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Cosa ci ricorderemo di ieri?

la-memoria-della-memoriadialoghi intorno al virus

di Giuseppe Sorce

14 aprile

Il candore primaverile e l’invisibile. La pelle si accalda al sole, i nuovi germogli dai cespugli giù in piazzetta, la forza della stagione che smuove la terra e l’aria è invisibile. Eppure riusciamo ancora a immaginare una stagione che arriva, no? Le sue trame impalpabili che agitano le erbacce così come gli umori dei più meteoropatici. Fino a qualche tempo fa, tutto questo ci sembrava relegato a una sfera del sensibile che faceva sorridere. Come quelle formule di autonarrazione [1] che ci permettono di inserire il nostro vissuto in una parabola narrativa, appunto, a noi e per noi degna di una qualche importanza, del tipo “con la primavera partirò”, “dopo l’estate cambierò vita”, “mi godo quest‘ultimo inverno a casa prima di…”, sembravano fino a ieri roba da psicoanalisti naif e sentimentalismi fra amici. Però per alcuni queste traiettorie biografiche autonarrate si sono rivelate delle trappole, per altri fonte di salvezza. E non dal punto di vista romanzato, esistenziale, bensì concretamente.

La pandemia ha chiuso i confini, bloccato gli spostamenti. Così, immobili a causa del lockdown, ci si ripiega ricorsivamente nello spazio di sé stessi per rintracciare quale percorso intrapreso, a un dato incrocio del destino, sia stato fatale e quale invece sia stato salvifico. Ci si mette allora a ricordare. Riconsiderare le proprie autonarrazioni diventa una pratica fondamentale dinnanzi all’emergenza perché da queste è dipeso il lavoro che facciamo oggi o che avremmo invece potuto fare, la posizione geografica che abbiamo e quella che avremmo potuto avere se avessi scelto un altro lavoro, la bolla sociale con la quale siamo oggi costretti a convivere, migliore o peggiore di un’altra [2].

Ci si tuffa allora nella memoria, ci si interroga sul come oggi si potrebbe rivalutare quanto fatto o accaduto ieri. La Memoria della memoria è guarda caso anche il titolo di un romanzo sperimentale che avevo iniziato a leggere nei giorni precedenti all’avvio del lockdown nazionale, edito da Bompiani, pubblicato proprio a febbraio di quest’anno.  Marija Stepanova tesse una narrazione che viaggia su livelli percorsi. È un lavoro archeologico che costruisce un itinerario biografico, storico e memoriale, è anche una narrazione che mischia la propria voce, quella dell’autrice-protagonista, con quelle dei pensatori che ne hanno animato la formazione intellettuale moltiplicando le riflessioni e il territorio del narrato e del narrabile. Attraverso diversi spaccati temporali e spaziali ci si ritrova quindi in una sorta di romanzo-albero che si struttura su più rami poiché si fonda su più vissuti, tutti legati alla protagonista, alla scrittura e alla memoria, che finiscono per essere due dimensioni vive e indissolubili. Il risultato è più simile a una realtà virtuale che si dispiega come le icone di un ipertesto piuttosto che a una narrazione lineare e in questo, la Memoria della memoria, è una narrazione molto moderna.

C’è però l’altra faccia della medaglia. E cioè che l’uscita del romanzo coincide con l’evento-quarantena, diluito in un tempo che, essendoci ancora immersi, ci sembra una vita.  Così lo scavo memoriale del romanzo si sostituisce progressivamente al viaggio introspettivo che molti individui hanno intrapreso, un po’ per noia, un po’ per rinnovata necessità, in questi mesi. Ma non siamo più abituati a una riflessione diffusa e su più livelli che riguardi noi stessi. Come notato da molti, difficoltà a leggere, a studiare e a scrivere, sono sintomi abbastanza comuni della quarantena.  Qualcuno, inoltre, l’ho letto da qualche parte, ha già scritto sulla doppia temporalità del lockdown: giornate che non passano mai e settimane che volano. O viceversa. Fa lo stesso. Si è scritto e si scriverà di tutto perché gli intellettuali ufficialmente riconosciuti tali nel nostro Paese, hanno pure il diritto di continuare a scannarsi metaforicamente in platee realmente vuote già da prima della comparsa di covid-19.

borne-j-vCosì, mentre dal mondo convulso dei media televisivi tradizionali si riesce a distinguere sempre più con maggiore difficoltà chi porta un messaggio quanto più scientificamente veritiero (e spesso veritiero e terrificante vanno di pari passo, come l’idea che il virus non si prenderà, ahinoi, mesi di ferie neanche in estate) da chi fa propaganda o parla a nome di interessi meramente economici (leggi neoliberisti), ci si ritrova nella necessità di immaginarsi il futuro prossimo. Spesso ne siamo incapaci, come molti sono incapaci di immaginare il virus-nemico-invisibile. Allora, nel frattempo, ci si aggrappa ai resti del mondo di ieri ma soprattutto a ciò che c’era di più superfluo. È questo lo spartiacque, la soglia – non è che domani ci improvviseremo cacciarifiuti in un mondo in macerie di plastica e cemento come in un romanzo di VanderMeer [3]; semplicemente domani, anzi oggi, riconsidereremo l’idea di rifiuto, di scarto, come alcuni designer e artigiani fanno già da qualche anno.

Ci si aggrappa allora ai resti del mondo di ieri. Ci si aggrappa, allora, nel frattempo, saldamente a quei rituali lì che hanno riempito i nostri vuoti nel mondo di ieri, e che vengono riperpetuati tristemente “in remoto”, in videochiamata, assemblando, in modalità fast o smart come una tenda da campeggio, una sorta di telesocialità che i più giovani sperimentavano già da anni. Ci si aggrappa allora all’aperitivo in videoconferenza, tutti insieme, ci si aggrappa al jogging casalingo correndo attorno al tavolo in diretta streaming, si organizzano visioni di film in contemporanea, esibizioni di canto corale in skypecall ecc. Che cosa stiamo facendo? Anziché guardare in faccia l’abisso, molti, per paura di farsi a loro volta guardare dall’abisso (come scriveva Nietzsche), ripiegano nel denial, “tutto tornerà come prima” (corollario: “quindi nel frattempo, continuiamo a parlare di serie tv”. Forse siamo solo in pochi ad avvertire un vuoto spaventoso dietro ogni discorso “frivolo” che quasi meccanicamente continuiamo a fare? Bisognerebbe comunque sviluppare una forma sana di autoindulgenza così come di autodisciplina).

Al di là del denial, che alle volte, in certi soggetti, è purtroppo comprensibile, c’è da chiedersi perché invece, in maniera diffusa, non riusciamo, il più delle volte, a parlare delle cose importanti. Potremmo, anzi dovremmo, per esempio prepararci mentalmente a questo “dopo” considerando l’idea che diventeremo COME dei cacciarifiuti fra le macerie (aspettarsi il peggio, in breve, potrebbe servire a non avere brutte sorprese). Nessun allarmismo, soltanto realismo in prospettiva – per esempio, per chi si sta affacciando al mondo della scuola, come si metteranno le cose per i precari al prossimo anno scolastico? Saranno garantiti delle forme di tutela per chi lo è da anni? Come partirà il nuovo anno scolastico? E l’ormai famoso e pluririnviato “concorso”? La possibilità di una didattica a distanza andrà a influire sui posti di lavoro? Quando si potranno aggiornare le graduatorie?

rust-2569491_1920-1024x768In generale, per noi nulla di nuovo in fondo, per noi della periferia d’Europa e d’Italia. Per noi che non abbiamo mai avuto una strada segnata, una mappa in scala adeguata. Per noi che “vado al nord”, “vado all’estero. Perché, altrimenti che farei?”. Solo che adesso, anche quegli abbozzi di mappa che pian piano avevamo tracciato, l’estero appunto, il nord d’Europa o d’Italia, si fanno più rarefatti. Il solo pensare questi altrove ideali e idealizzati deve passare adesso attraverso le tappe del “possibile” post-epidemia: ci saranno di nuovo le frontiere tra Paesi? Ci saranno ancora così tante opportunità anche lì? Le forme di assistenzialismo sociale e sanitario saranno ancora garantite ai non-cittadini, ai non-residenti? E così via. In definitiva: il mondo di domani farà il salto, diventerà davvero migliore, oppure no?

Perché alla fine si riduce tutto a questo, si ritorna per forza a questo: le grandi domande e le grandi speranze. E queste richiedono grandi ragionamenti. Non c’è più spazio per il superfluo, anche se ci teniamo aggrappati ad esso non è detto che il nostro peso ne verrà sostenuto, non è detto che l’abisso per noi non si spalanchi del tutto solo perché viviamo in un Paese che fa parte del G8. Anche la memoria della memoria si sta trasformando. Non più un’archeologia fine a sé stessa, ma una metamemoria,  un ripensamento delle scelte e delle rinunce che hanno permesso a me e agli altri e agli altri prima di me di sopravvivere al di fuori della grande pace climatica, del grande boom economico dagli anni ’50 fino a ieri. La memoria della memoria deve allora guardare molto indietro a balzi iperconnessi per permetterci di vedere molto avanti anche solo da uno spiraglio.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note

[1] Quello del “sé narrativo” è un concetto che attraversa svariate discipline: dall‘ermeneutica fenomenologica di Ricoeur (si veda per esempio Ricoeur P. 1988, Tempo e racconto III: il tempo raccontato, Milano, Jaca Book), alla psicologia (es.: Bruner J. 1986, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri), alla filosofia della mente (Dennett D.C. 2009, Coscienza che cos’è, Bari, Laterza) alla teoria della letteratura e le scienze cognitive (Clark A. 2003, Natural-Born Cyborg: Minds, Techonlogies, and the Future of Human intelligence, Oxford, Oxford University Press).
[2] Si tratta di questioni pratiche che oggi fanno la differenza tra una quarantena “serena” e una psicologicamente distruttiva tipo: “avrei potuto passare la quarantena a casa dai miei, o a casa da solo, forse sarei riuscito ad attuare i protocolli igienici che i miei condomini non riescono a praticare “ecc.
[3] In particolare, parlo di Borne di Jeff VanderMeer, Einaudi, 2018.

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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof.  Franco Farinelli.

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