dialoghi intorno al virus
di Maria Rosaria Di Giacinto
28 marzo
Era pura superficialità affermare che numeri e grafici fossero fredda compressione di turbolente energie umane, desideri e sudate notturne ridotte a lucide unità sui mercati finanziari (De Lillo, 2003:23)
Utopie distopiche
L’epoca attuale è caratterizzata da crescente complessità. Il numero di elementi da valutare per intraprendere l’azione sembra moltiplicarsi giorno dopo giorno. Nella società del benessere, si è costantemente sottoposti alla scelta all’interno di un sottofondo pressante che spinge verso l’eccellenza: non è permesso fallire, non è permesso ammalarsi, non è permesso deviare. Ogni cosa è urgente ed esige il massimo del risultato il più in fretta possibile: diminuiscono i tempi, si accorciano gli spazi, cosicché nulla sembra essere oltre il momento e il successo. Il contemporaneo è nondimeno caratterizzato da una forte propensione al controllo e ciò si traduce nell’ossessione per la previsione: si interrogano i big data al fine di ottenere la ricetta migliore per l’avvenire migliore (Harari, 2018: 102).
Un presente che si accorcia in maniera inversamente proporzionale all’allungarsi del futuro è il paradosso secondo il quale la predizione a lungo termine trae linfa dall’intrappolamento nell’immediato, in cui spazio e tempo tendono asintoticamente a zero. Ciò è massimamente evidente nei momenti di crisi: forzare l’altro all’istantaneo significa privarlo dei tempi necessari alla riflessione [1]. Se lo sguardo si focalizza sul dolore, difficilmente scorge ciò che va al di là di esso. Un tempo concentrato, uno spazio ristretto traducono il movimento in costrizione. Così, attraverso l’attivazione del meccanismo della paura – del contagio, se si analizza l’oggi – si delega al potere la scelta: la complessità viene scremata e ci si colloca entro un quadro più semplice, normato e rassicurante. Un attuale immobile, un avvenire noto: le variabili inconoscibili, motore della diversità, vengono sacrificate sull’altare del sapere assoluto. Attraverso la stimolazione delle ansie collettive il tiranno priva i soggetti della loro individualità, spingendoli a rinunciare all’azione in favore della conservazione.
Non a caso, la peste sottende il sogno politico di una società pienamente disciplinata: ad ognuno il proprio posto in un regime di ispezione costante che fa dell’eccezionalità consuetudine (Foucault, 1976: 213). Misurata e analizzata nei circuiti biologici, la fisicità della carne assume la consistenza dell’algoritmo, muta in astratto impalpabile: una curva diagrammatica che parla di respiri allo stesso modo in cui parla di capitale. Nella materia che diviene byte si riduce il campo di azione dei pensanti relegandoli all’inazione. L’impiego di strumenti di avanguardia non soltanto rileva e amplia i saperi sull’individuo deumanizzandolo e facendone particella controllabile, ma li istiga all’autodisciplina: assimilata la norma, è possibile guardare dentro e fuori di sé nel tentativo di riconoscere e correggere il non conforme (Foucault, 1976: 200).
Preoccupati dal contagio, gli individui si alienano rispetto all’estraneo e rispetto a se stessi: non toccano corpi prossimi, non toccano il proprio corpo. Essi sono altro dell’altro e altro da sé, poiché tanto nel saluto ravvicinato, quanto nel portare la mano al viso, si cela il rischio di contrarre la malattia: nemici tra nemici, nemici a se stessi, controllano i movimenti, riconoscendone la pericolosità. Se «l’epidemia è il sogno del tiranno» (Benasayag, 2020), il Panopticon oggi – nella particolare contingenza che costringe i più all’immobilità della carne nelle case – parrebbe interamente realizzato. Nella prigione benthamiana, controllore e controllati si scrutano a vicenda scambiandosi i ruoli (Foucault, 1976: 222-223): le singolarità, infatti, non solo si autouniformano (ibidem: 186), ma segnalano al potere le variabili – non più individui – che mostrano discostarsene. Così, i telefoni cellulari diventano strumento di sottomissione tanto del possessore – tracciabile mediante segnali GPS – quanto dei suoi vicini, filmati dallo stesso qualora disobbedienti. Allo stesso modo, emarginati come clochard [2], ambulanti [3], migranti [4], già sottoposti a forte stigmatizzazione, subiscono l’intensificarsi della stretta oppressiva: colpevoli della loro “diversità” vengono relegati ancora di più negli angoli remoti di una società che tutto scruta, ma poco concede al dissimile.
La morsa egemone permea la pelle generando sfiducia e stanchezza (Benasayag, 2020). Nella trappola della dimensione contratta, si sperimenta l’eterno presente, in cui la limitatezza dell’azione fisica si traduce in difficoltà di attivazione del pensiero materiale. Pressati da sentimenti incalzanti, come la paura della malattia, si finisce per consegnare alle macchine e ai governanti frammenti della propria libertà. In piena tradizione cartesiana, l’algoritmo viene assunto a sinonimo di infallibilità in quanto privo di carne e, dunque, incorruttibile perché mai irrazionale. Il biopotere non si installa semplicemente al di fuori del soggetto, ma lo attraversa nell’intimo. Dalla psicosi alla tristezza; dall’inazione all’inabilità: la dittatura necessita di individui infelici per legittimare la propria tirannia; specularmente, l’obbediente gode della sottomissione che riduce le variabili a sua disposizione, minimizzando i rischi (Deleuze, in Benasayg, 2020). Così, le singolarità sono sciolte dall’incombenza della scelta e dal timore dell’errore: guadagnano, al prezzo della rinuncia all’autonomia, l’illusione del prolungamento dell’esistenza.
Utopie dispotiche, distopie orwelliane, tante volte immaginate e, ora più che mai, attualizzate.
Soggettività oggettive
Che dimensione percettiva si sperimenta entro le mura mostruose e rassicuranti delle proprie case? Il diffondersi del virus incasella i singoli all’interno delle celle-abitazioni: una semplificazione fisica e concettuale insieme.
In questi giorni di marzo, gradualmente, ma inesorabilmente, le restrizioni crescono e la Storia “accelera” a fronte di una quotidianità rallentata. Lo scorrere lineare del tempo viene meno in termini ampi – l’evenemenziale si accavalla – e personali – i giorni si riavvolgono per ripetersi. Si rompe la successione temporale del prima e dopo di matrice occidentale di cui gran parte del globo partecipa.
Nella “normalità” del benessere, che sia ai vertici di una multinazionale o al supermercato sotto casa, si conosce – certo, non sempre con esattezza, ma costantemente – che ora è, che giorno è. Anche la distanza è spesso percepita in termini di minuti. Si calcola quanto costerà il tragitto per la cima di un monte o il posto di lavoro, quasi la porzione di quadrante percorsa dalle lancette sia moneta da spendere per ottenere ciò che si deve e si vuole fare. Un prezzo da pagare, questo tempo neutro, da “riempire” di eventi più o meno eccezionali dall’inizio fino al termine dell’esistenza. Allo stesso modo, lo spazio in cui siamo immersi diviene proiezione sulla carta geografica: un insieme di punti conosciuti in cui ciò che è rappresentato finisce per apparire “reale” più e ben oltre il reale cui si fa corrispondere; mentre ciò che non lo è cade nell’oblio dell’inesistenza (Minca – Bialasiewitcz, 2014: 16-17). Così, seguendo il percorso indicato dal navigatore, diveniamo punti di una mappa, rinunciamo alla complessità delle altre dimensioni.
In questa visione, l’umanità inscrive la propria esistenza all’interno di un cammino, continuo e ordinato, chiamato progresso. Tale logica viene proiettata in avanti: gli individui finiscono per occupare lo stesso posto delle particelle nelle trasformazioni chimiche, modificazioni di entità varia la cui possibilità è ricondotta alle leggi della statistica con tanto di correttori che prevedano l’imprevedibile. Modellizzazioni, che mirano alla perfezione e all’esattezza, spingono verso il calcolo dell’incalcolabile, affinché le variabili nel loro insieme si traducano nell’invariabile. Ma le strutture generali, che filtrano l’eccedenza che ci circonda, non soltanto interpretano il mondo: lo originano nell’atto stesso della concettualizzazione (ibidem). Il cartografo conosce operando una selezione, crea il semplice dal complesso e lo piega al proprio comando. L’occhio al di fuori della mappa occulta sé e la propria scelta, restituendo indietro soltanto ciò che crede abbia dignità di essere ed elidendo il resto (Duncan, Ley, 1993: 2).
I corpi si tramutano in corpuscoli, i soggetti in oggetti: come nel fenomeno della doppia fenditura in cui l’atomo si comporta da onda o particella in relazione al modo in cui l’osservatore lo guarda, esistiamo solo se siamo osservati. «A livello quantistico, la realtà non esiste finché non la si misura»[5]: così anche negli “esperimenti” sugli umani. Come le particelle vicine allo zero Kelvin tendono infinitesimamente all’immobilità, allo stesso modo si cerca di “congelare” gli individui per minimizzarne il movimento. Ma a discapito delle traduzioni logico-matematiche, non appena le singolarità pensanti si muovono, qualcosa sembra deformarsi e le componenti di quella legge esatta v=dx/dt si addensano e si dilatano. Le coscienze materiali, partecipano del mondo e lo alterano: praticando l’azione, operano una mutazione del e nel tutto.
Ci posizioniamo dialetticamente, non siamo recettori passivi dell’imperio.
Oggettività soggettive
È plausibile credere che la mancanza di errore sia esso stesso un errore? Le modellizzazioni che aspirano a sostituirsi al mondo di cui partecipiamo, tendono a interpretare il tutto in termini di equazione matematica: una sorta di tirannia dell’algoritmo in cui la policy consegna la gestione della crisi ai numeri della statistica. Gli strumenti altamente tecnologici pretendono di situarsi oltre il contesto in una dimensione neutra e asettica, scevra da ogni influenza e, quindi, sempre corretta. L’estraniamento dal contingente – presunto, mai realizzato – pare contenere la migliore soluzione a qualsiasi problema.
Tuttavia, dall’atomo di Bohr al principio di indeterminazione di Heisenberg, passando per la relatività di Einstein, la scienza occidentale fa essa stessa i conti con contingenza e fallacia: inserita nella Storia, è immanente (Kuhn, 1962) e dipendente dall’uso. Nonostante l’estrema fiducia nutrita nel positivismo della scienza e l’illusione che dai big data possano scaturire previsioni a bassissimo livello di fallibilità, più volte i calcolatori mostrano di non essere in grado di anticipare gli eventi. Dalla bolla immobiliare del 2008 sino all’attuale pandemia, questi rendono evidenti i loro limiti, sebbene nell’immaginario collettivo restino entità perfette e inattaccabili. L’umanità che riduce e delega ogni cosa alla funzione, «subisce la fascinazione della macchina che non aiuta, ma decide» (Benasayag, 2020). Nel costruire artefatti – sedie come algoritmi – che assolvano a determinati compiti si dimentica che l’assegnazione di funzione non è intrinseca, ma avviene al di fuori dell’oggetto da parte di osservatori e utilizzatori coscienti (Searle, 2006: 22). Le modellizzazioni, dunque, falliscono anche su eventi come un’epidemia in quanto la non prevedibilità è dovuta al vivente (Benasayag, 2020).
A dispetto delle semplificazioni, viviamo nella complessità.
Forti fragilità
In questo scenario, due le alternative che si presentano: l’una predica controllo e sapere assoluto, l’altra riscopre le dinamiche dell’azione svincolata dalla piena conoscenza.
«Pensare e agire nella complessità significa riscoprire il coraggio: senza di esso non si può vivere neanche la vita personale. Ciò non significa essere forti o deboli, ma assumere la fragilità della vita: avere coraggio, non in termini di individualismo o isolamento, ma insieme» (Benasayag, 2020).
Finché il relegato, penserà esclusivamente a se stesso, vigerà il rifiuto della complessità e il sogno neoliberale dell’epidemia sarà realizzato. Il cemento della segregazione farà da schermo occultatore dell’indesiderato: una frontiera imperscrutabile che colloca al di là degli occhi falliti, ammalati, deviati… altri.
Lo sguardo che si volge verso ciò che è occultato dal potere resiste. «Guardare è resistenza, è complessità» (ibidem): nei progetti di solidarietà che coinvolgono i vari livelli sociali è possibile riconoscere l’accettazione dell’ignoto in cui l’inquietudine non si trasforma in paura. D’altronde, la stessa egemonia che costringe, così come la scienza, è «sottomessa all’imprevedibilità e all’azzardo assoluto» e gli eventi finiscono per deviare gli intenti (ibidem). L’inconosciuto estraniato dal mondo deve, dunque, essere reintrodotto, attraverso la consapevolezza che sia impossibile ottenere una spiegazione ad ogni cosa.
Accettare la fragilità non significa abbandonarsi all’ignoranza, piuttosto trattare la negatività come insita nell’umano e non come condizione patologica. Espellere dal corpo invecchiamento, malattia o perdita riduce l’esistenza a “funzionamento”. Così, gli anziani sono visti come inutili al sistema e, quindi, sacrificabili o, ancora, vengono avviati progetti di vita post organica che mettono fine alla morte e rendono ciechi ai bisogni visibili dell’ecosistema sempre più provato dallo sfruttamento umano. Il rifiuto della fragilità diventa debolezza, che si traduce in desiderio incontrollato di forza, che a sua volta alimenta politiche oppressive e di depauperamento. Accettare nel corpo invecchiamento, malattia o perdita permette, invece, all’uomo di reintegrarsi nella Storia e pensare più consapevolmente all’ecocidio di cui è quotidianamente promotore. Del resto, l’uomo non fa la Storia, ma è nella Storia (ibidem); non fa il mondo, ma è nel mondo (Heidegger, 1927).
Se «governare è prevedere», «resistere è creare» (Benasayag, 2020): un fare che è un farsi, non in quanto atto – divino – che scaturisce dal nulla, ma come posizionamento dialettico e partecipazione prospettica verso il tutto. La complessità chiamata ad abitare nuovamente la Terra libera il soggetto, restituisce al vivere la dimensione dell’umano. In questa ottica, la vulnerabilità non risulta sinonimo di passività, ma è base della resistenza politica, in quanto insita nel corpo, singolare, di ciascuno: a ciascun corpo, dunque, il proprio valore, anch’esso singolare (Butler, 2013); la propria complessità nella complessità. Riconoscendosi precari e fallibili ci si riscopre interdipendenti e intimamente relazionali, si compie il primo passo per vivere «la vita buona nella vita cattiva» (ibidem). Nonostante la contemporaneità sia governata dal desiderio di controllo, il variabile resta imperscrutabile e può essere praticato ovunque, pur all’interno di mura circoscritte. La casa è un sito di resistenza il luogo in cui è ancora possibile il «gesto politico [comunitario] radicalmente sovversivo» (Hooks, 1998: 25 e 28).
E se è a livello del corpo che si esplica la lotta (Kruger, 1989), esso deve concedersi il lusso delle proprie impurità (Clifford, 2010).
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Intervista a M. Benasayag, La Complessità ai tempi del Coronavirus per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 06/03/2020: https://www.youtube.com/watch?v=a58K2buoZxE
[2]https://bologna.repubblica.it/cronaca/2020/03/16/news/coronavirus_la_denuncia_multati_anche_i_senzatetto_che_non_possono_stare_a_casa_perche_non_ce_l_hanno_-251436619/, consultato il 24/03/2020.
[3]https://www.blogsicilia.it/palermo/coronavirus-vende-per-strada-la-frutta-ambulante-denunciato-sequestrate-200-chili-di-frutta/524699/, consultato il 24/03/2020.
[4]https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/coronavirus_l_ultima_bufala_sui_social_migranti_immuni_al_contagio, consultato il 24/03/2020.
[5] Andrew Truscott: https://www.nature.com/articles/nphys3343, consultato il 24/03/2020.
Riferimenti bibliografici
M. Benasayag, La Complessità ai tempi del Coronavirus, intervista del 06/03/2020 per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. https://www.youtube.com/watch?v=a58K2buoZxE
J. Buttler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma, 2013
J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 2010
D. De Lillo, Cosmopolis, Einaudi, Torino, 2003
J. Duncan, D. Ley (a cura di), Place/culture/representation, Routledge, London-New York, 1993
M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976
Y. N. Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Firenze, 2018
M. Heidegger, Essere e tempo, Niemcyer, Halle, 1927
B. Hooks, Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano, 1998
B. Kruger, Untitled (Your body is a battleground), 1989
T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1962
C. Minca – L. Bialasiewitcz, Spazio e Politica. Riflessioni di geografia critica, Cedam, Padova, 2004
J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi Torino, 2006
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Maria Rosaria Di Giacinto, si è laureata con lode nel 2017 in Studi Filosofici e Storici presso l’Università degli Studi di Palermo. Nello stesso anno ha partecipato come relatrice al convegno internazionale Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto, da cui è stato tratto nel 2019 un volume da lei curato e in cui è inserito il suo saggio Politiche di migrazione irregolare. Stati Uniti, Australia e Unione Europea: tre modelli a confronto. Nel 2019 è relatrice nel convegno Dai Vespri Siciliani a Strade Sicure, ne ha raccolto gli atti per la pubblicazione che comprende un suo contributo: Ricerca sul campo e cambiamenti di prospettiva. Ha, inoltre, partecipato a numerosi scambi all’estero, all’interno di progetti UE. Laureanda in Studi Storici, Antropologici e Geografici, si occupa attualmente di migrazioni e cambiamenti climatici.
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