L’8 e il 9 novembre 2019 si svolse a Camaldoli, nell’Appennino tosco-emiliano, il convegno nazionale “La nuova centralità della montagna”, organizzato dalla Società dei territorialisti e delle territorialiste assieme a numerose altri enti e associazioni. Esso ha permesso uno scambio di idee tra conoscenze specialistiche ed esperienze concrete territoriali che si è concluso con la redazione del Manifesto di Camaldoli per una nuova centralità della montagna qui presentato. Il Manifesto si rivolge all’intera cittadinanza con lo scopo di renderla consapevole che la montagna italiana è chiamata a misurarsi con i cambiamenti in atto, mettendo in gioco le sue potenzialità ambientali, economiche e culturali, non solo a vantaggio di chi la abita o la potrà abitare, ma nell’interesse dell’intero Paese.
Le premesse su cui far leva non mancano. Nella lunga crisi economica e sociale che stiamo attraversando i valori attuali e potenziali della montagna funzionano da cartina di tornasole di molti problemi generali non risolti. Nelle grandi città situazioni caratterizzate da inquinamento atmosferico, disoccupazione, precariato, insicurezza, individualismo, consumismo generano una “domanda di montagna” vista come un ambiente “verde”, che promette libertà, sobrietà, spirito comunitario e così via. Una visione idealizzata, ma con un fondo di vero per quanto riguarda ciò che la montagna potrebbe diventare se si realizzassero certe condizioni.
Nel Manifesto si intrecciano due discorsi strettamente legati tra loro. Il primo confuta idee e immagini relative alla montagna ereditate dal secolo scorso e oggi ancora largamente diffuse. Il secondo ci parla di com’è e di come potrà essere la montagna italiana nel XXI secolo, se sapremo guardarla con le lenti giuste. L’espressione nuova centralità, posta provocatoriamente nel titolo, indica questa direzione. Ci dice che i territori montani non sono poveri per natura. Al contrario sono ricchi di un patrimonio straordinario, le cui potenzialità sono state negate da una modernità che li ha marginalizzati a vantaggio di una centralità oggi in piena crisi. Perché nuova? In un primo senso perché già nel passato la montagna è stata più volte centrale. Lo è stata per le società pastorali dell’età del bronzo, poi nel Medioevo con quei centri di cultura, di innovazioni e di potere che furono i monasteri, o ancora come sede di mercati e fiere importanti. Più tardi con gli Stati di valico come il ducato di Savoia, preistoria del Regno d’Italia, e più di recente come culla della Resistenza, madre della nostra Repubblica. Ma nuova è anche la centralità che dal laboratorio sperimentale della montagna si auspica possa contaminare la vecchia centralità degli agglomerati urbani in termini di cultura del limite, senso civico comunitario, solidarietà, democrazia partecipativa, nuova urbanità.
Ma come si potrà realizzare questa nuova centralità? Anche qui occorre anzitutto sfatare alcuni luoghi comuni. Il primo è che il destino della montagna spopolata sia quello di diventare un parco giochi per vacanzieri in fuga dalle città. Contrariamente a un’opinione diffusa il futuro della montagna non dipende dalla specializzazione turistica più di quanto dipenda dalla presenza di numerose altre attività appropriate ai contesti naturali, storici e socio-culturali locali. Oltre a quelle agro-silvo-pastorali di base e alle filiere di trasformazione dei loro prodotti, sono particolarmente importanti la gestione delle risorse idriche ed energetiche, l’artigianato e l’industria manifatturiera, il recupero del patrimonio edilizio locale, i servizi di formazione e di ricerca applicata. Purtroppo lo spopolamento, con la conseguente perdita di risorse umane ricche di professionalità ed esperienza, ha reso la montagna molto meno produttiva di quanto potrebbe essere.
Montagne spopolate non significa soltanto senza residenti, ma soprattutto senza abitanti-lavoratori capaci di mettere a frutto le risorse locali, di gestirle, evitando che vengano sfruttate, sovente in modo predatorio, da poteri economici esterni. Ecco perché la parte costruttiva del Manifesto è centrata sulla proposta di mantenere in montagna la popolazione nativa oggi costretta a emigrare, affiancandola a “nuovi montanari” di provenienza esterna. Un altro luogo comune da smentire è quello che oppone i montanari agli abitanti delle città, quasi fossero due razze diverse. È vero che in passato le rispettive culture sono state a lungo lontane tra loro, ma oggi per stili di vita, reddito e livello d’istruzione questa distanza si è molto ridotta. Rimangono le differenze derivanti dai rapporti degli abitanti con due ambienti fisici irriducibilmente diversi.
Storici, geografi e antropologi ci dicono che il rapporto delle società locali con i loro ambienti naturali in termini di adattamento reciproco è ciò che nel passato ha prodotto la varietà delle culture montane. Ma la modernità ha forse posto fine a questo rapporto? Niente affatto: in montagna la vita continua ad essere condizionata dalle componenti naturali a seconda dei diversi lavori, da quello degli addetti agli impianti sciistici, a chi lavora nell’edilizia e nei trasporti, ai pastori e ai taglialegna, passando per gli agricoltori, i minatori, le guide alpine, i custodi dei rifugi, fino ai semplici abitanti che coltivano l’orto e spalano la neve dai tetti. Insomma in un modo o nell’altro, oggi come in passato, chi vive in montagna deve interagire quotidianamente con specifiche condizioni ambientali. Lo hanno imparato i “nuovi montanari” che per abitare e fare impresa hanno dovuto adattare le innovazioni tecnologiche di cui sono portatori alle condizioni ambientali locali, valendosi di saperi contestuali trasmessi da generazioni di “vecchi montanari”. Ciò dimostra che un rapporto co-evolutivo iniziato migliaia di anni fa è destinato a continuare e a rinnovarsi continuamente, come d’altronde già in passato, in quanto, com’è noto, la tradizione non è che il risultato di innovazioni di successo. Nel nostro caso si tratta di un passato orientato al futuro, ben diverso da quello nostalgico con cui viene sovente identificata l’identità montana.
Il millenario intervento umano smentisce un altro luogo comune, quello che vede la montagna come un ambiente naturale, governato da equilibri spontanei. In realtà le montagne sono una costruzione umana millenaria che si è retta e può continuare a reggersi solo lottando contro i terremoti e l’erosione dei versanti. Una sua “rinaturazione” può essere solo parziale e va comunque gestita, mentre se intesa come riequilibrio naturale spontaneo non ha alcun fondamento ed è dannosa. Sia perché una montagna lasciata alla “natura” ci priverebbe di produzioni importanti per la loro qualità e per il loro contributo all’occupazione e alla formazione del reddito, sia perché aumenterebbe il rischio di frane e alluvioni che minacciano l’avampaese, città comprese. La proposta del Manifesto di un grande progetto di neo-popolamento parte dalla constatazione che, essendo le nostre montagne un manufatto, esse richiedono una manutenzione continua, che può essere assicurata solo da un altrettanto continuo presidio umano.
Un’altra immagine fuorviante è quella che identifica la montagna con uno spazio puramente rurale, dimenticando che all’interno di essa – nelle valli, nelle conche, sugli altipiani –sono numerose le piccole e medie città che con l’offerta di servizi e di posti di lavoro evitano la desertificazione dei territori circostanti. Nella montagna italiana ci sono varie decine di questi centri, tra cui una dozzina di capoluoghi di provincia o di regione. Questa rete policentrica non va ignorata perché i suoi nodi sono dotati di una certa autonomia funzionale che può trasformarsi in autonomia politica, realizzando quelle forme di autogoverno comunitario che il Manifesto indica come necessarie per tutelare gli interessi delle società montane contro il predominio dei poteri esterni.
È innegabile che abbiamo ereditato dal secolo scorso un conflitto tra territori montani e non montani, tuttora operante per quanto riguarda la priorità degli investimenti pubblici, lo sfruttamento delle risorse naturali, i grandi attraversamenti ferroviari e autostradali e così via. Ma questa contrapposizione non vuol dire che i problemi della montagna interessano solo il suo circoscritto ambito territoriale, Una montagna meglio presidiata ridurrebbe il rischio idraulico, regolerebbe e potenzierebbe la produzione e il flusso di servizi eco sistemici a vantaggio della pianura, rallenterebbe i processi di concentrazione urbana, salvaguarderebbe un patrimonio di interesse non solo montano. Dunque una montagna vivibile e abitata non risponde solo a esigenze di giustizia socio-territoriale, ma è qualcosa che riguarda l’intera organizzazione del territorio nazionale. Come tale essa richiede una visione più ampia, di livello nazionale. Ciò non significa che occorra un piano predisposto e gestito dal governo centrale. Certamente lo Stato deve prevedere investimenti commisurati ai vantaggi che ne derivano al Paese e deve svolgere una funzione di coordinamento, ma le idee progettuali e le modalità attuative spettano anzitutto a “comunità di progetto” formate da attori privati e pubblici, espressione di quelle forme di autogoverno intermedie tra il livello comunale e quello regionale, auspicate dal Manifesto.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Giuseppe Dematteis, professore emerito di Geografia urbana e regionale al Politecnico di Torino e presidente dell’associazione Dislivelli, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche relative a: teoria e metodi delle scienze geografiche e territoriali, geografia economica, geografia urbana, pianificazione e politiche di sviluppo dei sistemi urbani e territoriali, problemi della montagna italiana. Ha coordinato con Alberto Magnaghi l’organizzazione del Convegno di Camaldoli per conto della Società dei territorialisti e delle territorialiste.
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