutto, per poter descrivere un paesaggio sonoro, complesso come quello di una città, occorre immergersi pienamente nella sonorità e nella tonalità (“tonica” la chiama l’autore, mutuando il termine da Schafer) di una città e poi, trattandosi di riportare tutto in un libro, bisogna saper trovare le parole adatte, perché la parola scritta, ahimè, è muta. D’altra parte, come trasportare la vita sonora di una città in un libro senza l’intermediazione della parola scritta? Non si può fare altro, pur sapendo, come scrive Isidoro, l’autore delle Etimologie, riportato da Corvino, che «I suoni se non sono trattenuti dall’uomo attraverso la facoltà della memoria, muoiono perché non possono essere fissati mediante la scrittura».
Cosicché, al massimo, seguendo le sue indicazioni possiamo ricostruire con l’immaginazione quello che l’autore del libro ha sentito e fissato sul registratore e nella sua mente. Sarebbe meglio, anziché leggere il libro, ascoltare le registrazioni fatte da lui, o meglio ancora andare a Napoli e sentire direttamente, ma forse ci sfuggirebbe qualcosa, mentre Corvino, da antropologo, può spiegarci o indicarci elementi che da soli non riusciremmo ad intendere.
L’analisi prende la veste di una narrazione che comincia sul treno che da Roma va a Napoli, con la descrizione, quindi, di una stazione ferroviaria, con la sonorità che si manifesta nei treni, fuori e dentro le loro carrozze, fino ad arrivare alla meta, cioè la stazione centrale di Napoli. Sono circa ottanta pagine che servono a Corvino come introduzione e come messa a punto dei concetti necessari per poter poi giungere alla ricostruzione del paesaggio sonoro di Napoli in particolare e di tutti gli altri luoghi e città in generale; nello stesso tempo si danno al lettore tutti gli strumenti teorici e tutti gli esempi necessari per capire l’oggetto di cui si parla.
Dice l’autore: «… osservare Napoli dando la precedenza ad un senso come l’udito anziché alla vista, porta non solo a percezioni, ma anche a considerazioni molto diverse da quelle cui siamo abituati»; perché «contrariamente a quanto si penserebbe, il paesaggio sonoro cela più informazioni di un paesaggio “normale”, esclusivamente visivo». Tra l’altro, usando come terreno di indagine una città che si conosce perché vi si è vissuti, l’esemplificazione diventa più facile da riportare e più facile la spiegazione.
Che poi i rumori siano segnali che hanno un significato “esistenziale” lo sappiamo anche per esperienza quotidiana: il rumore banale delle stoviglie mentre si mangia, quello del pullman di linea che tutti i pomeriggi passa sotto casa nostra alla stessa ora, il pianto di un bambino, ecc., sono tutti fenomeni che conosciamo e che ci permettono di controllare cosa succede intorno a noi. Ma non solo. I rumori e i suoni ci fanno conoscere e capire anche realtà che non riusciamo a vedere: basti pensare al lavoro degli astrofisici, i quali, oltre a studiare il nostro universo con strumenti ottici come i telescopi terrestri e quelli posti sui satelliti artificiali o a bordo delle astronavi, si servono dei radiotelescopi che registrano i suoni che vengono dallo spazio, perfino quelli risalenti a milioni di anni fa, perché ci aiutino a capire cosa è successo e cosa succede nel più profondo buio del mondo interstellare.
Corvino, dunque, per mettere il lettore in condizioni di comprendere cos’è un paesaggio sonoro, parte da lontano, e precisamente dall’acustica, ramo della fisica. Così ci parla del suono e del rumore, ci parla di riverberazione dei teatri, ci racconta la storia dei rumori, ci parla della misurazione dei suoni (i decibel) e della loro percezione, delle patologie da rumore di certi artigiani (la sordità dei calderai di una volta – cui potremmo aggiungere quella di chi usa per lavoro il martello pneumatico, o di chi lavora in una fabbrica di motori per aerei). Ci fa sorridere quando parla dell’uso odierno, da parte degli appassionati di canzonette, di apparecchi diffusori di suoni, tenuti sempre al massimo del volume, tanto da far pensare che ciò possa essere la manifestazione di una volontà di differenziarsi dagli altri, dalla massa anonima, e di essere il protagonista principale di una qualche vicenda (strepito ergo sum). Così bisogna dargli ragione quando ci presenta Napoli come una città vocata al rumore: «A Napoli i rumori non cessano mai anche all’interno delle proprie case. I napoletani li inseguono e li producono in un legame che ha qualcosa di morboso». Non si tratta, però, solo di rumore nelle case private, perché se si va in qualsiasi ristorante di Napoli e della Campania (moda che attecchisce, ahimè, anche altrove) siamo costretti a sopportare il televisore perennemente acceso, oppure ad ascoltare una musica di sottofondo che si manifesta spesso come un pulsare di un basso elettrico fastidioso ed irritante, del tutto arbitrario e inconcludente.
Tutta questa parte introduttiva è quindi destinata all’impianto teorico che risulta denso di nomi, di citazioni di saggi, di concetti. Il che fa presumere che il lavoro ha avuto una gestazione molto lunga, fatta di innumerevoli letture oltre che di ore e ore di registrazione dal vivo di suoni, di rumori, voci, musiche e canti, ecc. ecc. Non mancano le testimonianze e le suggestioni letterarie, in primis degli autori che si sono occupati di Napoli (Serao, Fucini, Ghirelli), ma poi anche di Carducci, di Erri De Luca e, allargando lo sguardo fuori d’Italia, Shakespeare, Goethe, Rilke; né mancano i riferimenti al cinema (Wim Wenders), né quelli alla musica, la classica e quella soprattutto rock e pop (Neil Young, Springsteen, Guccini e il napoletanissimo Pino Daniele). Per non parlare delle citazioni di folkloristi classici come Pitrè, di etnomusicologi come Caravaglios, Favaro, De Simone e dei maestri dell’antropologia (Malinowski, Lèvi-Strauss, Clifford, ecc.). Un volume dunque molto informato e corredato da tanti riferimenti dotti.
Nel ricostruire il paesaggio sonoro della città campana, Corvino va alla ricerca di quei suoni antichi che sono sopravvissuti a quelli che modernamente li hanno sostituiti:
«Si è scelto, si è voluta, alla fine dell’Ottocento, una Napoli che azzerasse tutti quei suoni e rumori particolari, autoctoni e caotici che appartenevano da secoli alla cultura popolare. Niente più serenate al chiaro di luna o grida o esplosioni festive, ma melodie quasi futuriste suonate da automobili e treni, che scorressero ordinatamente e ritmicamente. Per questo, anche per questo, Napoli fu sventrata e penetrata fino al cuore da binari: per i tram, le circumvesuviane, i treni».
Con i molti accenni al passato, il libro di Corvino può apparire a volte come una ricostruzione sentimentale della Napoli di tanto tempo fa, ma senza quella malinconia e quella tristezza che impregnano, per esempio, la nota canzone Munasterio ‘e santa Chiara (Ma pecché, pecché ogne sera, / penzo a Napule comm’era, / penzo a Napule comm’è?). Al tempo in cui la canzone fu composta, la tristezza faceva parte del clima di allora, visto che essa si riferisce ai mesi successivi alla fine del secondo conflitto mondiale che aveva sconvolto condizioni materiali e costumi etici; la situazione degli ultimi decenni forse è ancora più drammatica di quella degli anni quaranta, perché ai danni di una guerra si può sempre rimediare, mentre è difficile se non impossibile farlo per quelli prodotti dalle grandi e rapide trasformazioni sociali e culturali.
È il presente, tuttavia, che attira di più l’attenzione dell’antropologo, un presente in cui si mescolano i suoni di oggi e quelli di ieri, almeno quelli che sono ancora rimasti nella nuova situazione. Suoni e voci, musiche e idiomi che non sono solo napoletani, perché Napoli è ancor più del passato una città multiculturale: «Attraversare piazza Garibaldi è come solcare – ma con molti meno pericoli – in pochi metri le opposte sponde del Mediterraneo»; ed ancora: «Forse la ierophonia dei Quartieri Spagnoli potrebbe diventare una metafora dell’inclusione, della convivenza, del rispetto reciproco e della multiculturalità in cui possiamo vivere nelle nostre più o meno rumorose bolle sonore … ».
Nei Quartieri Spagnoli, accanto a voci suoni rumori diversi (il canto dei neomelodici, i tamburi africani, le musiche asiatiche), c’è infatti una grande molteplicità di colori, di gente proveniente da Paesi lontani:
«Qui … lo spazio non è più solo invaso dall’odore del ragù la domenica, dal sonoro dei film di Mario Merola alla televisione o dagli stereo messi a palla: ora rumori, suoni e storie diverse si alternano e si con-fondono tra loro creando uno streetscape, uno streetsound meticcio che è qualcosa di più della somma dei loro decibel. Sono suoni che raccontano storie di spostamento e immigrazione, di un viaggio non ancora concluso la cui direzione dipende da scelte personali e dalle politiche migratorie della città che accoglie».
Partendo dai suoni e dalle voci Corvino arriva all’illustrazione di attività marginali che, una volta (pure oggi, ma meno di ieri), rappresentavano la molteplice attività vitale di Napoli, quella dentro o appena al di fuori dei limiti della legalità, della quale la più nota è quella dei “pacchi”, cioè della vendita di oggetti di poco valore come fossero prodotti di alta qualità e di grande tecnologia. Davanti a questi personaggi che cercano di guadagnarsi la giornata con iniziative in cui è fondamentale la loro capacità psicologica di capire i sentimenti del pubblico e l’abilità di creare momenti di grande teatralizzazione, Corvino si lascia incantare (come, d’altra parte, dargli torto!), si dimentica della sonorità complessiva del paesaggio e segue le acrobazie oratorie di imbonitori, di banditori, di venditori ambulanti. Così si sofferma a descriverci i banditori della funicolare costretti a elogiare gli oggetti in vendita e a convincere gli astanti a comprarli nel breve tempo che va dalla partenza all’arrivo del mezzo di trasporto. Oppure si dilunga a riportarci l’intervista di Ciro Esposito, detto “il Romano”, e la trascrizione della sua performance, che si trasforma in una delle ultime testimonianze di un fenomeno molto diffuso nei mercati popolari di una volta: «Il Romano appartiene alla schiera degli imbonitori da mercato, dei battitori: intellettuali per eccellenza dell’oralità popolare, creatori e innovatori di quella sua particolare branca che fu la cultura di piazza».
La loro voce, sempre stentorea per farsi sentire dall’uditorio e per sovrastare il gridio degli altri venditori, era uno dei suoni più importanti dei mercatini rionali (come quelli di Fuorigrotta e di Borgo S. Antonio), spesso in dialogo con i colleghi, con gli avventori e con i passanti, in una sorta di drammatizzazione improvvisata. Oggi i mercatini sono stati ridotti, per motivi logistici, di traffico ma anche igienici, in una serie di box che non lascia ai «venditori la possibilità e il bisogno di tenersi in contatto … La nuova struttura è di certo più comoda e asciutta rispetto ai mercati all’aperto, ma molto più silente e restrittiva». A proposito di questi mercatini, Corvino ci regala qua e là pagine molto belle in cui, con l’aiuto di folkloristi e di cronisti, fa rivivere l’atmosfera e la sonorità di strade e di piazze dove era possibile assistere a scenette teatrali nelle quali si condensava la vita delle classi popolari e non solo. Tra queste citazioni, bellissima è quella di un brano vivace, brioso e illuminante di Renato Fucini. E poi trascrive per più pagine i dialoghi tra venditori e acquirenti e le grida dei banditori che il suo dispositivo ha registrato.
I più vivaci di questi teatrini improvvisati erano senza dubbio i mercatini del pesce, dove c’era pure il vecchio pescivendolo che ogni tanto rigirava le vongole per sentirne il suono, azione che gli permetteva di capire se c’erano vongole vuote o deteriorate (si veda il paragrafo Quando le vongole cantano). Queste scene quotidiane di vita vissuta gli permettono di arrivare alla conclusione che:
«… il gioco di realtà-rappresentazione è spesso presente nella sfera pubblica napoletana: si replica qualcosa di teatrale che nella vita quotidiana verrà presa per realtà, che a sua volta darà spunto ad altre forme di rappresentazione, fino a che sarà difficile rinvenire gli elementi dell’una e dell’altra».
Quest’aspetto, a mio parere, è una delle caratteristiche principali della cultura popolare napoletana molto spesso presente nel teatro e nel cinema di Edoardo e di Totò, nonché nelle commedie agite da attori più modesti. Il libro contiene anche notizie minuziosamente raccolte su luoghi sconosciuti ai più e a volte anche agli stessi loro abitanti e «così, in giro per Napoli … ci accorgiamo che ogni strada, piazza o altro ambiente urbano ha una propria voce, una propria tonica, una propria costellazione orchestrale di suoni».
Talora Corvino si lascia prendere la mano dalla realtà che ha davanti e si fa trasportare in altri luoghi e in altri campi, magari contigui alla sonorità che cerca di registrare e, come Predrag Matvejević, presente con una lunga citazione, abbandona i luoghi reali per seguire la vita delle parole e sprofondare nella storia: «Dove la geografia vede linee, la filologia cerca nomenclature».
Ci sono poi le periferie, che sembrano luoghi del silenzio; anche ad esse Corvino rivolge un rapido sguardo. Il silenzio delle zone lontane dal centro (come il Rione Luzzatti di Napoli) è però fallace, in quanto se è vero che non vi è il rombo continuo della modernità, al fondo ci sta la sonorità soffusa di tutti i luoghi… ma «la periferia non fa rumore, sembra non abbia mai niente da dire. O forse non c’è nessuno che la voglia ascoltare». Ovvio che l’attenzione dell’antropologo sia attirata soprattutto dai luoghi vivi, là dove c’è il dominio delle voci, quelle della chiacchiera del bar o quelle gridate dalle donne da un balcone all’altro o quelle dei banditori e dei commercianti ambulanti, perché se le voci umane scompaiono dal paesaggio sonoro di Napoli e di qualsiasi altra città o villaggio, ogni luogo «si svuota di senso, forse anche di storia: restano solo i rumori».
Tutto il lavoro di Corvino ha, tra l’altro, come meta quella di dimostrare quanto già teorizzato da Durkheim, e cioè che i suoni e i rumori di ogni ambiente non sono creazioni dei singoli, ma vanno considerati come fatti sociali: «sono cioè creazioni collettive e storiche, soggette a tutti i mutamenti che lo svolgersi della storia umana determina».
Nel capitolo intitolato Le voci di fuori, l’autore affronta altri problemi, sempre però connessi all’assunto principale del libro: l’uso della voce dal sussurro al grido, il litigio, la chiacchiera, il timbro di voce, i femminielli; la curiosità di Corvino è bulimica e non si lascia scappare nemmeno le briciole di un pranzo fastoso come quello che Napoli offre. Tra gli argomenti affrontati c’è anche quello della “funzione fàtica”, un aspetto importante della comunicazione individuato da Jakobson che, però, Corvino interpreta in maniera diversa rispetto al teorico russo: per questi, la funzione fàtica appartiene al controllo che noi facciamo sui canali di trasmissione della comunicazione (l’aria, il cavo telefonico, l’amplificatore, ecc.), per Corvino, seguendo le tracce di Malinowski, è invece «la base di ogni interazione tra esseri umani, [che] «serve a stabilire legami di unione personale tra persone tenute insieme dal mero bisogno di compagnia».
Nelle ultime ottanta pagine del libro, l’autore affronta il problema dei suoni e dei rumori che in genere nessuno prende in considerazione. Per esempio, c’è un suono del vento che difficilmente riusciamo a percepire se non ci concentriamo su di esso; ma esso esiste, tanto che i nuovi strumenti tecnici di registrazione lo fissano, a nostra insaputa, sui supporti elettronici e lo rendono evidente nel momento della riproduzione.
E poi c’è il mondo naturale che emette suoni, che riteniamo del tutto secondari, a cui in genere non badiamo ma che fanno parte della nostra esistenza. L’attenzione di Corvino cade sul canto degli uccelli, quelli liberi e quelli che sono tenuti in gabbia sui balconi; ci sono le berte sulle spiagge di Napoli, ci sono le rondini e c’è il mare … Nel quale esistono altri suoni, altre voci, come quelle dei pesci, che non sono muti come tutti noi crediamo:
« … avrei giurato che la città fosse il luogo di concentrazione acustica più alto del mondo, che il rumore che qui produciamo fosse il più forte della terra, e invece mi rendo conto che il mare, cioè il 70% circa del nostro pianeta, produce molti più suoni e rumori. E laggiù nessuno si lamenta mai».
E per finire c’è la voce della casa in cui abitiamo, che di giorno non percepiamo ma che sentiamo nel silenzio della notte e che si manifesta con lo scricchiolio dei mobili vecchi, con le bottiglie di plastica ammaccate che improvvisamente schioccano per tornare alla forma originale, con il cigolio di qualche infisso, con l’insistente rodìo dei tarli: tutti rumori che il buio della notte rende indecifrabili e paurosi, che si tramutano in superstiziosi preavvisi di malattie e di morte e che stanno alle origini di molte storie di monacielli e di spiriti vari.
Le ultime pagine del volume ci fanno capire meglio che al centro del lavoro di analisi non è Napoli, perché, in effetti, l’argomento principale del libro è costituito dalla ricostruzione dei vari suoni (voci, rumori, biofonie varie, canti degli uccelli, traffico automobilistico – come sottofondo – richiami, ecc. ecc.) che l’uomo crea e quelli prodotti dall’ambiente che ci circonda. Napoli è solo un pretesto, il paradigma che può essere applicato a tutti i luoghi del mondo. Su suggerimento di Murray Schafer, Corvino ha ascoltato i suoni di Napoli e dintorni e le loro fluttuazioni nel tempo, così come, ascoltando una sinfonia, si cerca nella sua tessitura la ricchezza e la profondità dei significati e il moto delle emozioni che l’arte dei suoni tradizionalmente porta con sé.
Stando così le cose, il titolo dell’opera, Napoli come non l’avete mai sentita, il lungo sottotitolo, e tutta la quarta di copertina, sono quanto meno arbitrari, certamente sono fuorvianti; è molto probabile che siano stati suggeriti all’editore dalla necessità di richiamare l’attenzione di eventuali acquirenti. Come dire che gli interessi economici dell’editore prevaricano su quelli dell’autore che ha, invece, tutto il diritto di vedere il suo lavoro stampato come l’ha concepito e come l’ha scritto e che compaia nelle librerie con un titolo consono ai suoi contenuti. Soprattutto si deve rispettare l’idea da cui è scaturito il libro e l’idea era quella di voler spiegare cos’è e come funziona un paesaggio sonoro, non i suoni di Napoli in particolare che qui, tra l’altro, sono propagandati in copertina come fenomeni pittoreschi. E bisogna rispettare anche i lettori, senza ingannarli con titoli e sottotitoli allettanti ma che poco hanno a che fare con i contenuti trattati dall’autore.
Per concludere: il tema svolto nel volume è quello del “paesaggio sonoro complesso”, il paesaggio cioè umanizzato. Corvino ha scelto di prendere come oggetto di analisi Napoli, una città complessa e complicata, che è cresciuta negli ultimi settanta anni in maniera alquanto caotica, che nella sua storia ha conosciuto momenti di grande splendore culturale e momenti di altrettanto grande degrado sociale. Per questo l’autore ha sentito il bisogno di ricorrere all’aiuto, e alle loro suggestioni, di opere letterarie e culturali classiche ed importanti, che egli fonde con maestria con quelle nate nella cultura popolare e nella moderna cultura di massa. L’opera di Corvino, quindi, oltre a presentarsi come un libro dotto ed erudito, risulta nell’insieme complesso e complicato come la città che è descritta e interpretata. È questo un aspetto che forse lo farà apprezzare di più dai lettori, mentre crea qualche difficoltà a chi lo deve recensire in modo illustrativo e non per fare il lancio di un nuovo titolo, perché talora il filo conduttore del ragionamento si interrompe (rischiando di rendere imbrogliata l’esposizione del recensore) per dar modo all’autore di deviare, attratto dalla molteplicità degli aspetti di una città come Napoli, difficilmente contenibile in uno schema rigido, e con l’ansia di non tralasciare nemmeno quei fenomeni che a prima vista appaiono insignificanti e che costituiscono invece, il background sonoro di ogni paesaggio.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.
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