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La storia e l’immaginario

copertina-sasl-n-23-2019immaginario-folklorico_page-0001di Luigi Lombardo

Storia, antropologia e scienze del linguaggio è un periodico italiano quadrimestrale interdisciplinare di studi umanistici, fondato nel 1986 da Luciano Dondoli, co-diretto da Mario Bulzoni tra il 1986 ed il 1992 e da Corrado Ocone dal 1992 al 1997, oggi diretto da Sonia Giusti, antropologa. La redazione fa capo al LAPASS – Laboratorio di Antropologia sociale “E. De Martino” / Osservatorio per la Memoria storica, Intercultura Diritti umani, sviluppo sostenibile, struttura dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale.

Si tratta di un periodico ormai presente da più di trenta anni nel panorama culturale italiano, ed è già questo un aspetto da sottolineare. Poche sono le riviste che resistono: quelle legate ad associazioni, enti di ricerca, Università soprattutto. Oggi prevale, per motivi anche economici, il periodico on line, come il nostro Dialoghi Mediterranei. La rivista cartacea è un legame con la cultura dei libri stampati, che riempiono biblioteche e librerie. Il persistere in questa modalità è scelta che si fonda sempre sull’abnegazione di pochi, sui sacrifici di “elites” culturali degne della nostra attenzione e ammirazione.

La caratteristica che più salta alla nostra attenzione è che trattasi di rivista “interdisciplinare”, che spazia, come esplicita il titolo, dalla storia all’antropologia e alla linguistica: un vasto campo di interessi, che tuttavia non significa guazzabuglio indigesto di idee e tendenze. Ci sono dei punti nodali che orientano e caratterizzano il piano culturale della rivista: fornire un quadro olistico della ricerca sull’uomo, sui suoi comportamenti in società, sulle forme di comunicazione anche le meno appariscenti, legate alla cultura popolare e alle forme del folklore orale. Ed è la caratteristica di questo ultimo numero (fasc. 2-3 del 2019), che presenta nel settore “Studi e ricerche” contributi di A. Borghini su Territorio, paesaggio, immaginario folklorico, di U. Bertolini Il Museo italiano dell’immaginario folklorico di Piazza al Serchio, S. Giusti La conoscenza storico-antropologica attraverso il museo folklorico. Nelle “Note e discussioni” interventi di P. P. Viazzo, M. Luca De Bernardi, A. Cusumano Pitrè e il mare nell’immaginario folklorico, L. Lombardi Satriani Paesi e Presepi, M. Atzori Itinerari e feste di alcuni santuari campestri in Sardegna, S. Giusti Mito e storia. Immaginario folklorico e fonti orali; e ancora S. Vernazza Realtà e vitalità dell’immaginario, F. Ciccodicola Il museo, luogo in cui fare “Comunità” e infine G. Pizza “Diplomazia vitale”, De Martino, Gramsci e le politiche della presenza. Un’attenzione particolare, dunque, è dedicata in questo numero ai vari aspetti e forme dell’immaginario, all’insieme delle pratiche simboliche, come dei racconti di fondazione mitica, alla produzione orale, insomma allo “Immaginario folklorico”.

64230605_437852210347344_4942527353533235200_oNon possiamo non notare una particolarità di alcuni interventi (Bertolini, Giusti, Ciccodicola) che presentano quella che ci sembra la prima esperienza di un “Museo dell’Immaginario”, una sfida se vogliamo, una sfida museografica. Si tratta di progettare un museo senza oggetti, quasi una provocazione (absit iniuria verbis) per chi lega l’idea stessa del museo alle “cose” tangibili e percepibili sensorialmente. Con questi “Musei” si cerca di «rendere più incisivo e di impatto il materiale del Centro [il “Centro di documentazione della Tradizione orale di Piazza al Serchio”], dando proprietà museale al singolo racconto ed espandendo allo stesso tempo le attività». Si precisa perciò nell’articolo del Bertolini che «l’immaterialità non è proprio in contrasto con il ruolo e la funzione che si dà ai musei: il racconto, pur posto su un supporto fisico cartaceo o magnetico, è essenzialmente espressione del pensiero in forma linguistica ed è sicuramente un patrimonio culturale»: nulla da eccepire. E allora perché non raccogliere in questo museo anche materiali cartacei (quaderni, diari, fogli sparsi), prodotti da individui alfabetizzati, di estrazione popolare, che hanno avuto la capacità di tradurre in scrittura appunto «fiabe, leggende, credenze su animali, piante acque rocce ecc.»? Magari è stato fatto, e sarebbe una lieta sorpresa.

81gxaeupyolE veniamo al punto focale di questo numero della rivista: il rapporto tra storia e immaginario, che a prima vista sembrano termini inconciliabili. Sonia Giusti dimostra che così non è, e lo fa citando il pensiero di Benedetto Croce quando affermava che la «storia è sempre contemporanea, nel senso che le cose che vogliamo sapere dalla storia nascono sempre da un problema del presente. Anche al mito si ricorre sollecitati da un problema, o da una curiosità, del presente». In poche parole nel saggio si confuta la tesi che tende a separare e a contrapporre fatti storici e narrazioni mitiche, nella presunzione feticistica dei dati archivistici e nella falsa presupposizione che solo nei primi sia la verità, quella “verità storica”, che «dipende più modestamente dalla onestà professionale di chi la persegue e cioè dalla disponibilità a rivedere la documentazione usata in un continuo impegno chiarificatore, evitando ciò che Vansina definisce “la testimonianza come miraggio della realtà”».

In un memorabile articolo dal titolo Le forme del tempo A. Buttitta [1] affronta proprio queste tematiche, commentando il “presentismo” dello storico francese Hartog [2] e affrontando la tematica della storia come contemporaneità e il presupposto assolutamente oggettivo del tempo: le forme del tempo, cioè il tempo inteso agostinianamente come distensio animi. Ma se togli “oggettività” (lo spazio tempo) alla storia ecco che i confini tra storia (i fatti nel tempo e nello spazio appunto) e l’immaginario, di cui il mito è la componente più “storicistica”, in quanto “racconta”, tra l’altro, il tempo delle origini da cui deriva la storia presente, si riducono fino ad annullarsi.

Ma allora l’obiettività e la veridicità della storia fondata sulle più raffinate ricerche storico archivistiche? Restano valide, certo, ma non esauriscono la pluralità delle manifestazioni della coscienza. Forse chi ha colto meglio il significato e il posto che occupa l’immaginario è stato Gilbert Durand [3], quando pone con decisione il tema scottante della “veridicità” dell’immaginario, cioè degli archetipi, dei miti, dei riti, simboli e segni, e di tutto l’insieme delle “fantasticherie” (per usare un termine caro a Bachelard), che in epoca illuministica formavano le “fole degli antichi”, veri sottoprodotti della mente, fonti di errori e falsità, vacanza della ragione. Al più si è definito l’immaginario come “infanzia della coscienza”. Tutt’altro, poiché, come sostiene Sartre [4], il cogito non è mai unidirezionale o monadico, ma al contrario, bidirezionale e plurimorfico.

Superando le contraddizioni di Sartre, Durand arriva, attraverso una sapiente lettura di Bachelard, a definire il carattere dell’immaginario: la sua bivalenza, «insieme invito alla conquista adattativa e rifiuto che mostra un ripiegamento assimilatore». Ne deriva che i simboli sono sempre “bivalenti”, strutturati nei due regimi del diurno e del notturno, in corrispondenza della riflessologia umana.

É proprio l’ambivalenza che si coglie ad esempio nel simbolo del mare, sapientemente analizzato nel saggio di A. Cusumano Pitrè e il mare nell’immaginario folklorico, dove lo studioso passa in rassegna le pagine dell’immensa opera pitreiana che si occupano di cultura del mare. Nulla di organico paradossalmente – aggiunge l’autore, in quanto ci si sarebbe aspettato da “un uomo di mare”, che «a soli ventun’anni mandò alle stampe nel 1863 un Saggio d’un vocabolario di marina italiano-siciliano», rimasto isolato, una specifica monografia sull’argomento. Sorprende che uno studioso, che nacque e visse in una città di mare, «sulle circa duemila pagine di Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano Giuseppe Pitrè ne avesse dedicato al mare appena dieci». É ciò che notò a suo tempo Sciascia, che l’attribuiva a «un’oggettiva carenza o difficoltà di reperimento della materia folkloristica nei paesi di vita marinara, nonché di un’attrazione che lo studioso, nato in una città di mare e figlio di marinaio, più sentiva verso il mondo della Sicilia interna, della Sicilia contadina».

5110lrlzeml-_sx328_bo1204203200_In mancanza di uno studio organico, Cusumano ha ripercorso l’opera pitreiana evidenziando fiabe, racconti, usi e costumi legati all’immaginario del mare. Dalla messe di dati esaminati emergono materiali etnografici straordinari, ma dalla natura ambigua, che confermano l’ambivalenza costitutiva dei simboli, e le immagini che li descrivono, la doppiezza consustanziale alla natura dell’acqua, ora sotto la forma di acqua di superficie, nello status di chiara e cristallina apparenza, simbolo di purezza e di purificazione, ora in quanto acqua di profondità, di oscurità sommersa, simbolo di inquietudine e di caduta precipitosa. «Nella topografia dell’immaginario che il mare occupa nelle storie raccolte da Pitrè prevale senza dubbio il meraviglioso, l’elemento che inquieta, seduce e spaventa, il mostruoso e il misterioso, l’elemento che inquieta, seduce e spaventa, tutto ciò che vive e abita sul limitare dell’umano, tra il mito dell’altrove che attrae e la paura dell’alterità che turba e respinge. Per la doppiezza della sua stessa natura fisica, per la sua duplice dimensione di superficie e di fondale [...], il mare possiede – in obiecto et in intellectu – uno stato ibrido, uno statuto ossimorico». Ambiguità appunto, che è la condizione di molte immagini e simboli, connessi alla bipolarità dell’immaginario, i cui tragitti antropologici ci restituiscono ora un’acqua di superficie, calma e rassicurante, ora un abisso profondo e oscuro. Ma con un procedimento eufemistico si ribalta questa immagine “diurna”, e il mare diviene profondità non più tenebrosa, ma liquido primordiale, utero materno, vitale e rassicurante: e mare non è simile al francese mer, a sua volta simile a mère (madre): identica radice semantica?

ginzburgUn saggio di P.P. Viazzo affronta il tema, come rivela il titolo, delle «Storicità insidiose», sviluppando il rapporto tra antropologia, storia, folklore e archivi, muovendo da due convegni di studi assai recenti: il primo a Londra, il secondo assai intrigante su Archivi fra storia, antropologia e politica, tenutosi a Torino (2019), in cui l’autore ha presentato una relazione dal titolo L’antropologia e l’archivio, questione dibattuta da chi tenta di connettere fonti orali e scritte, storiografia e antropologia. Ragionando sui metodi da adottare Viazzo cita un illustre studioso come Carlo Ginzburg, autore di un classico della ricerca storico-archivistica Il formaggio e i vermi, «un libro che, pur fondato per intero su documenti rinvenuti in archivio, si era nondimeno posto lucidamente il problema dei rapporti tra fonti scritte e orali, oltre che delle potenzialità e possibili letture delle fonti scritte, nello studio di quella che Ginzburg chiamava cultura popolare».

La rivista ripropone anche uno scritto di uno dei maestri dell’antropologia italiana Luigi Lombardi Satriani, al quale molti di noi devono la loro formazione intellettuale. L’articolo ha per titolo Paesi e presepi. Attraverso la lettura di suggestivi passi di autori meridionali come Corrado Alvaro, l’antropologo commenta quella particolare qualità che caratterizza molti paesi del Meridione d’Italia e che per morfologia, paesaggio urbano e vita quotidiana li fa assomigliare a dei presepi. I due termini sono interscambiabili: il presepe imita la realtà dei piccoli borghi, la campagna, come le montagne, le case addossate come a proteggersi tra loro; a sua volta, invertendo i termini, i paesi sembrano, in un gioco di specchi, dei presepi, immobili e quasi eternati da un senso di mistero, che li restituisce sub specie aeternitatis. In questi paesi, come nei presepi, sembra compiersi il mysterium tremendum della nascita di Colui che fonda la renovatio temporum.

Altro immaginario è infine quello descritto da Mario Atzori, che nel ripercorrere i pellegrinaggi presso i santuari campestri della Sardegna ci conduce nel suggestivo itinerario delle feste di devozione e di convivialità, di penitenza e di competizione, nell’affascinante intreccio di ritualità e socialità che le tradizioni popolari ancora ripropongono nei paesi delle aree interne del nostro Paese. Uno spettacolo, un teatro, tante storie che documentano la straordinaria vitalità del mondo dell’immaginario folklorico.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 Note
[1] A. Buttitta, Le forme del tempo, in «Archivio Antropologico Mediterraneo», A. X/XI (2007-2008), n. 10: 5-16.
[2] Regimi di storicità. Presentismo ed esperienze del tempo, Palermo, Sellerio, 2007.
[3] G. Durand, Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1987.
[4] J. P. Sartre, L’immaginazione, Milano Bompiani, 1950.

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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa.

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