di Chiara Dallavalle
Parlare di burn-out richiama immediatamente alla nostra mente l’idea di mansioni lavorative particolarmente usuranti, che arrivano a logorare nel profondo coloro chi le svolge. Talvolta questo logorio costante produce effetti profondamente negativi su chi lo subisce. Insonnia, fatica e senso di stanchezza, dolori fisici, ma anche scarsa empatia, irritabilità, senso di fallimento e alta resistenza ad andare al lavoro. Queste sono solo alcune delle manifestazioni a cui dà luogo la sindrome da burn-out, che, secondo la definizione di Cary Cherniss, si configura come la risposta data dal soggetto ad una situazione di lavoro percepita ormai come intollerabile (Cherniss 1980).
Il burn-out appartiene per eccellenza alle occupazioni che implicano un rapporto prolungato con altre persone, dove la componente relazionale assume un ruolo centrale nel proprio lavoro. Spesso inoltre tale relazione ha luogo con soggetti in qualsivoglia situazione di difficoltà, tale per cui la relazione che si viene ad instaurare è una vera e propria alleanza d’aiuto. I professionisti alle prese con questa tipologia di utenza si trovano quindi da un lato a gestire le fatiche e gli elementi stressogeni della propria vita quotidiana, ma al tempo stesso sono professionalmente chiamati a farsi carico anche delle difficoltà della persona aiutata. Sono quindi soggetti ad una duplice fonte di stress, con il rischio di farsi un carico eccessivo delle problematiche delle persone di cui si occupano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. Questo può innescare un lento processo di logoramento e decadenza psicofisica.
Curiosamente, il burn-out interessa proprio quelle professioni accompagnate da una forte componente idealistica, che la persona sceglie spesso in virtù di una vera e propria vocazione e della grande gratificazione che arriva dalla componente relazionale del lavoro. Tuttavia, se la pratica professionale non è costantemente oggetto di cura da parte della persona stessa e dell’organizzazione per cui lavora, può accadere che l’entusiasmo idealistico dell’inizio sia sostituito da una fase di stagnazione, in cui la persona inizia a perdere interesse per il proprio lavoro e vive con sempre maggiore frustrazione la discrepanza tra aspettative e realtà. La sindrome di burn-out provoca così un maggiore distanziamento del professionista rispetto alle persone di cui si occupa. Non si tratta però qui di quella distanza “sana” che aiuta e favorisce la relazione d’aiuto, ma al contrario una distanza che spesso sfocia nella mancanza di empatia e nell’evitamento dell’utente, oltre che ad un allontanamento valoriale sempre maggiore dall’organizzazione per cui si lavora.
Nel caso di chi lavora con migranti, il rischio di burn-out è accentuato da alcune specificità di queste professioni, che le rendono particolarmente esposte a tale sindrome. Da un lato la relazione d’aiuto tra professionista e utente è connotata da una maggiore complessità che nasce dagli elementi interculturali della relazione stessa. I migranti sono per definizione portatori di diversità culturale, in quanto provengono da zone geograficamente lontane, da strutture sociali e da sistemi di rappresentazione e significazione della realtà quasi sempre diversi da quelli del contesto di accoglienza. L’incontro con l’Alterità può essere suggestivo ed intrigante quando ci facciamo inebriare da un certo grado di esotismo, ma diventa immediatamente minaccioso quando mette in discussione i capisaldi e le certezze su cui costruiamo la nostra routine quotidiana.
Se intendiamo la cultura come una sorta di occhiale attraverso cui guardiamo al mondo e gli diamo un senso, essa è qualcosa di cui molto raramente siamo consapevoli e per questa ragione tendiamo a considerare la nostra visione della realtà e degli altri come l’unica possibile. Ciò porta inevitabilmente ad una serie di malintesi ovvero di incidenti comunicativi inconsapevoli quando persone di diversa provenienza entrano in contatto, ed è la ragione per cui lavorare con persone migranti implica un livello di intenzionalità comunicativa molto elevato e caratterizzato da una grande capacità di ascolto profondo. A questo aspetto si aggiunge la fatica di entrare in contatto con storie di vita spesso cariche di dolore e di sofferenza. L’esperienza traumatica è inevitabile per chi oggi si incammina verso l’Europa dal Medio Oriente e dall’Africa. Alla violenza fisica, psicologica e sessuale subìta durante il viaggio, si accompagna poi una sorta di traumatizzazione secondaria vissuta al momento dell’arrivo nel contesto di accoglienza, dove le aspettative si scontrano con realtà poco disponibili ad accogliere il sogno migratorio, e che ha effetti ancora più profondi e devastanti. Chi lavora con migranti conosce bene le fatiche insite nel costruire un progetto di integrazione all’interno di un contesto sociale ed istituzionale non sempre facilitante se non apertamente ostile, cosa che può indurre senso di impotenza e frustrazione non solo nei migranti ma anche nell’operatore stesso.
Al tempo stesso anche chi lavora con i migranti spesso lo fa in condizioni di elevata precarietà, professionale ed istituzionale. Le condizioni di lavoro di chi opera nelle strutture di accoglienza sovente non assicurano standard di qualità professionale adeguati, i salari garantiscono a stento la sussistenza e le forme di supporto e tutela che l’organizzazione è chiamata ad attuare verso chi lavora in prima linea a volte scarseggiano. Anche il contesto giuridico ed istituzionale contribuisce ad aumentare il senso di precarietà entro cui si opera, con continui mutamenti a livello normativo, che non di rado penalizzano i progetti di integrazione che gli operatori faticosamente tentano di costruire con i propri utenti.
Allora che fare? Un’esperienza interessante e forse unica nel suo genere è stata realizzata da Cerdi Kala Yoga, un centro yoga di Milano esclusivamente dedicato alla pratica dello Yoga Kundalini. Questa millenaria tecnologia offre la possibilità di generare l’energia interiore necessaria ad affrontare le problematiche della società contemporanea, sviluppare resistenza allo stress e alle pressioni esterne, e mettere a disposizione nuovi strumenti di relazione che favoriscano una migliore comunicazione empatica con l’Altro. Il progetto “Yoga di cura per chi cura” nasce all’interno di questa tradizione yogica, con l’intento di offrire un supporto a tutti coloro che sono impegnati nel lavoro con i migranti e quindi sottoposti a forti pressioni fisiche, psicologiche ed emotive che possono dar luogo a una condizione di burn-out. Si tratta di dieci incontri rivolti esclusivamente a chi lavora a stretto contatto in primis con richiedenti asilo e rifugiati, ma in generale e a svariato titolo con persone straniere. Un percorso che affronta di volta in volta tematiche tipiche di questa tipologia professionale, dall’entrare in relazione con il trauma e il dolore al senso di impotenza e di frustrazione, e le mette al centro di specifiche pratiche yogiche che agiscono su quegli aspetti dell’essere umano. Il cuore del percorso è l’entrare in relazione con l’Altro in modo autentico e profondo, chiunque lui/lei sia.
Secondo gli insegnamenti di Yogi Bhajan, maestro che ha portato lo Yoga Kundalini in Occidente, nell’era dell’Acquario, ovverosia nel tempo in cui stiamo vivendo, le relazioni sono facilitate dalla fluidità e velocità con cui le informazioni circolano, in un mondo ormai apparentemente senza confini. Tuttavia il ritmo e l’intensità dei flussi informativi, insieme a quelli degli esseri umani, sottopongono le persone ad una forte sollecitazione mentale richiedendo una grande resistenza allo stress. Le pratiche dello Yoga Kundalini permettono di andare oltre il semplice controllo intellettuale del mondo esterno e consentono invece di aumentare il livello di consapevolezza interiore, generando così stabilità e forza del sistema di ciascun essere umano.
Il progetto di Cerdi Kala Yoga si pone quindi come una risorsa importante per coloro che vivono quotidianamente situazioni stressogene e cariche di complessità relazionale, come è il lavoro all’interno delle strutture di accoglienza per migranti. Gli incontri sono completamente gratuiti e questo è reso possibile da un altro caposaldo dello Yoga Kundalini, il seva, termine che deriva dal sanscrito e che letteralmente può essere tradotto come servizio, verso se stessi e verso gli altri, senza attendere nulla in ritorno. Gli insegnanti di Cerdi Kala Yoga hanno scelto di mettere a disposizione il proprio tempo per condividere queste preziose pratiche yogiche con chi a sua volta dedica tempo e professionalità a coloro che si trovano in condizioni di disagio. Si crea in questo modo un vantaggioso e terapeutico sistema di reciprocità, una catena virtuosa, che ci mobilita verso un obiettivo comune: rendere il mondo in cui tutti noi stiamo vivendo un luogo un po’ più accogliente per ogni essere umano. È un segno di resistenza importante in un momento storico in cui le chiusure e i muri difensivi sembrano prevalere sulla capacità degli uomini di sentirti in relazione tra loro e percepirsi come parte di un tutto.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Riferimenti bibliografici
Baumann, G. (1996), Contesting culture. Discourses of identity in multi-ethnic, London. Cambridge University Press: Cambridge.
Bhajan, Y. (1998), The mind. Its projections and multiple facets, Kundalini Research Institute: Santa Cruz.
Cherniss, C. (1980), Staff Burnout. Job Stress in the Human Services, Sage Publications: London.
Kilani, M. (1994). L’invenzione dell’altro. Saggi sul discorso antropologico, Edizioni Dedalo: Bari.
Cerdi Kala Yoga ASD http://www.kundaliniflow.com/
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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