di Franco Pittau
La comunità italiana in Sud Africa non è mai stata tra quella numericamente più importante nel panorama mondiale, anche se nel continente africano è stata superata solo dal quella insediata in Tunisia. A differenza di quanto è avvenuto in questo Paese dopo il suo accesso all’indipendenza, in Sud Africa gli italiani, pur non così numerosi come una volta, non si sono drasticamente ridotti. La loro storia merita di essere riproposta per due motivi. Innanzi tutto perché si tratta di flussi di vecchia data; diversi motivi hanno legato strettamente gli italiani alle vicende di quel Paese. In secondo luogo perché suscita un particolare interesse l’avventura di un abruzzese che all’inizio degli anni ‘30 del Novecento giunse sul posto dopo aver attraversato l’intero continente o a piedi o con mezzi di fortuna.
Durante la seconda guerra mondiale vicino a Pretoria venne costruito il più grande campo di prigionia per rinchiudervi gli italiani, che furono più di 100 mila. Infine nel dopoguerra i flussi verso il Sud Africa si sono interrotti perché il Paese, nella sua nuova configurazione, non ha più la capacità attrattiva nei confronti degli italiani interessati a fare fortuna, obiettivo una volta realizzato specialmente in ragione della loro eccellente qualità nei vari comparti di lavori edili. A questi aspetti verranno dedicati i vari paragrafi di questo articolo, che attinge le notizie a diversi contributi specializzati.
La prima emigrazione italiana in Sud Africa
Nel periodo delle grandi scoperte geografiche, tra la fine XV secolo e la prima metà del XVI secolo, alcuni navigatori di origine italiana erano approdati nella zona del Capo di Buona Speranza, imbarcati su navi delle potenze europee interessate alle rotte commerciali: essi ebbero così l’opportunità di visitare la zona costiera e prendere contatto con le popolazioni locali.
In questa terra i coloni erano arrivati verso la fine del XVII secolo e vi si insediarono in maniera stabile. Il motivo del loro trasferimento erano state le guerre di religione che insanguinavano l’Europa già a partire a partire dal secolo precedente. Dopo il 1685, a seguito della revoca dell’editto di Nantes voluta da Luigi XIV (1643-1715), che ispirò un’analoga decisione anche da parte di Vittorio Amedeo II duca di Savoia (1675-1730), giunsero dall’Olanda nella colonia del Capo un centinaio circa di valdesi italiani. Originari delle valli piemontesi (Val Pellice, Val Chisone, Val Varaita), questi pellegrini avevano trovato un sicuro rifugio nelle tolleranti Province dei Paesi Bassi. Qui le autorità di governo ricorsero anche ai protestanti italiani per popolare il proprio insediamento del Capo, fondato da poco più di trent’anni prima e perciò bisognoso di agricoltori e di altra manodopera.
Stabiliti i termini del viaggio con la Compagnia Olandese delle Indie Orientali e prestato giuramento agli Stati Generali delle Province Unite d’Olanda, i primi piemontesi valdesi raggiunsero la costa sudafricana il 12 maggio 1688, sbarcando nei pressi della Table Mountain, la catena montuosa che sovrasta Cape Town. L’anno seguente giunse una seconda spedizione, proveniente dal porto olandese di Texel e composta in gran parte da contadini, commercianti e da quattro pastori protestanti. Soggetti alle autorità locali delle Province Unite dell’Olanda, i contadini piemontesi ottennero lo stesso trattamento riservato ai coloni olandesi, manifestando alla lunga una completa assimilazione con l’elemento boero. Sistemati nella valle del fiume Berg, a est di Città del Capo, nelle vicinanze delle attuali Wellington, Paarl e Franschhoek, gli agricoltori valdesi diedero inizio ad una proficua importazione dei vitigni italiani, trapiantati in Sud Africa. È pressoché impossibile la loro quantificazione in termini numerici, perché essi erano molto affini ai membri della comunità degli ugonotti francesi, anch’essi emigrata. La componente piemontese poteva rappresentare all’epoca il 10% degli europei presenti nella regione del Capo. Di questi primi pionieri restano presenti alcuni nomi e toponimi di sicura matrice italiana come Malan, Lombard (Lombardi), Albertin (Albertino/Alberini), Joubert, Violen (Viglione) e forse Botha (Botta).
Nel corso del Settecento la colonia del Capo fu oggetto di un vivo interesse commerciale da parte dei Paesi europei. In accordo con le autorità olandesi, alcuni Stati italiani aprirono a Città del Capo delle rappresentanze diplomatiche, destinate a favorire i traffici commerciali tra la penisola italiana e la regione meridionale del continente africano. Nonostante ciò, le cronache del periodo non danno notizie di una qualche emigrazione italiana verso il Sud Africa, mentre segnano il transito di marinai, missionari, commercianti, militari e avventurieri, che lasciarono comunque poche tracce della loro presenza.
L’assenza di un flusso migratorio dall’Italia per la regione del Capo, era dovuto senz’altro alla diffidenza dei calvinisti verso la confessione cattolica, della quale gli italiani erano i massimi rappresentanti in quanto fedeli del Papa di Roma. Un’eccezione in tal senso fu rappresentata dalla vicenda del gesuita Matteo Ripa. Nato a Eboli in provincia di Salerno, non ancora trentenne, Ripa partì dall’Inghilterra nel giugno del 1708, diretto in Cina. Arrivato al Capo di Buona Speranza nel settembre dello stesso anno, il religioso italiano vi sostò per i rifornimenti due settimane, durante le quali ebbe modo di osservare la vita della colonia, gli usi e i costumi delle popolazioni indigene.
Il XIX secolo proiettò il Sud Africa nell’orbita imperiale della corona britannica. Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese (1789) e l’ascesa al potere Napoleone Bonaparte (1769-1821), gli inglesi occuparono i possedimenti olandesi dell’Africa meridionale. L’arrivo del governo di Londra favorì in parte il superamento della pregiudiziale anticattolica per l’emigrazione in Sud Africa, dove da questo momento iniziarono ad arrivare diversi italiani, espressione per lo più dell’aristocrazia. Ai nobili, negli anni seguenti, si aggiunsero altri italiani delle classi sociali più umili, in cerca di lavoro e fortuna. Impegnati in diverse attività lavorative, essi si distinsero in particolare nei lavori agricoli, nella pesca, nell’artigianato, nel commercio e nelle opere di costruzione in generale. Lontani da casa e guardati in alcuni casi con sospetto per la loro fede cattolica, questi italiani ebbero il grande merito di inserirsi con ingegno nella società sudafricana, ottenendo alla lunga ottimi risultati.
Emblematiche nel corso del XIX secolo furono le vicende di Teresa Viglione e Giuseppe Rubbi. Originaria del Piemonte, Teresa Viglione si rese protagonista nel 1838 di un coraggioso episodio che le permise di guadagnarsi la riconoscenza storica della comunità boera. Durante il Great Trek, Teresa salvò la vita ad una colonna di boeri in marcia, avvertendoli dell’imminente attacco degli indigeni del luogo. Nel 1938 il governo dell’Unione Sudafricana ricordò il gesto della ragazza italiana in uno dei bassorilievi in marmo scolpiti a Pretoria, che costituiscono il monumento dedicato ai protagonisti della Grande Migrazione.
Nato a Marostica in provincia di Vicenza nel 1873, Giuseppe Rubbi giunse a Cape Town dopo aver trascorso alcuni anni in Argentina. Uomo colto e raffinato, Rubbi raggiunse in Sud Africa i più alti traguardi, divenendo alla fine un famoso costruttore. Dopo aver esercitato la professione di carpentiere presso le miniere aurifere del Transvaal, egli ritornò a Città del Capo, dove realizzò diverse opere (palazzi, chiese e scuole), tra le quali l’Old Mutual Insurance Building, di 18 piani, s, l’OK Bazaar, in Adderley Street, il Southern Insurance Building, l’edificio del quotidiano «Cape Times”, il palazzo della Sanlam Insurance, tra Burg e Wale St., il Volk Hospital, il teatro Alhambra, poi chiamato Royal.
Un cenno a parte merita la vicenda delle cartucciere Aviglianesi. Nel 1888 due piemontesi di Avigliana (TO), Modesto Gallo, falegname, e Ferdinando De Matteis, muratore, giunsero in Sud Africa portando con sé cinque casse di dinamite. Arrivati a Leeuwfontein con la collaborazione di Agostino Murra di Busto Arsizio (VA), aprirono una fabbrica dedita alla produzione di dinamite. La scoperta di numerose miniere d’oro nella zona del Witwatersrand (Johannesburg) aveva infatti provocato l’affermarsi di un redditizio mercato della dinamite, indispensabile all’epoca per penetrare nel sottosuolo aurifero. A due anni dall’apertura della fabbrica, arrivarono nel Transvaal per lavorare sei ragazze di Avigliana, ingaggiate dalla proprietà per avvolgere la dinamite nella carta paraffina e darle la forma definitiva. Nel giro di qualche anno esse furono raggiunte da altre venticinque ragazze che si stabilirono nella zona lavorando sempre per la fabbrica di esplosivi. Tra il 1890 e il 1897 arrivarono diverse altre persone dall’Italia, dando inizio alla formazione di una piccola comunità Avigliese. Nello stesso periodo si ebbero, purtroppo, gravi incidenti in cui trovarono la morte di alcuni operai.
La maggiore libertà religiosa introdotta dagli inglesi all’inizio del XIX secolo, consentì alla Chiesa cattolica di radicare la propria presenza anche all’interno dell’Africa meridionale. Nel 1835 il beato Vincenzo Pallotti (1795-1850) fondò nella colonia del Capo la Società dell’apostolato cattolico, un istituto di religiosi dediti alla propagazione della fede e al ritorno a Roma dei fratelli separati delle Chiese orientali e protestanti. Nel 1837 venne aperto il Vicariato apostolico del Capo di Buona Speranza, seguito poco dopo da quello del Natal, mentre nel 1870 la confessione cattolica ottenne un culto pienamente riconosciuto. Negli anni seguenti altri religiosi cattolici si recarono nella zona del Capo, svolgendovi lì la propria attività pastorale. Si ricordano padre Giovanni Battista Maggiorati e monsignor Pietro Strobinoetti.
Il radicamento degli Italiani in Sud Africa: tempi ed aspetti sociali
Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo la comunità italiana in Sud Africa fu impegnata nello sviluppo economico del paese. Occupati in gran parte nella costruzione di strade, ponti, linee ferroviarie ed edifici, gli italiani acquisirono in quegli anni la fama di lavoratori, qualificati e puntuali ed è fondato ritenere che essi contribuirono in larga misura alla realizzazione delle infrastrutture sudafricani.
La crescita dei territori dell’Africa meridionale, allora divisi tra la Provincia del Capo, soggetta alla Corona britannica, e gli Stati boeri, eredi dell’antica tradizione olandese, spinse il Governo di Londra ad allargare la propria influenza nell’intera regione. Già protagonisti di un precedente conflitto combattuto tra il 1880 e il 1881, gli inglesi e i boeri giunsero alla resa dei conti nel 1899 con lo scoppio della seconda guerra anglo-boera. Arruolatisi in netta prevalenza nelle file boere, gli emigrati italiani combatterono con impegno le forze inglesi meglio equipaggiate e più numerose.
Al termine della guerra, nonostante le limitazioni inglesi, la regione del Sud Africa continuò ad attirare l’arrivo di Italiani, convinti di poter trovare in quel Paese una propria sistemazione. L’aumentato interesse italiano spinse il governo di Roma ad intervenire presso le autorità locali. Il 2 dicembre 1902 sbarcava a Cape Town l’ispettore Adolfo Rossi, membro del Commissariato Generale dell’Emigrazione Italiana e noto esperto dei problemi sulla mobilità. La missione di Rossi doveva accertare le condizioni generali dei connazionali presenti e valutare la possibilità di nuovi arrivi, in accordo con i rappresentanti del governo coloniale inglese. Pur constatando il buon livello di vita raggiunto dagli italiani, Rossi inviò a Roma un parere negativo per un aumento della presenza italiana in Sud Africa, motivando il suo giudizio con la scarsa richiesta di manodopera sul posto e con l’insufficienza delle garanzie ricevute sulle retribuzioni dei lavoratori. Poco dopo, peraltro, le autorità inglesi adottarono per la colonia l’Immigration Act, un provvedimento legislativo che limitava l’ingresso nel Paese degli stranieri, con la sola eccezione per gli immigrati provenienti dai territori dell’Impero.
All’inizio del Novecento la presenza italiana all’interno del Sud Africa registrò, dunque, una battuta di arresto. La crisi economica successiva alla guerra anglo-boera e la precaria situazione politica degli ex Stati boeri andarono provocando nel Paese un diffuso malessere, il cui effetto immediato fu la crescita della disoccupazione. Un deciso miglioramento della situazione economica fu dovuto nel 1910 alla nascita dell’Unione Sudafricana, sorta per volontà di Londra dalla fusione delle Colonie inglesi del Capo, del Natal, del Transvaal e dell’Orange. Seguì la realizzazione di numerose strutture pubbliche, destinate ad ospitare le autorità di governo. La costruzione degli edifici richiese il lavoro di scalpellini, minatori e decoratori italiani.
L’assestamento della comunità italiana favorì in quegli anni un incremento dell’attività associativa. Molte associazioni, già presenti, trovarono all’inizio del XX secolo nuovi spunti per esprimere il proprio carattere nazionale. Un tipico esempio di questa nuova fase fu la Società Italiana di Mutuo Soccorso e di Beneficenza, operante a Cape Town. Istituita ufficialmente nel marzo del 1890, la Società raggiunse dopo un decennio una sua maturazione con una intensa attività.
Lo scoppio della Grande guerra nell’estate del 1914 coinvolse inevitabilmente anche le Colonie africane delle potenze europee. L’Unione Sudafricana partecipò al conflitto, impegnando le confinanti forze tedesche presenti nell’Africa del Sud-Ovest, ed inviando in Europa un corpo di volontari. Ciononostante, all’interno del Paese rimanevano delle forti tensioni tra i boeri, legati al ricordo della recente sconfitta subita e, per tale motivo, filotedeschi, e gli inglesi, attenti a non innescare una rivolta degli afrikaner (boeri).
Il prolungamento delle ostilità in Europa costrinse l’Italia ad abbandonare la neutralità iniziale. Nel maggio del 1915 il governo di Roma entrò in guerra al fianco delle potenze dell’Intesa, divenendo così un alleato dell’Unione Sudafricana. I legami tra la collettività italiana e la madrepatria convinsero circa 20 mila cittadini italiani, residenti in tutto il continente africano, ad arruolarsi nell’esercito italiano. Rientrati in Italia, furono inviati a combattere sulle montagne del Veneto e sulle alture del Carso.
All’inizio degli anni ’20, la conquista del potere da parte di Benito Mussolini (1883-1945) portò il governo italiano ad elaborare una nuova politica in materia d’emigrazione. Secondo l’ideologia fascista, lo Stato italiano doveva farsi carico dell’organizzazione e dello sviluppo delle comunità italiane all’estero. Durante il ventennio Mussolini impiegò molte energie per l’inquadramento di quelle che il regime amava definire «Colonie italiane all’estero». I rapporti diplomatici tra l’Unione Sudafricana e il Regno d’Italia raggiunsero all’epoca dei buoni livelli; lo stesso Mussolini aveva invitato i connazionali all’estero al rispetto delle autorità locali, e ad una seria applicazione nelle proprie occupazioni. Il fascismo mirava al recupero dell’identità italiana e alla formazione di un «Italiano nuovo», enfatizzata dalla propaganda e ritenuta in grado di attirare l’attenzione delle “colonie italiane all’estero”.
Protagonista della buona intesa stabilita tra i due Paesi fu il console Natale Labia, rappresentante ufficiale del Regno d’Italia in Sud Africa dal 1917 al 1936. Nel corso del suo lungo mandato egli dovette affrontare le conseguenze della grande crisi del 1929 e sostenere la politica del Duce nei confronti del continente africano.
Lo scoppio della Seconda guerra mondiale portò il Sud Africa a sostenere lo sforzo britannico nella dura lotta contro il nazismo tedesco. La dichiarazione di «non belligeranza», fatta da Mussolini poco dopo l’attacco nazista alla Polonia, spinse la comunità italiana in Sud Africa a sperare di poter sfuggire alle implicazioni della guerra. Ma così non avvenne e per nove mesi, dal settembre 1939 al giugno 1940, gli italiani vissero in una situazione di profonda incertezza, guardati con sospetto dalle autorità locali per la vicinanza dell’Italia fascista alla Germania hitleriana. Il 10 giugno 1940, in conseguenza della dichiarazione di guerra da parte di Mussolini nei confronti della Gran Bretagna, l’Unione Sudafricana entrò ufficialmente in guerra contro il Regno d’Italia. Il governo Smuts adottò subito dei provvedimenti contro la comunità italiana; il giorno successivo all’entrata in guerra dell’Italia iniziarono nel Paese le retate contro gli Italiani sospettati di essere fiancheggiatori del fascismo. Dopo alcuni mesi i civili poterono rientrare nelle loro case e furono trattenuti solo gli elementi dichiaratamente fascisti.
A partire dalla prima metà del 1941 iniziarono ad affluire in Sud Africa i primi prigionieri di guerra italiani, catturati dagli inglesi nell’Africa Orientale Italiana. Inviati in Sud Africa, rinchiusi inizialmente in occasionali strutture, composte unicamente da recinti in filo spinato e torrette di legno per la sorveglianza, i militari italiani passarono alcuni mesi tra notevoli difficoltà. Nel 1941 le autorità britanniche diedero inizio alla costruzione di un nuovo campo di prigionia, situato in un ampio terreno non lontano dagli impianti minerari di Cullinan, ad est di Pretoria. In questa zona venne allestito il grande campo di concentramento alleato della Seconda guerra mondiale: Zonderwater (in afrikaans significa “di acqua scarsa”).
Nei primi tempi il campo ospitò un numero limitato di prigionieri italiani, alloggiati provvisoriamente in tende coloniche e con pochi servizi. La posizione del luogo, facilmente raggiungibile per strada e per ferrovia dal vicino porto di Durban, determinò in breve tempo a l’aumento del numero dei prigionieri. Tutto questo spinse gli Inglesi ad apportare significativi miglioramenti nella struttura. Il campo di Zonderwater era composto da 14 blocchi, suddivisi ognuno in 4 campi; ogni campo era in grado di alloggiare duemila uomini. Nel complesso nel campo si raggiunse il massimo di 108.885 soldati italiani, che poterono disporre di diversi servizi: ospedali, infermerie, cucine, aule studio, campi sportivi, cappelle per le funzioni religiose, laboratori tecnici, teatri e locali di ricreazione. A migliorare ulteriormente le cose nel campo giunse la nomina del nuovo comandante, il colonnello Hendrik Frederik Prinsloo, che dimostrò grande rispetto dei ruoli e un’indubbia umanità.
Le vittorie Alleate, la caduta di Mussolini e l’armistizio del 8 settembre 1943 produssero a Zonderwater e negli altri campi delle importanti novità. Ai militari italiani venne offerta la possibilità di lavorare all’esterno come prigionieri «cooperatori», naturalmente godendo di migliori condizioni rispetto a quelli che restavano nel campo. Le adesioni passarono dalle 431 del 1942 alle 10.878 del febbraio 1944, fino a toccare le 20 mila unità nel periodo seguente. Non mancarono peraltro altri tipi di scelte: vi furono anche quelli che, decisi a rivendicare la propria appartenenza all’ideologia fascista e alla lotta al fianco dell’Asse, rifiutarono ogni tipo di collaborazione con le autorità del campo, e, per tale motivo, vennero separati e destinati ad un blocco speciale. Gli studiosi delle vicende di quel tormentato periodo hanno fatto osservare che i prigionieri, catturati nella campagna d’Africa, in generale erano più attaccati all’ideologia fascista di quanti non lo fossero i soldati italiani arruolati nell’esercito italiano e successivamente catturati dagli Alleati. Da quanto è stato scritto al riguardo, si rileva che all’interno del campo squadre fasciste organizzarono vere e proprie azioni punitive nei confronti di chi si mostrava poco attaccato al regime.
Il campo di Zonderwater rimase in funzione fino al 1947, anno in cui gli ultimi militari italiani lasciarono il Sud Africa. Gli anni della guerra e l’esperienza dei prigionieri italiani diedero vita a quello che venne chiamato lo «spirito di Zonderwater», ovvero un proficuo rapporto di conoscenza e rispetto tra la comunità italiana e la società sudafricana. Il ricordo e l’opera dei «ragazzi di Zonderwater» favorì l’arrivo, al termine della guerra, di molti emigrati italiani.
La lunga marcia di Salvatore Borsei: nel 1930, a piedi dalla Tunisia al Sud Africa, in 21 mesi
Riportiamo, utilizzando le parole testuali del figlio che ne ha commemorato la memoria, la singolare esperienza di un abruzzese che all’inizio degli anni ’30 attraversò l’intera Africa con mezzi di fortuna dopo aver vissuto l’esperienza migratoria in Europa e anche oltreoceano, per far del Sud Africa la tappa finale della sua avventura.
L’incipit è impegnativo, ripreso da Pitagora: «Quando passi i confini della tua patria, non guardare mai indietro», principio che vale specialmente per gli abruzzesi, dal carattere forte, temprato dalle loro adorate le montagne. Il racconto è avvincente.
«Mio padre, Salvatore Borsei, perse suo padre nella costruzione della ferrovia transiberiana nel 1888. Parigi divenne la sua città quando i suoi zii lo accolsero in casa loro e lui per questo si considerava un figlio adottivo della Francia. Sposò mia madre nel 1922. Il lavoro scarseggiava e quindi prese la decisione di cercarlo altrove. Al principio del 1924 lasciò l’Europa e partì per Buenos Aires, in Argentina, Sud America. Là lavorò per una ditta inglese che aveva vinto il contratto per la costruzione di una delle più pericolose ferrovie del mondo, che serpeggiava da La Paz, in Bolivia, a Lima, in Perù, fino a Bogotà. In certi punti la ferrovia saliva fino a tremila metri. Si dovevano affrontare dirupi e si dovevano attraversare fiumi e i gradienti erano generalmente molto ripidi.
Nel 1930, dopo sette anni di questo arduo lavoro, si imbarcò su una nave a Caracas, in Venezuela, e ritornò in Italia, dove incontrò il suo primo figlio, mio fratello, che aveva ormai sette anni, per la prima volta. Ma la polizia si mise a indagare sui sotterfugi con cui aveva evitato il servizio militare ed egli dovette scappare a Marsiglia, dove si imbarcò su una nave in partenza per la Tunisia. Di nuovo lasciava mia madre sola e incinta di me. Io nacqui il 23 marzo 1931, ma incontrai per la prima volta mio padre nel 1947, quando arrivai in Sud Africa, a Palmietfontein, vicino a Johannesburg. Sulla nave mio padre divenne amico di un tunisino, al quale parlò del suo piano di raggiungere il Sud Africa. Mustafà aveva molte cose in comune con mio padre, dato che anche lui aveva vissuto abbastanza a lungo in Francia. Ospitato per alcuni mesi dal suo nuovo amico, mio padre attese di potersi unire a una carovana per attraversare il deserto del Sahara. Di tanto in tanto, attraversando la parte algerina del deserto, nel Tassili, gli capitava di incontrare fortini della Legione Straniera francese, per cui, quando raggiunsero la regione montana dell’Ahaggar fu come arrivare in paradiso. Finalmente l’erba per i cammelli era abbondante e i beduini parlavano anche di fiumi sotterranei e di antiche pitture rupestri. Vi erano più vita, più acqua e più verde di quanto gli riuscisse di ricordare, il che gli faceva comprendere quanto fosse diventato come un isolano nel viaggiare per chilometri e chilometri fra le dune di sabbia. Questa regione con montagne alte quanto il Gran Sasso gli fecero anche sentire la nostalgia del suo amato Abruzzo.
Il viaggio proseguì e la routine più disgustosa ma necessaria era quella di dover bere dalle sacche di acqua fatte con gli stomaci delle capre. Il mattino presto, quando l’acqua era ancora fredda o bollita per fare il tè, era sopportabile, ma nel caldo asfissiante della giornata diventava disgustosa. Incontrarono numerose carovane lungo quella che veniva chiamata una strada, benché per lui dovesse restare un mistero come riuscissero a sapere dove stavano andando. Carcasse di cammelli morti e abbandonati nella sabbia gli ricordavano il famoso detto di Ungaro su come la morte tocchi la vita di ognuno. Piano piano, da un’oasi all’altra, arrivarono fino a Bourem, che è il punto più a nord raggiunto dal fiume Niger nel Mali. La peculiarità del posto è che là dove arriva a toccare il 17° parallelo, si trova quasi esattamente sul meridiano di Greenwich. Più a sud, lungo il Niger, a Gao, la parte più faticosa dell’intero viaggio era finita. Sia gli uomini che i cammelli erano esausti.
Il difficile tragitto da Tunisi a Gao aveva richiesto un periodo di quattro mesi. La carovana partì per il viaggio di ritorno e lui rimase là a compiere il proprio destino. A piedi o in canoa riuscì a raggiungere Port Harcourt, nel delta del fiume Niger. Qui poté riposare in una stazione missionaria anglicana. A questo stadio della sua vita era ormai un provetto muratore e la sua voglia di essere utile in tutti i modi possibili era molto apprezzata dai missionari, non soltanto in questa missione, ma in tutte quelle che visitò nel corso del suo viaggio. Erano tutti più che felici che restasse per tutto il tempo che desiderava.
Mio padre sapeva che a Douala, in Camerun, vivevano due suoi primi cugini, Quinto e Pio D’Amico, e quindi aveva bisogno di essere in buona salute e in forze prima di partire per andarli a trovare. I fratelli D’Amico erano proprietari di una segheria nella giungla ed esportavano legname in Francia. La sua permanenza fra loro fu piacevole, ma ben presto decise di continuare il suo viaggio attraverso il Gabon e il Congo per raggiungere il fiume Congo. Da qui si diresse verso Leopoldville (Kinshasa), in Zaire. E questa parte del viaggio fu confortevole quanto la traversata del Sahara, ma per opposte ragioni. Il terreno era difficile e vi era fin troppa acqua a causare molte malattie e tante difficoltà. Ci sono tanti santi, alcuni meritevoli di questo appellativo, altri no. Ma almeno i missionari in giro per l’Africa meritano un posto in paradiso, nel caso esista. Sono eroi sconosciuti capaci di altruismo nella forma più pura, senza vanità e senza egoismo.
Per raggiungere Kananga, a metà strada fra Leopoldville (Kinshasa) ed Elisabethville (Lumumbashi), fece uso soprattutto di canoe e scoprì che questo era un modo piacevole di viaggiare. L’acqua era pulita e rinfrescante, certamente molto diversa da quella nelle sacche di stomaco di capra nel deserto. Un incontro con una tribù indigena destò in lui una profonda impressione. Una grande folla aveva formato un cerchio intorno a un grande appezzamento di terreno e aveva appiccato il fuoco all’erba. Poi avanzavano lentamente verso il centro del circolo e tutto quello che trovavano già cotto dalle fiamme veniva mangiato. Formiche, topi, serpenti, vermi, eccetera. Ma che ne sanno di bocconcini appetitosi i frequentatori di Maxim a Parigi? Queste erano vere delicatezze.
La traversata da Lumumbashi, in Zaire, allo Zambia (Northern Rhodesia) non presentò alcun problema e ancora una volta trovò ospitalità in una missione anglicana a Mufulira, sulla Copperbelt (cinture del rame). E di nuovo pagò in natura per l’ospitalità, ma dopo alcuni giorni cadde ammalato e svenne. Aveva raccontato la sua odissea a uno dei missionari, il quale fu veramente addolorato nel vederlo morire dopo aver superato tante avversità. Il corpo fu coperto con un lenzuolo e sistemato su una barella. Fu scavata una tomba nel piccolo cimitero della missione e mentre il “corpo” sulla barella veniva trasportato alla sua estrema dimora, il missionario che lo accompagnava recitava le ultime preghiere. Il movimento ondulatorio fece uscire un braccio dalla barella e il missionario si chinò per rimetterlo a posto. Nel toccarlo gli sembrò di percepire un battito cardiaco e così il funerale fu annullato. Per sua fortuna il braccio uscito dalla barella era proprio dalla parte del religioso in preghiera. Dopo un periodo di convalescenza, riprese il suo viaggio verso sud attraverso lo Zambia (Northern Rhodesia) e lo Zimbabwe (Southern Rhodesia). Fu come una passeggiata nel parco, dato che di tanto in tanto erano anche disponibili mezzi di trasporto motorizzati. Attraversò il confine per entrare in Sud Africa e si diresse subito verso Johannesburg. A sua insaputa, il suo amico missionario di Mufulira aveva scritto alle autorità sudafricane, informandole della sua morte, per cui, al suo arrivo, erano già a conoscenza del suo lungo e difficile viaggio. La sua storia li aveva colpiti e commossi, al punto che gli diedero subito la residenza permanente.
La marcia era finita e la sua destinazione finale era in vista. Salì su un treno per Durban, dove ebbe il benvenuto dai molti suoi corregionali abruzzesi: Argentieri, Cocciante, Buccimazza, Morelli, eccetera. Erano quelli gli anni in cui si costruivano ferrovie e ponti in tutto il Natal (Kwa Zulu Natal) e fu ingaggiato come caposquadra da Olaff Grinaker. Non prese le malaria pur avendo attraversato l’Africa a piedi e trascorrendo gran parte della sua vita lavorativa nei cantieri all’aperto. La sua avventura africana, cominciata nel settembre del 1930, si concluse nel 1932, un’odissea di 21 mesi. Mio padre era nato nel 1885 e morì nel dicembre del 1969. Aveva 84 anni».
Un’avventura migratoria straordinaria che ebbe un lieto fine, a sottolineare la straordinaria intraprendenza degli italiani.
L’ emigrazione del secondo dopoguerra
Finita la guerra, la comunità italiana in Sud Africa riprese la propria vita cercando di concentrarsi sul lavoro e sulla ricerca di un futuro migliore. Nel frattempo il governo del Paese passò nelle mani del Partito nazionalista boero, che avviò un regime di separazione razziale tra bianchi e neri. La politica boera consentì all’emigrazione italiana di trovare un nuovo sbocco nell’Africa australe, nonostante le mete privilegiate al di fuori dell’Europa restassero per gli italiani i Paesi del Nord America, dell’Australia e dell’America Latina. Per gestire le partenze, nacquero in Italia, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, diverse organizzazioni pubbliche e private, laiche e religiose, come il Cime (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee), la Direzione Generale dell’Emigrazione del ministero degli Esteri, la Pontificia Opera di Assistenza, la Sipe (Società Italiana Patronato per l’Emigrazione), l’Opera Bonomelli, le Acli, l’Icle (Istituto di Credito per il Lavoro Italiano all’Estero), l’Onarmo (Opera Nazionale Assistenza Religiosa e Morale agli Operai), e l’Opera intitolata al cardinale Ferrari.
Nel 1950 e nel 1951 arrivarono nel Sud Africa più di mille italiani: il 5,3% dei 12.806 stranieri immigrati nel Paese nel 1950 e il 7,4% dei 15.275 di quelli arrivati nel 1951. Negli anni seguenti l’abilità sul lavoro, il loro comportamento e i rapporti politici instaurati con il partito boero al governo convinsero le autorità sudafricane ad incrementare e valorizzare l’emigrazione latina.
La nuova realtà sudafricana interessò l’Italia anche dal punto di vista finanziario. Dalla fine degli anni Quaranta iniziarono ad affluire verso il Sud Africa numerosi imprenditori e finanzieri italiani, convinti di poter investire le loro risorse in un luogo sicuro e di possibile guadagno. Tra gli imprenditori arrivati in quel periodo si ricordano il padovano Sgaravatti, facoltoso proprietario agricolo di una nota azienda di Saonara (PD), Marzotto di Vicenza, il gruppo Venini di Venezia, e poi la casa d’auto torinese FIAT, l’Ansaldo di Genova, le imprese edilizie Astaldi di Roma, la Costruzioni Edili e Stradali di Savona, l’Eternit di Genova, l’impresa Puccini di Roma, la Cieni di Genova, la Chioma Pavolini dall’Abruzzo, l’Impresit e la Olivetti.
L’avvio di stabili rapporti economici tra i due Paesi rese possibile un maggiore interesse politico tra Roma e Pretoria. Inserito ancora all’interno del Commonwealth britannico, il Sud Africa mostrava in quegli anni un deciso indirizzo diplomatico filooccidentale, motivato dalla sua strategica posizione per il controllo di tutta l’Africa meridionale. Da non trascurare erano poi le relazioni maturate tra l’Unione Sudafricana e la Chiesa cattolica. Nel gennaio del 1951 il Vaticano autorizzò la formazione in Sud Africa di una gerarchia ecclesiastica locale; nel maggio 1952 Pio XII proclamò la Vergine Assunta patrona del Sud Africa, al termine del primo Congresso Mariano del Paese, presieduto da Mons. Martino Lucas, delegato apostolico nell’Africa meridionale. L’elezione a cardinale, nel 1960, dell’arcivescovo di Cape Town, Owen McCann, rafforzò ulteriormente la posizione del cattolicesimo sudafricano, la cui crescita sarà seguita con particolare attenzione dai pontefici Giovanni XXIII (1958-1963) e Paolo VI (1963-1978). La nascita della repubblica del Sud Africa nel 1961, e l’inasprimento del regime afrikaner verso la popolazione di colore, causarono delle forti tensioni tra Pretoria e il Vaticano, accusato di ingerenza negli affari interni del Sud Africa con le sue denunce di soprusi e violenze contro la popolazione nera.
L’impegno del clero cattolico in Sudafrica vide l’arrivo in forma stabile, a partire dagli anni Cinquanta, dei Missionari del Sacro Cuore e dei Lazzaristi, poi raggiunti dai Passionisti. Già presenti erano invece i Servi di Maria, che, nel 1956, aprirono la cappellania per gli emigrati italiani dell’intera diocesi di Johannesburg. Oggi molto attivi risultano anche gli Stimmatini, in particolare da ricordare anche l’intensa attività degli Scalabriniani, dei Comboniani presenti ed i Gesuiti.
Presente e futuro degli Italiani in Sud Africa
La “rivoluzione pacifica” guidata da Nelson Mandela ha permesso al Sud Africa di superare la stagione dell’apartheid e di trasformarsi in un Paese democratico. Con la nomina di Mandela a presidente è iniziata una lunga stagione di riforme in grado di realizzare finalmente quel “Rinascimento africano” più volte annunciato. Sono molte le sfide da affrontare: riguardano il contrasto dell’alto tasso di disoccupazione, la repressione della criminalità comune, l’insicurezza nelle città, la piaga dell’AIDS (sono milioni i sieropositivi). Per il raggiungimento dei traguardi della Rainbow Nation (“la nazione dell’arcobaleno”, così è stato definito il Sud Africa) partecipa in maniera attiva la comunità italiana con la sua schiera di liberi professionisti, insegnanti, artigiani ed imprenditori, impegnati all’interno dei vari campi dell’economia, e con i suoi lavoratori. Livelli di eccellenza sono stati raggiunti nei settori della meccanica, dell’edilizia, di alcuni prodotti alimentati, e della ristorazione. È ben radicato sul territorio anche il fenomeno dell’associazionismo italiano (in Sud Africa anche sotto forma di Club italiano), anche dopo le seconde generazioni hanno iniziato a essere diversi gli interessi dei membri della comunità e qui, come in altri Paesi, l’associazionismo tradizionale va incontro a diverse difficoltà.
Rappresentanti dell’emigrazione italiana in Sud Africa sono presenti all’interno del Consiglio Generale degli Italiani all’estero, il CGIE, e dei Comitati degli Italiani all’estero, i COMITES, istituiti nel 2003. Opera inoltre la Società Dante Alighieri, per tenere viva la lingua materna tra gli italiani e diffonderne la conoscenza tra la popolazione autoctona.
L’attuale comunità italiana
Gli italiani residenti in Sud Africa sono risultati 34.465 (per metà donne) al 31 dicembre 2018 nell’Anagrafe degli italiani all’estero: il totale degli italiani in Africa ammonta a 68.523 e, quindi, si tratta della più consistente presenza italiana in Africa. Il 42,3% è presente sul posto per emigrazione, il 48,9% per nascita sul posto e il 4,5% per acquisizione della cittadinanza. La comunità non è stata ravvivata da un flusso costante e significativo di arrivi ma, comunque, l’incidenza degli anziani, pur consistente (21%), è più bassa rispetto a quella di altre antiche collettività, e l’incidenza dei minori (16%) è di un punto più alto rispetto alle media AIRE.
Il flusso degli italiani in Sudafrica negli ultimi due decenni è stato molto contenuto, poco più di 300 persone l’anno, per un totale di 6.609 unità nel periodo 2000-2018.
In conclusione, sembra che questa destinazione abbia perso la sua appetibilità per la lontananza, le condizioni di sicurezza e le opportunità di guadagno. Tra gli stessi membri della comunità italiana non sono mancati quelli spostatisi nel Regno Unito, in Australia, in Canada e in Russia. La maggior parte, comunque, è rimasta, perché con il tempo si finisce per far corpo con il Paese di accoglienza o dove si è nati da genitori ivi immigrati. Questa situazione desta una particolare attenzione non solo dal punto di vista sociologico ma anche da quello umano e culturale. Non mancano quindi le prospettive per interessarsi a questa lontana collettività, che ha messo radici in un Paese dalle grandi potenzialità, non confortate dagli obiettivi conseguiti, come purtroppo continua a capitare all’intero continente africano.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Nota bibliografica
Per collocare l’esperienza migratoria in Sudafrica all’interno del grande fenomeno dell’emigrazione nel mondo, torna utile la lettura di un manuale che affronta il tema complessivamente: tra i tanti si può suggerire: Favero, L. e Tassello G., Cent’anni di emigrazione italiana (1876-1976), Cser, Roma, 1978. I missionari Scalabriniani si sono mostrati molto funzionali al sostegno degli emigrati non solo con il lavoro pastorale (anche in Sudafrica) ma anche con l’impegno per favorire le conoscenze in questo settore specifico attraverso i loro centri studi e le relative biblioteche e i loro apporti come studiosi.
Ma questo caso va anche studiato come parte dell’emigrazione italiaana in Africa ed è unico, nel suo genere, il volume Africa-Italia. Scenari migratori, a cura e nelle Edizioni IDOS, Roma, 2010. Il volume venne scritto dopo il viaggio-studio di una settimana che vide una trentina di operatori e studiosi impegnati nell’ambito migratorio spostarsi a Capo Verde. L’iniziativa, patrocinata da Caritas e da Migrantes, si tradusse in un consistente volume, ricco di molteplici apporti, di cui il Ministero dell’Interno assunse i costi della pubblicazione tramite il Fondo Europeo per l’Integrazione degli immigrati dei Paesi Terzi (nel volume si trattò anche il tema dell’immigrazione africana in Italia). Il capitolo specifico è opera di Maria Immacolata Macioti, conoscitrice del Sud Africa per avere studiato il caso sul campo (“Il Sudafrica, un paese di immigrati”: 149-160).
Per quanto riguarda lo sviluppo storico dell’emigrazione italiana in Sudafrica si deve considerare di fondamentale importanza un contributo dell’ASEI (Archivio storico emigrazione Italiana), Alcune note sull’emigrazione in Sudafrica 1870-1913 (https://www.asei.eu/it/2008/11/lemigrazione-italiana-in-sudafrica-1870-1913-alcune-note/). Come volumi di base sulle notizie storiche l’ASEI riporta questi due riferimenti: Sani G., Storia degli Italiani in Sudafrica, 1489-1989, Edizioni Zonderwater Block, Emendale 1989, e Ottaviano C., Fortune, travagli e privilegi dei biellesi in Sudafrica, in L’emigrazione biellese nel ‘900, vol. II, Electa Milano 1988. Il primo volume viene ritenuto una miniera di notizie interessanti, meno accurato dal punto di vista storiografico, caratteristica invece riconoscibile al secondo, che prima di parlare degli emigrati biellesi presenta un interessante excursus sull’emigrazione italiana in Sudafrica.
In lingua inglese, rintracciabile su internet, si può citare a titolo d’esempio: Burallo C., della Chapman University: Betwen Fact and Fiction. Italian Immigration to South Africa, dove viene riportata un’ampia bibliografia in lingua inglese, (file:///C:/Users/franco/Downloads/84267.pdf).
I circa centomila soldati italiani (su 700mila che vennero catturati dagli Alleati), internati in un campo di prigionia a Zonderwater, è tema che non poteva non richiamare l’attenzione. Citiamo una tra le diverse pubblicazioni: Annese C., I diavoli di Zonderwater. 1941-1947. La storia dei prigionieri italiani in Sudafrica che sopravvissero alla guerra grazie allo sport. Gli italiani giunsero in una zona brulla, infestata dalla malaria, dove c’erano solo tende, brutto tempo e malaria e invece nel 47, quando la lasciarono dopo 65 anni, la trasformarono in una città con edifici in muratura per l’abitazione, altre infrastrutture (un ospedale, la scuola e strade). All’interno di questo campo, come si fece altrove (ad esempio furono numerosi i campi di prigionia in India), si fece di tutto per resistere. È stato sottolineato che, essendo qui imprigionati i combattenti della campagna d’Africa, essi si mostrarono i più fedeli al fascismo (anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943) a differenza dei prigionieri catturati successivamente, molto meno ideologizzati.
Alla situazione degli anni ‘2000 è dedicato il volume di Macioti M.I, Zaccai C., Italiani in Sudafrica. Le trasformazioni culturali della migrazione, Milano, Edizioni Guerini e Associati, 2006. Precede una breve ricostruzione storica dell’emigrazione italiana in Africa australe, arricchita con spunti desunti dalla tradizione orale, considerato che la bibliografia storica prodotta al riguardo è abbastanza scarna. Quindi, l’attenzione viene concentrata sui giovani adulti e si parla della loro identità, dell’associazionismo, del loro collocamento nella vita socio-politica locale e del loro atteggiamento verso l’Italia. Questo volume, imperniato sull’indagine qualitativa, è stato giustamente considerato il primo tentativo organico di far luce sulle caratteristiche della comunità italo-sudafricana. A tal fine vengono utilizzate le notizie acquisite in numerose interviste e in alcuni focus group. L’attaccamento al Paese che li ha accolti è forte, per la sua bellezza, il clima, le possibilità offerte a livello imprenditoriale, ma l’Italia appare anche come un alternativa, anche per le ridotte possibilità d’inserimento a seguito del nuovo corso politico (comunque accettato)., i problemi legati alla criminalità, all’Aids, alla continuazione delle vecchie forme dell’associazionismo e al mantenimento della doppia identità culturale, inclusa la conoscenza della lingua italiana.
Per prendere meglio conoscenza della comunità italiana in Sudafrica senz’altro è opportuno consultare La Gazzetta del Sudafrica (httpps://www.lagazzettadelsudafrica.net/). Questa testata si presenta come il Quotidiano indipendente d’informazione degli italiani del Sud Africa: da qui è stata ripresa l’eccezionale vicenda migratoria di Salvatore Borsei, riportata nell’articolo.
Infine per venire a conoscenza del sistema di vita in Sudafrica, anche qui vengono curati dei siti per gli expat, tra i quali citiamo: Vivere all’estero: Sudafrica, https://www.voglioviverecosi.com/il-mondo-raccontato-dagli-italiani-che-lo-abitano/sud-africa
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Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.
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