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Il paese nella vita e nella poesia di Nicola Grato

41ifhwfopcl-_sx321_bo1204203200_di Antonino Cangemi

Nella metà degli anni ’70 del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini denunciò, dalla prima pagina de «Il Corriere della sera» (che gli era stata affidata dall’allora direttore Piero Ottone), il tramonto della civiltà contadina. In quell’articolo, che fece tanto scalpore, Pasolini sostenne che era in atto un processo di omologazione culturale, di cui responsabili erano i mass media (la televisione, innanzitutto) così come controllati dal potere, che conduceva a un mutamento antropologico degli italiani. Quel processo di omologazione culturale avrebbe generato nelle nostre comunità, secondo il poeta di Casarsa, una progressiva e definitiva perdita delle radici e dell’identità contadina.

Probabilmente però la realtà avvistata da Pasolini poco prima di morire in circostanze drammatiche, e per certi aspetti ancor oggi misteriose, era più catastrofica di quanto si è poi andato realizzando nel tempo. Inutile negare che uno sviluppo distorto («uno sviluppo senza progresso», per dirla con le sue parole) abbia generalmente prodotto la mortificazione di certi valori umani propri del mondo rurale (si pensi, per esempio, a quello spirito solidale che prima univa con forza gli italiani e che oggi è sorretto da una energia sempre più flebile), ma nello stesso tempo qualcosa della civiltà contadina tuttora rimane. E rimane soprattutto nei borghi e nei piccoli paesi. Anche se il rischio della prossima soccombenza è sempre alto, e dietro l’angolo. Tant’è che Franco Arminio, uno dei pochi poeti conosciuti e letti in Italia, ha dato vita a una corrente di pensiero nota come «paesologia». La «paesologia» nasce con l’intento di salvare quel che resta dell’universo rurale nei borghi e nei piccoli centri. Salvare tutto ciò che si può salvare, e assaporarne il gusto, fino a che si è in tempo.

Nicola Grato, giovane poeta palermitano tra i più talentuosi, almeno in Sicilia, dell’ultima generazione, nella sua silloge Inventario per il macellaio (Interno Poesia, 2018) manifesta, per i temi trattati e per gli accenti delle sue liriche, l’adesione alla «paesologia» di Franco Arminio. Tanti suoi versi lo testimoniano: «Avere cura salva dall’inferno – / la misura del mondo è lo sguardo d’affetto, / l’incantamento – / per un muro, un vecchio, una stalla, / un rivo secco – per il paese in cui vivo»; «l’uomo paese ha il passo / delle domeniche, sta / in piazza e beve il cielo, / e pare alzarsi in volo quando / suona la campana della messa». Chiaramente Grato ha una cifra poetica propria, distinta da quella di Arminio, una ricercatezza nel lessico, nei timbri e nella forma (mai fine a se stessa o frutto di mero compiacimento) che lo contraddistinguono e, a mio avviso, una felicità di ispirazione più costante rispetto al poeta di Bisaccia.

E peraltro nei suoi versi si sente anche l’eco di alcuni grandi poeti del Novecento italiano: Pavese per certa “vena narrativa”, Scotellaro per il richiamo al mondo contadino. Tuttavia, il tratto più saliente della sua poesia in Inventario per il macellaio (che segna la sua maturità espressiva e una significativa evoluzione rispetto alla precedente silloge Deserto giorno), e ciò che in questa sede preme evidenziare, è che i versi di Grato, allo stesso modo di quelli di Arminio, rivendicano una sorta di resistenza umana – che ha la roccaforte nei paesi – dinanzi alla polverizzazione dei valori propri della civiltà contadina. In altre parole, nella poesia di Nicola Grato si conservano e custodiscono le tracce e, se vogliamo, le ceneri di quella civiltà di cui si è nutrito il nostro Paese.

Col poeta palermitano mi intrattengo in una conversazione che ha come principali argomenti la sua poesia e la “resistenza” della civiltà contadina dinanzi all’incombere devastante dello «sviluppo senza progresso».

arminioNicola, in che misura la tua poesia è legata alla «paesologia» di Franco Arminio?

«Il primo libro di Arminio che ho letto è stato, circa cinque anni fa, Geografia commossa dell’Italia interna. A questo è seguita poi la lettura delle Cartoline dei morti, a mio avviso l’opera più riuscita del poeta di Bisaccia. La paesologia di Arminio si è innestata nel mio percorso di vita direi quasi naturalmente: ho quarantaquattro anni e da sedici vivo stabilmente nei paesi: uso il plurale perché in vario modo negli ultimi anni ho frequentato paesi diversissimi tra loro, cambiato più volte casa e residenza, lavorato e “seminato” tracce in quel territorio che definiamo di Rocca Busambra, il massiccio montuoso più elevato di questo scampolo di Sicilia che corre lungo una martoriata strada, la Palermo-Agrigento, e che dilaga nell’antico feudo dalle coloriture giallastre in estate. La paesologia di Arminio la vivevo da un pezzo, ma non la chiamavo in questo modo: come quasi sempre accade, in un determinato momento della vita che non puoi prevedere, un libro una frase un’esperienza ti portano a riflettere, a guardarti indietro, a progettare il futuro. Arminio ha avuto il grandissimo merito di accendere la luce sui paesi, fragili organismi esposti all’abbandono dei loro abitanti, periferici per definizione. Mia moglie e io abbiamo letto Arminio mentre abitavamo in campagna, a Villafrati: ci ha stimolati l’invito del bisaccese ad abitare i centri antichi dei paesi e così, vuoi per suggestione ma soprattutto per necessità logistiche, abbiamo lasciato la nostra casa di campagna trasferendoci a Mezzojuso, comprando una casa antica nel centro storico. Fin qui alcune note autobiografiche, ma entro nel vivo della tua domanda. La mia poesia è legata alla paesologia nel senso dell’attenzione che ha Arminio nei confronti del “particolare”, delle voci più disparate che si possono ascoltare solo nei paesi.

Quando mi occupavo di teatro a Villafrati capitava sempre che il sabato, prima dello spettacolo programmato in rassegna, Enzo Toto, il direttore del Teatro del Baglio, e io andavamo a passare un po’ di tempo al bar. Il bar è un luogo incredibilmente fecondo per ascoltare storie, le più strampalate talvolta. C’era uno che sapeva Dante a memoria, uno che disquisiva di lemmi dialettali, quello che si lagnava per il tempo e, immancabile, il tipo “scoraggiatore militante”, secondo la definizione di Arminio, ovvero quello che “a prescindere” non crede nel bene del giorno: è vuoto, stanco, apatico. Nei paesi lotti ogni giorno contro questi scoraggiatori militanti, in ogni pratica del tuo vivere. In questi anni ho guardato con ammirazione a Santo Lombino, storico dell’emigrazione e mio grande amico che nei paesi ha sempre creduto e nei paesi ha fatto tanta cultura. Ne riparlerò.

tetiLa poesia è un’arma formidabile contro lo scoramento e la voglia di andarsene che c’è indubitabilmente in ogni paese. Il paese vicino è migliore di questo, la città offre tante cose: discorsi questi che sento quotidianamente, che anche io ho pensato e talvolta penso ancora. Niente di meglio, quindi, che provare una forma di umanità che alza la “bandiera bianca della desolazione”, altra felice espressione di Arminio: chi mi dice che erranza continua, valigie pronte sempre accanto al letto siano da preferire a quella che Vito Teti definisce “restanza”? Se mi permetti, a proposito di Teti, voglio citare un passo del suo libro Pietre di pane: «l’essere rimasto, né atto di debolezza né atto di coraggio, è un dato di fatto, una condizione. Può diventare un modo di essere, una vocazione, se vissuto senza sudditanza, senza soggezione ma anche senza boria, senza compiacimento, senza angustia e chiusure, con un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. Restare significa vivere l’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre “fuori luogo”. Esiste lo sradicamento totale anche di colui che resta fermo»[1].  Ecco, scrivo perché immancabilmente mi sento fuori luogo, residuale; mi arrendo al Mondo che non cerco di cambiare, ma che mi commuove per la sua fragilità. Credo che questa sia la paesologia, di certo questo è il mio punto di osservazione sulle cose, la mia “condizione”: la poesia proviene dalla vita: «Non troverai altro luogo non troverai altro mare. /La città ti verrà dietro. Andrai vagando/Per le stesse strade, invecchierai nello stesso quartiere. /Imbiancherai in queste case. Sempre /Farai capo a questa città. Altrove non sperare, /Non c’è nave non c’è strada per te. /Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto /Tu l’hai sciupata su tutta la terra» (Costantinos Kavafis) [2].

Il paese è per me punto di osservazione e racconto del Mondo: i cambiamenti climatici sono la questione per eccellenza oggi; dai cambiamenti climatici indotti dall’uomo derivano e deriveranno conseguenze terribili per il Pianeta. Matteo Meschiari richiama a ragione gli scrittori alla responsabilità in ordine a queste vicende: è fragile il Mondo, e vecchio. Osservo il nostro Vecchio da un paese vecchio, abbandonato ogni giorno di più. Ferito. Questa è la mia Amazzonia, il mio albero Hibakujumoku che devo custodire: “L’anima mi guarda, seduta/mentre scrivo le preghiere mattutine/– stare in questa misura, il giorno/sarà per tutti –//l’aria si ferma/ogni cosa respira attenta nella sua resa./Custodisci tutte le cose/abitale nel tempo dell’altezza/misurata, il petto scoperchiato come/un’offerta alle piccole/bocche del mistero” (Sebastiano Aglieco)»[3].

pasolini-quello-che-rimpiango-lettera-apareta-a-calvino-paese-sera-08-07-74Le lucciole sono davvero e del tutto “scomparse”, come nella nota metafora pasoliniana, o nei paesi continuano a brillare? Solo i poeti riescono a scorgerne la luce?

«Il famoso articolo di Pasolini apparso sul «Corriere» il 1° febbraio 1975 era stato preceduto da un altro scritto dal Nostro su «Paese sera» datato 8 luglio 1974 dal titolo “Lettera aperta a Italo Calvino: P.: quello che rimpiango”. In questo articolo Pasolini scriveva di rimpiangere l’illimitato mondo contadino che non conosceva le nazioni, gli Stati: «Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente con l’Italietta. Essi vivevano con quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari» [4]. Bisogni necessari, stretto indispensabile, età del pane. Conosco questo mondo per i racconti di mia nonna, dei miei vecchi tutti, non per diretta esperienza come Pasolini o il mio caro Scotellaro. Nei paesi vale la regola che c’è nelle città, senza deroga alcuna: scomparso un mondo, scomparse le lucciole, anche se per la verità qualcuna riesco ancora a vederla in campagna, ma è sempre più raro. I paesi sono fragili, come ho già detto, posso soltanto viverci, testimoniarne le voci, la malattia che ci affligge.

5Ancora si possono osservare comportamenti, gesti, modi di dire che rimandano non già a un tempo di fatica e sofferenza, di fame e violenza (altra faccia della medaglia del buon tempo andato), ma a una società “conviviale” nel senso in cui la intende e la definisce Ivan Illich: «Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni» [5]. Per Illich è “austero” l’uomo che esclude dalla propria vita il superfluo per coltivare la gioia, l’amicizia.

Quello che vedo, che sento nella mia vita nei paesi è la mancanza di gioia, il voler stare insieme; mancano gli spazi del sacro, che evidentemente non possono essere soltanto le chiese o le case di culto. Se un bar organizza una serata danzante, coi suonatori di fisarmonica e chitarra, allora il paese si riversa in quel posto: osservo persone di tutte le età che improvvisano balli, figure. Magari non è niente, qualcuno dirà che il “fil rouge” che tiene tutto questo è l’alcol, il famigerato aperitivo. Può essere. Scorgo tuttavia segni di luce, magari tenui bagliori: questi segni sono dove più netto è l’abbandono, più periferico il mondo; le case chiuse stringono il cuore, ma la speranza è, ad esempio, l’opera poetica di Nino De Vita, che vive in una contrada di Marsala e lì ha scritto tutti i suoi libri; Bufalino raramente metteva fuori il naso dalla sua Comiso; Sergio Quinzio scrive lettere dolorosissime a Guido Ceronetti sulla desolazione sperimentata a Isola del Piano, paese delle Marche in cui il teologo viveva il proprio eremitaggio. Mi si obietterà che parlo di esempi troppo facili: tre intellettuali, tre “consapevoli”, tre borghesi: va bene, ma posso citare il musico cantore animatore Nino Tuzzolino, ex muratore che col suo camioncino variopinto attraversa tutti ma proprio tutti i paesi della provincia di Palermo a portare il “suono”. Posso citare casari presso i cui laboratori mi fermerei ore ed ore, solo per sentire il profumo di un lavoro antico, di una fatica contemporanea. Un parroco di Mezzojuso recentemente ha annunciato di voler suonare le campane “a vivo”, per ogni bambino che nasce. Le piccole cose nei paesi sono miracoli, bisogna esercitare l’attenzione quotidiana per scorgerli: questo è un compito non solo per i poeti ma per tutti, amministratori locali compresi, i quali dovrebbero una volta per tutte liberarsi della pretesa di far diventare la propria comunità “appetibile” per il turismo, “borgo più bello di”, “paese bandiera arancione”. Voglio dirlo chiaramente: mi sta bene che un paese entri a far parte di un circuito “turistico”, ma prima devono stare bene le persone in quel paese, altrimenti si compie un’operazione di pura propaganda elettorale, di sciacallaggio contro questi organismi fragili che sono i paesi».

Secondo te, la Sicilia, per la sua specificità correlata all’insularità, in generale alla posizione geografica, alle tante civiltà succedutesi e alle etnie che si sono incrociate, ha subìto meno di altri territori il processo di omologazione culturale denunciato da Pasolini? La nostra Isola ha un’identità più spiccata e più refrattaria ai condizionamenti, comunque patiti, di uno «sviluppo senza progresso»?

«Mi viene in mente un passo di Bufalino, a proposito della Sicilia. Un’immagine a mio avviso molto bella: «… la donna Sicilia, volta a volta una medusa che impietra e una Mater dolorosa trafitta al cuore da sette pugnali. Forse così converrebbe che un pittore la ritraesse: una Madonna Erinni, con un’aureola sul capo e, sotto la cuffia azzurra, cento viperette nascoste… Un personaggio in maschera, che versa sangue e lacrime vere davanti a una scena di carta» [6]. Le contraddizioni, le maschere, le mosse, i gesti: proteiforme Sicilia: qui ci possono essere luoghi, paesi, financo cortili all’interno dei paesi, in cui la modernità omologante non dico si è arrestata sulla soglia, ma almeno ha rallentato i suoi necessari processi. Sono pezzetti, però; in generale penso che l’omologazione di cui parlava quarant’anni fa Pasolini si sia compiuta in ogni parte d’Italia e quindi anche in Sicilia. Come dicevo prima, esistono ancora spazi del sacro dove si sente il genius loci e in generale, luoghi a parte, ti confronti sempre con le persone: in loro puoi trovare la luce, e se le persone danno luce la ricevono anche i luoghi. Ad esempio ancora nei paesi esiste quella che Capitini chiamava “compresenza” di vivi e morti: per me scrivere poesie equivale proprio a tendere un filo coi morti, annodare le vite nel racconto, nella memoria.

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Museo delle Spartenze, a Villafrati

A Villafrati, su iniziativa tra gli altri di Santo Lombino, è nato il museo delle Spartenze, luogo che si propone di raccontare le migrazioni di questo territorio ma, più profondamente, di tessere legami, fili, come i fili dei gomitoli di lana che dalle navi i migranti lanciavano ai “restanti”: un solido legame che va oltre le contingenze. Potrei qui raccontarti di come la pretesa identità dei paesi vada sbiadendosi giorno dopo giorno: il punto di osservazione è, ad esempio, la festa. Raramente una festa si mantiene fedele a se stessa: una festa nei paesi muore o subisce d’altro canto mutamenti di stampo prettamente economico, che nulla hanno a che fare col senso profondo della tradizione, che è culturale, di trasmissione di un mondo: è il caso del carnevale di Mezzojuso, il “Mastro di campo”, divenuto negli anni manifestazione turistica, attrattiva per cittadini annoiati della domenica pomeriggio. Ma il bicchiere voglio vederlo mezzo pieno, e quindi ti dico che l’identità dei paesi si evolve verso una pluralità di identità: è il Mondo, non possiamo farci niente. Non vale rimpiangere quello che non ho conosciuto, la nostalgia o proviene da ciò che hai sperimentato e che non c’è più o è operazione d’accatto: bisogna scrivere per creare legami con le persone».

Sei nato a Palermo ma vivi a Mezzojuso. La tua è una scelta di vita dettata dal bisogno di vivere in un contesto territoriale più a dimensione d’uomo?

«La mia, la nostra – mia e della mia famiglia – è stata innanzitutto, come ti ho detto, una esigenza logistica: dalla campagna di Villafrati ci siamo trasferiti in paese a Mezzojuso. Mantengo la mia natura di sradicato, in ogni caso: mi sento di tutti i luoghi e di nessuno. Nelle mie poesie c’è Palermo, la città in cui sono nato e in cui ho compiuto i miei studi, e le campagne. Il mare e i boschi. Nei paesi l’incontro con l’altro avviene quasi direi necessariamente. Il modo in cui compongo una poesia o scrivo un racconto ha ormai un metodo che chiamerei occasionale: parlo con qualcuno, mi colpisce una cosa che dice, questa cosa che dice la metto musicalmente in relazione con parole, gesti: diventa un racconto, prende poi la forma dei versi. Questo avviene più facilmente in paese, a mio avviso. Nei paesi esiste ancora il racconto: la dimensione orale si mantiene ancora, la dimensione del cunto. Non è raro che un vecchio che saluti ti fermi e ti racconti una cosa, anche la più in apparenza banale. I nostri sono paesi pieni di vecchi, lo sappiamo bene. Sono luoghi pieni di racconti».

Che ne pensi del caso Riace, dell’esperienza del suo sindaco Mimmo Lucano? Sei dell’avviso che la rivitalizzazione dei paesi passi giocoforza dall’integrazione, specie in una terra come la Sicilia che, storicamente, ha avuto nell’incontro tra culture e civiltà diverse il suo punto di forza?

«Il modello Riace è il modello di riferimento per questo nostro tempo, a mio avviso. Al netto degli inevitabili errori, Lucano ha posto con forza una questione centrale, poetica e politica: l’altro, l’estraneo, lo straniero. Chi arriva da lontano e bussa alla porta di quella che io pretendo essere la mia casa. La questione delle frontiere. In latino hospes (ospite) e hostis (nemico) hanno la medesima radice, il cui primigenio significato era quello di straniero. Lo straniero è un elemento perturbante della logica identitaria, del paradigma immunitario di cui tanta politica odierna si nutre. Eppure se questo è vero storicamente, dobbiamo ringraziare il nemico ospite, lo straniero, che ci rivela stranieri a noi stessi, ci dice che siamo di tutti i luoghi e di nessun luogo, siamo appunto del mondo, siamo spaesati.

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Museo delle Spartenze, a Villafrati

A Villafrati e Mezzojuso si è formata negli ultimi vent’anni una piccola comunità nordafricana; molti sono anche i rumeni. Queste persone sono sufficientemente integrate nel tessuto sociale dei paesi, ma questo è anche più comprensibile: le grandi città sono spersonalizzanti, in paese ancora si può vivere dignitosamente. Tempo fa dal balcone di casa mia sentivo due donne tunisine parlare in arabo e dei bimbi gridare in una lingua mescidata di italiano e dialetto. Ho provato una sensazione di frastornamento dei sensi, un sentirmi non in quel luogo: quello che Heidegger chiama “Unheimlich”, abitualmente tradotto appunto come spaesamento. Dallo spaesamento e nello spaesamento avviene l’incontro con l’altro: l’integrazione è, come diceva Paolo Conte in una sua canzone, parola amara: porta in sé il senso del diritto all’uguaglianza, all’accesso ai servizi ma come la mettiamo con la cultura che uno straniero porta con sé? Integrare qualcuno ha in sé qualcosa di obbligante, mentre accoglierlo significa a mio avviso amarlo per quello che è, amare la sua cultura, la sua lingua. Lucano ha accolto a Riace i migranti che hanno rilanciato l’economia del paese, facendo una cosa bellissima secondo me: aprire le case lasciate chiuse da chi era andato via dal paese. Niente è più triste che una casa chiusa in paese, coi fichi d’india che crescono tra le tegole e l’erba di vento nelle fessure dei muri: «Più i paesi diventano chiusi e più si scrivono storie sul loro passato. Più si svuotano le case e più si rimpiange il buon tempo di una volta e non facciamo niente perché le case, i paesi, le strade tornino ad essere abitati come un tempo. Scriviamo libri che nessuno legge e ci sentiamo a posto con la nostra coscienza» [7]. Così Vito Teti, riflessione questa che condivido, pane quotidiano nei discorsi coi miei amici in paese».

Tra le tue pubblicazioni, a parte le due sillogi di poesie e una raccolta di racconti che meriterebbe di essere ristampata Teresa vestita di vento, vi sono alcune biografie di figure tratte da quell’universo degli sconosciuti, dei residuali che è il tuo universo poetico, tra di esse quelle di Tommaso Bordonaro, il contadino emigrato in America divenuto un caso letterario col suo diario La spartenza. Vuoi ricordarci alcune di queste figure?

«Ho iniziato ad occuparmi di biografie e autobiografie di sconosciuti o quasi dal 2005, anno in cui ho conosciuto un grande studioso di lettere, diari, memoriali: Santo Lombino da Bolognetta. L’occasione mi è stata data da quell’Enzo Toto di cui ho precedentemente parlato: da poco era nato il Teatro del Baglio, teatro di campagna come amavamo definirlo, a Villafrati; Enzo ne era il direttore, Santo e io eravamo nel consiglio di amministrazione. Avevamo avviato una collaborazione con Franco Scaldati, il quale era nel 2005 direttore artistico delle Orestiadi di Gibellina. Scaldati chiese a Enzo di allestire una produzione per questo festival da un libro, La spartenza, di Tommaso Bordonaro, contadino bolognettese i cui scritti memoriali vincitori del “Premio Pieve di Santo Stefano” per i diari inediti, curati da Santo Lombino, erano addirittura stati pubblicati da Einaudi con una prefazione di Natalia Ginzburg. Santo, Enzo e io ci occupammo della drammaturgia dello spettacolo. La lettura del libro di Bordonaro fu per me folgorante. Per me, per noi: per i miei compagni di lavoro e di vita che in quegli anni si chiamavano Giuseppe Di Dato, Rosario Mercante, Maria Angela Ignoti, Giuseppe Esposto, Concetta Lala, Valeria Lo Bue e Salvina Chetta. Ebbene, cosa mi aveva folgorato dello scritto di Bordonaro? Troppo facile dire la lingua, quell’impasto di dialetto, americano e… bordonarese. Non solo, mi aveva colpito soprattutto il racconto. Che sentivo riguardarmi pur nella diversità totale delle esperienze fatte da Bordonaro e dal sottoscritto. Tempi e luoghi diversi, ma un sostrato comune che univa noi e Tommaso: la parola memoriale.

Scotellaro cita il contadino Michele Mulieri, il quale afferma che bisogna lasciare di noi una traccia. Bordonaro con i suoi scritti ha lasciato molliche di pane per noi tutti che cerchiamo sentieri nel bosco. Santo Lombino mi ha poi fatto conoscere altri tesori, altri diari, lettere di sconosciuti autori, quelli che mai saranno studiati in una storia letteraria ma che sono alla base di ogni letteratura. Le voci dei paesi, le voci delle montagne e delle foreste, i cuntatori che in tempi e luoghi remoti da qui parlavano coi fratelli Grimm: Il memoriale di Ciccino Salerno; le poesie di Giovanni Lo Dico; Sabatino Basso e i magliari di Giadresco; Santo Garofalo; Carmela “Millie” Galante e tanti altri. Di alcuni ho anche curato con degli scritti le pubblicazioni.

copertina-nb-6Nel 2012 abbiamo dato vita con Santo, Franco Virga, Salvina Chetta, Pino Di Miceli e altri alla rivista “Nuova Busambra”, nella quale Salvina curava una rubrica, “Nivura simenza”, sulle scritture popolari e io una sui poeti del territorio, “per chi pensa alle cicale”. Abbiamo pubblicato gli scritti di Fortunato Di Fresco, Ezio Spataro, Rosalia Macaluso, Antonietta Zuccaro, Mimmo Tuzzolino, Edvige Giunta. A parte quest’ultima, poetessa italoamericana nota, chi sono gli altri? Eppure dalle loro scritture quante storie, quanto mondo, quante suggestioni. Tempi e luoghi si mescolano nella memoria: Palermo, Bolognetta, Napoli e chissà quanti altri posti: i luoghi di vita di questi eroi del niente, di questi apostoli della parola. Clelia Marchi, contadina lombarda, ha scritto su un lenzuolo la sua vita dopo aver perso in un incidente stradale il marito. Amava ripetere queste parole: «Non potevo più consumare le lenzuola con il marito, e allora ho pensato di adoperarle per scrivere».

Hai fatto riferimento ai racconti “atipici” del mio libro Teresa vestita di vento. Questo è un libro in fondo di biografie, di racconti poetici. Mi sono servito di storie ascoltate nelle occasioni più disparate: a tavola, durante una camminata, nei famosi bar. Personaggi appartenenti a un universo d’abbandono, di scarti. Mi piace qui ricordare il suono di uno strumento povero come la cubba cubba o putipù che dir si voglia: è il tipico suono di una porta malchiusa, di un cardine che sfrega contro un bandello. Il suono di paesi abbandonati, votati forse all’estinzione. Niente di retorico in questo abbandono, in questo che potrebbe risultare un fallimento, nessun sentimentalismo: se vivere costa fatica, vivere nei paesi è paradigma di questa fatica, ma occasione straordinaria per riflettere su di noi, sul nostro ruolo nel mondo, sul futuro da preparare oggi».

Provvisorie conclusioni

Tante le considerazioni e le riflessioni di Nicola Grato: tutte interessantissime; e con esse, come era lecito attendersi da un poeta, talune “licenze” liriche. Nelle sue parole la conferma che la civiltà contadina, quella in cui affondano le nostre radici, se non estinta, é in via d’estinzione; e che, tuttavia, di quell’universo costellato di valori ultimi e profondi – quell’universo rurale oggi ai nostri occhi quasi magico – rimangono tracce, seppure poche, soprattutto nei borghi e nei paesi, non solo nella gente che vi vive ma anche tra le cose e nell’aria che vi si respira. Ma la questione è complicata, perché quei borghi e quei piccoli centri vanno giorno dopo giorno spopolandosi e la residuale umanità di cui sono tuttora testimonianza rischia di essere travolta impietosamente da un’omologazione culturale e antropologica che tutto inaridisce. Vi  possono essere forme di resistenze o risposte a una “modernizzazione” distorta? Probabilmente, per quanto possa apparire paradossale, l’unica soluzione è affidarsi all’utopia. E la poesia come l’accoglienza sono utopie. Quelle utopie alle quali appigliare la nostra (passi l’ossimoro) disperata speranza.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Note
[1] Vito Teti, Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet, Macerata 2011: 21.
[2] Costantinos Kavafis, Settantacinque poesie, traduzione a cura di Margherita Dalmati e Nelo Risi, Einaudi, Torino 1992: 49
[3] Sebastiano Aglieco, Compitu re vivi, Il Ponte del sale, Rovigo 2011: 21
[4] Pier Paolo Pasolini, entrambi gli articoli citati sono riprodotti in Scritti corsari, Garzanti, Milano 1992. La Lettera indirizzata a Calvino con il titolo “corsaro” di Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: 51-55; l’articolo delle lucciole aveva sul «Corriere» il titolo «Il vuoto del potere in Italia».
[5] Ivan Illich, La convivialità, Boroli Editore, Milano 2005: 15
[6] Gesualdo Bufalino, Il fiele ibleo, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1995: 17
[7] Vito Teti, op.cit.: 112.

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia, col quotidiano on-line BlogSicilia e con vari periodici culturali.

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