dialoghi intorno al virus
di Silvia Pierantoni Giua
13 aprile
Stringere la mano a Dio (Bompiani 2020) è il libro che avevo appena cominciato a leggere poco prima del lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus. Si tratta di un piccolo volume di poco più di settanta pagine in cui vengono riportate due conversazioni tra gli scrittori americani Kurt Vonnegut e Lee Stringer, una in una libreria di Manhattan nel ‘98 e l’altra in un caffè di New York l’anno successivo. Le conversazioni non hanno un tema specifico. Sono dialoghi molto spontanei e di piglio quasi sempre ironico, favoriti dalle domande del sapiente moderatore Ross Klavan, prodigo di spunti e di riflessioni sulla scrittura, sul processo creativo, sull’esperienza e la vita quotidiana come fonte di ispirazione e materiale da trasformare in racconti e romanzi. Quelli citati sono Cronosisma (Vonnegut, 1997) e Inverno alla Grand Central (Stringer, 1998) di cui, in certi passaggi della conversazione, vengono letti alcuni estratti.
Entrambi sono scrittori americani: Kurt Vonnegut (Indianapolis, 1922-New York, 2007) ha pubblicato numerosi romanzi il cui stile fantascientifico serve da pretesto per osservare l’umanità dei personaggi da angoli inconsueti; Lee Stringer (New Orleans, 1969), ha vissuto molti anni per le strade di New York e, a un certo punto, ha deciso di cominciare a scrivere abbandonando la sua vita da senzatetto, a cui fa spesso riferimento, superando anche la sua dipendenza dal crack.
Leggo le pagine tutto d’un fiato. Qualche giorno dopo, esce il primo DPR che impone a tutti gli italiani di “restare a casa”. Vengo avvolta o meglio, travolta, da un turbinìo di attività tale per cui ho un effetto di straniamento dato dalla corrente che mi trovo a seguire, contraria a quella della maggior parte delle persone con cui sono in contatto. Molti individuano nuovi modi di passare la giornata; tanti si annoiano, altri riscoprono il piacere di leggere e svolgere quelle attività che in genere non si ha il tempo di praticare. Ecco, io, mi ritrovo invece dentro un’accelerazione incredibile di ciò di cui mi stavo già occupando prima dell’emergenza, ovvero il lavoro di insegnante e i diversi progetti di teatro in cui sono coinvolta; oltre alla moltiplicazione di telefonate, video-chiamate, messaggi, gruppi WhatsApp, come per tutti.
Senza avere neanche il tempo di pensare, lavoro ininterrottamente: sono al pc dalle 8.30 del mattino alle 9 di sera (quando va bene), il tutto a 200 all’ora, percependo tutto lo stress del modo in cui sto vivendo e senza avere la possibilità di sfogarlo con una passeggiata, una corsa, un po’ di sport, una serata con gli amici.
Mi piacerebbe scrivere qualcosa sulle pagine di quel libro che avevo trovato piacevole e fresco come una pioggia di aprile; ma anche altri pensieri ed emozioni riguardo alla situazione che stiamo vivendo mi traversano la mente. “Forse potrei mettere insieme le due cose”, penso inizialmente. Ma poi fa capolino un dubbio: “Voglio aggiungere altre riflessioni sull’argomento quando ne siamo già sufficientemente pervasi, per non dire invasi?”.
Spesso ho pensato e penso ancora che sia rischioso lasciare che un “monotema” inglobi tutti gli altri. Ho la sensazione che quello del coronavirus stia diventando un mostro gigante, un Leviatano che continuiamo a nutrire inconsapevolmente con i nostri discorsi, messaggi, conversazioni e quant’altro; come se la vita improvvisamente si fosse drasticamente ridotta, ovvero fosse diventata il virus stesso. Spesso ho sentito me stessa e amici dire “quando finirà, farò questo o quest’altro”, oppure “in un momento come questo, non mi sento di fare tale o talaltra cosa”. La vita si è arrestata? Dov’è andata a finire? Cosa facciamo ora, nel momento presente? C’è un prima e un dopo o fa tutto parte dello stesso percorso?
Penso che una cosa che ci sta insegnando questo periodo sia proprio che la realtà è ben più grande dei nostri programmi e previsioni; che il futuro è frutto di come viene vissuto il presente. E così oggi, a maggior ragione in un momento di difficoltà come questo. Ciò non vuol dire ignorare o sottovalutare quello che sta accadendo. Al contrario. Si tratta proprio di partire dalla realtà e decidere come viverla, invece di subirla. Inevitabilmente siamo influenzati da tutto quello che implica la condizione in cui ci troviamo e ognuno ne è toccato in modo più o meno diretto, più o meno drammatico. Personalmente, ho la fortuna di essere qui, in una casa accogliente, con lo stipendio che arriva a fine mese, con amici e parenti in salute, a poter filosofeggiare sull’argomento. E questa è la prima grande considerazione che questa situazione mi ha portato, impreziosendo le mie giornate. Una profonda e sincera gratitudine.
Ecco che quindi mi trovo a scrivere alcune riflessioni a partire da questo piccolo volume, che certamente sono intrecciate con la realtà che stiamo vivendo. Come sempre d’altronde. Quel che cambia dal resto degli anni da me vissuti in prima persona, è l’eccezionalità del periodo che, dalla mia situazione privilegiata, mi permette di arricchire il pensiero.
Cominciamo dal titolo. Stringere la mano a Dio. Certamente non lascia indifferenti. Nel mio caso, ha attivato immediatamente una serie di pregiudizi come “sarà un libro di qualche mistico o che parlerà di religione”. E il sottotitolo non mi ha certo aiutato a smorzarli. Il fatto che si trattasse di una conversazione tra scrittori non cambiava la mia convinzione di partenza: “Saranno due autori che scrivono di qualche rivelazione mistica/saranno due preti/sarà che nella conversazione emergerà qualche considerazione religiosa sul senso della vita” e così via.
Ebbene, niente di tutto ciò. O meglio, considerazioni sul senso della vita ne ho trovate parecchie, ma a partire da un punto di vista che di mistico e religioso ha ben poco. Allora cosa c’entra Dio? Al titolo dà nome una frase pronunciata da Lee stesso all’interno della prima discussione in cui racconta che quando era riuscito a concludere un suo scritto era come se «avesse stretto la mano a dio»; l’espressione indicava quella sensazione di gioia estrema e appagamento che poche volte si prova nella vita; quell’insieme di stupore/meraviglia/piacere/soddisfazione/incredulità che capita di sentire di fronte alla conclusione di un’opera di cui si è soddisfatti; quella sensazione di contatto diretto con il cielo o con la parte più profonda di noi, che è un po’ la stessa cosa.
Nel libro Il verbo degli uccelli del poeta persiano Farid ad-Din Attar, mistico Sufi del XII secolo, centomila volatili si mettono in viaggio per raggiungere l’essere divino Simurgh e, una volta arrivati alla meta, si ritrovano in realtà davanti allo specchio dove si vedono riflessi scoprendo così che il Simurgh, il divino, erano loro stessi.
Questo racconto suggerisce come la ricerca del divino sia un percorso interiore di conoscenza, un viaggio per migliorare noi stessi. Questa sarebbe la sfida che ci pone davanti la vita. Lee, a seguito della domanda di Ross su quali fossero le sfide umane che si dovrebbero affrontare al giorno d’oggi, afferma che «già il fatto di essere umani è una sfida. […] La sfida non è cercare di essere qualcos’altro ma è proprio il sentirsi…umani». Penso che “essere” umani sia davvero una sfida; ma che la sfida sia riuscire a “sentirsi” umani, mi porta invece a sollevare una critica.
Così espresso, questo pensiero sembra implicare che la ricerca dell’uomo, la vera sfida, sia tornare alla propria natura, (sottintendendo che essa sia “buona/positiva”); e che la sfida sia riscoprire la natura genuina dell’uomo, facendo un’operazione di sottrazione delle “brutalità” cumulate negli anni. Credo invece che la natura dell’uomo non sia né “buona” né “cattiva” e che l’umanità non sia data per natura ma sia una ricerca, un percorso di consapevolezza che si costruisce nel tempo e in ogni tempo. In questo senso, trovo prezioso lo spunto che ci offre Kurt poche righe sopra, in risposta alla stessa domanda.
Lo scrittore afferma che non crede che l’oggi sia diverso da altri tempi perché pensa che «la condizione umana sia come il tempo meteorologico». L’idea che non ci sia nessuna “condizione eccezionale” mi piace molto perché sposta il centro dell’attenzione dalla circostanza all’uomo, il quale – come sappiamo – ripete gli stessi errori indipendentemente dall’epoca storica. L’imperfezione è una caratteristica insita nell’essere umano e questo spunto, calato nell’eccezionalità del presente che stiamo vivendo, mi porta a sua volta a un’altra riflessione legata alle tante considerazioni di natura “assolutista” che si respirano in questo momento, che oscillano tra il polo dell’apocalisse a quello della “redenzione/rivoluzione” in termini salvifici del mondo. In entrambi i casi, la sensazione è quella di star vivendo una situazione talmente più grande di noi che da un lato fa sentire impotenti, dall’altro diventa alibi perfetto per non sentirsi responsabili.
È sempre pericoloso pensare di poter “cambiare il mondo”. Penso che quello che siamo chiamati a fare sia partire da sé, provare a migliorarsi, migliorando così le relazioni con gli altri esseri umani e con la natura. In questo, come in ogni periodo della vita ed epoca storica. Quello sì che può favorire l’eccezionalità di una situazione come questa, come altre ce ne sono state nella storia dell’uomo, è una sorta di accelerazione ed estensione di consapevolezza. La cosa straordinaria sarebbe riuscire a cogliere la “miracolosità” della vita ordinaria poiché, come si legge in introduzione al testo, «Il miracolo più grande di tutti è che i miracoli veri e genuini ci appaiono come banali occorrenze di tutti i giorni». Si tratta di una citazione del filosofo del XVIII secolo G. E. Lessing, nome che mi ha rimandato immediatamente a un suo famoso pensiero:
«Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo desiderio sempre vivo della verità e mi dicesse: scegli! Sia pure a rischio di sbagliare per sempre e in eterno mi chinerei con umiltà sulla sua mano sinistra e direi: Padre, dammela! La verità assoluta è per te soltanto» [1].
Il pensiero di potersi sostituire a Dio, posizionarsi nella sua mano destra, ovvero essere persuasi di possedere la verità è propria dei fanatici e megalomani, come ben analizza lo psicoanalista Gérard Haddad nel breve saggio Dans la main droite de Dieu [2].
Pensare di poter “salvare il mondo” o, viceversa, di “non poter far niente” per un mondo che si starebbe rivoltando contro di noi, sono le facce della stessa medaglia: celano la presunzione di avere un potere tale da riuscire a cambiare le sorti dell’intero universo. Mi pare che la natura abbia rivelato sufficientemente d’esser ben più potente di noi. Questo non vuol dire che non siamo responsabili dei nostri comportamenti e che le nostre azioni non abbiano un’influenza sull’ambiente in cui viviamo. Basti pensare al riscaldamento globale, all’inquinamento e a tutto ciò che ne consegue. Un pensiero maggiormente sano e realista sarebbe quello di prendersi cura del proprio giardino, come suggerisce Voltaire. “Se tutti facessimo così…” potremmo dare il nostro contributo al miglioramento del mondo perché, come suggerisce Lee, «la condizione del mondo è sempre una questione personale, per quel che mi riguarda. La facciamo diventare una faccenda enorme, ma è davvero sempre una questione personale».
Lasciando da parte quindi fanatismi e megalomanie, potremmo forse a metterci in cammino su quella che penso sia la vera sfida, ovvero star bene, cominciare a “salvare” se stessi. Alla domanda se non gli venisse voglia di salvare suoi “ex compagni” senzatetto, ancora una volta Lee ci suggerisce un punto di vista prezioso:
«Non sono tanto presuntuoso. Sono stato a malapena in grado di salvare me stesso. Se c’è qualcosa che ho imparato vivendo per strada è che, se mi guardo intorno, tutti noi – chiunque in questa stanza – stiamo cercando a tentoni il modo migliore per vivere le nostre vite […]. Sarebbe un tantino presuntuoso dirsi certi di essere in grado di salvare chicchessia, per me, quantomeno. Salvarmi è un lavoro che mi occuperà tutta la vita…».
Ecco quindi che torna la visione della vita come ricerca. Una ricerca che ognuno intraprende in modo diverso. Nel caso di Kurt e Lee, attraverso la scrittura. Su questo tema, a un certo punto del dialogo intessuto nelle avvincenti pagine del libro, Kurt consiglia la lettura di Lo scrittore e la psicoanalisi di Edmund Bergler, opera in cui l’analista sostiene che gli scrittori sono fortunati perché possono curare la loro nevrosi tutti i giorni scrivendo. Kurt aggiunge che pensa sia così per ogni forma d’arte, un modo per migliorare sé stessi. A questa riflessione, aggiungerei che per arte non debba intendersi solo la pittura, la musica e così via; bensì qualsiasi azione fatta “a regola d’arte”, ovvero con cura e amore. L’arte, è vero, forse più di altre attività, permette di stabilire un contatto privilegiato e profondo con la propria intimità offrendo quindi la possibilità di scoprirsi, conoscersi, passaggio fondamentale per provare ad operare quel miglioramento auspicato.
Con tutte le limitazioni che il Coronavirus ci sta imponendo e le conseguenze e difficoltà varie che ne derivano (a livello pratico e psicologico), non ci restano che due possibilità: decidere di abbandonarci passivamente a tale condizione, “fermare la vita” in attesa che ne giunga una più favorevole/semplice, avendo la pretesa che la realtà si adatti alle nostre esigenze e non viceversa; oppure, partire dalla realtà che viviamo e farcene qualcosa, cogliere la sfida che ci pone davanti. La sfida è quella di sempre, solo che in alcuni momenti si manifesta in modo più evidente (e questo è uno di quelli): provare ad essere migliori. In altre parole, star bene. Questa è la vera rivoluzione. Questo è il solo modo perché anche il mondo possa cambiare.
Sappiamo, inoltre, che è proprio nei momenti più difficili che pulsa la vita, che nascono come germogli nuove idee, che si cresce. All’inizio di questo libro ricco di spunti, Kurt afferma che scrive prendendo spunto dalla sua vita e ironizza dicendo: «Grazie a Dio ero a Dresda quando è stata rasa al suolo». E ancora, «dalle mie vicende ho guadagnato una forma di ottimismo. Anche il peggio che ci può capitare è un’opportunità, contiene delle possibilità». Sono proprio i limiti a farci trovare nuove idee, a farci scoprire nuove risorse, sperimentando così quanto può essere vasta la gamma di possibilità. Trasformare il dolore in arte, creazione, energia, passione, amore.
Ecco quello che avrei voluto dire alla mia vicina di casa quando si è affacciata alla finestra per sgridarmi mentre stavo cantando una canzone dal balcone in questo periodo di quarantena. Se non fosse rientrata immediatamente dopo aver affermato che questo non era il tempo di cantare ma di pregare, le avrei detto che anche la preghiera è una forma d’arte, ovvero ha, per chi ci crede, un “potere” trasformante. E che anche nei momenti peggiori, di guerre e atrocità, l’uomo ha saputo e voluto dare voce al proprio dolore attraverso tutti i canali espressivi che ha potuto usare. E che non c’è male che possa sconfiggere questa meravigliosa capacità di resilienza dell’uomo, questo desiderio di vita, questa tensione all’amore.
Concludo dunque con quella che trovo sia una splendida preghiera lasciataci da Kurt in questo scritto come buon auspicio per questo presente e per il futuro:
«Non so se questo mondo resisterà, ma io terrò duro finché il mio cuore continuerà a battere».
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Gotthold Ephraim Lessing, “Eine Duplik” (1778), in Werke, hrsg. Herbert G. Göpfert, Munich, Hanser, Monaco 1979
[2] Gérard Haddad, Dans la main droite de Dieu. Psychanalyse du fanatisme, Premier Parallèle, Parigi, 2015
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.
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