Stampa Articolo

Come pensiamo noi antropologi? Per nugoli di polvere e brezze d’aria

 (foto Montes)

(foto Montes)

di   Stefano Montes

Sono al lavoro. A casa. Canticchio allegramente un paio di frasi di Geertz accompagnandole, nella mia mente, con un tempo in due quarti. Si prestano al ritmo che mi sono inventato: «Il pensiero è quello che avviene nelle nostre teste. Il pensiero è ciò che ne viene fuori, specialmente quando le mettiamo assieme»(Geertz 1988: 187). Qualcosa non mi convince tuttavia, benché io sia attratto dall’idea che si possa fare una etnografia del pensiero. Canticchio e lavoro. Battendo il tempo, freneticamente pulisco qui e lì, con una pezzuola blu, una mensola dopo l’altra, uno scaffale dopo l’altro, da una biblioteca all’altra, a seguire e ancora, con solerzia, incalzando la fila dei libri in rotta, raccattando qualche foglio sfrontato, inserito in modo disordinato, caduto inavvertitamente per terra, quando meno me lo aspetto e il caso interviene di suo. E allora lo rimetto a posto e ricomincio. E poi di nuovo e ancora, in costante dialogo con il mondo e i suoi delegati. In che ordine? Prima, pulisco con un movimento circolare della pezzuola che consente di spingere efficacemente la polvere restante in un angolino della mensola; poi, prendo risolutamente un libro in mano e lo faccio scontrare con un altro, di piatto, in orizzontale, in modo tale da dirigere con un bel botto tattile e sonoro il gran polverone, depositatosi nel tempo sulla parte superiore del libro, verso la finestra per metà aperta. Mentre la polvere vola via a spruzzi verso l’esterno, uno spiffero d’aria compatta colpisce a sprazzi il mio viso pronto a subire la sferzata con umile pazienza: un nugolo va, la brezza viene. Il tutto, come il motivetto che canticchio, in due tempi: qualcosa entra, qualcosa esce, in un ritmico viavai.

Mi illudo, ogni volta, che i primi segni della primavera siano già in arrivo, ma so bene che si tratta soltanto di un mio convincimento interiore, privo di fondamento esterno, che mi aiuta comunque a darmi un tono e a lavorare con maggior lena: mi proietta nel futuro prossimo, nei mesi primaverili ed estivi, e rappresenta in qualche modo una piccola anticipazione delle stagioni che preferisco da sempre. Guarda caso, ‘non vedere l’ora’ si traduce in inglese con ‘guardare in avanti’ e in francese con ‘avere fretta’: si ha tanta fretta di ‘essere nell’evento desiderato’ che si è già trasportati con la mente e proiettati con lo sguardo prima ancora che l’evento si realizzi, il tempo stravolto si normalizzi nuovamente e lo stato emotivo rientri nel ritmo ordinario, non più ansiogeno. Come dire: i miei atti cognitivi, liberi o diretti, sono comunque inseparabili dalla piega – barocca o meno – che prende il mio sentire e sperare. E intanto i nugoli vanno e le brezze vengono, una battuta musicale dopo l’altra. Dialogano. Vanno e vengono. Senza riposo. Sensibili al ritmo. Il va e vieni – ne sono consapevole – tiene lontano lo spauracchio del cattivo tempo, trasporta verso il mare e il sole. Perché adesso fa freddo, è febbraio, e non vedo l’ora che arrivi il bel tempo: spiaggia e venditori ambulanti sono in attesa, ricerca sul campo e sudore si ricombineranno presto. Stando così le cose, mi accontento, non mi lamento punto. Basta dire che spolverare è un lavoro, in fondo rilassante, al quale mi dedico di tanto in tanto, in inverno, a casa, per fare una pausa, sgranchirmi le gambe e pensare altrimenti, mentre scrivo o mi accingo a farlo.

Deambulazioni interetniche (foto Montes)

Deambulazioni interetniche (foto Montes)

Pensare altrimenti? Può sembrare strano, ma il pensare può assumere tante sfaccettature diverse, persino nel quotidiano, nel processo stesso di compiere un’azione ripetuta, in apparenza insulsa come spolverare. Per me, cambiare argomento, concentrarmi su altro e pensare al rallentatore è, nell’insieme, una deviazione dovuta, se l’inizio fa ostacolo con impertinenza allo scrivere. All’ostacolo, io oppongo un pensare altro: al pensiero in sé contrappongo un pensare dialogico a corrente alternata. Così, quando davanti lo schermo vuoto del computer non so come iniziare un articolo, piuttosto che scervellarmi, mi metto a spolverare qualche libro: a volte, mi bastano un paio di libri per distrarmi e darmi la voglia di rimettermi al computer (non è certo allettante avere a che fare con la polvere in faccia); a volte, più spesso, la smania mi prende e passo in rassegna un’intera parete di libri (il ritmo piacevole del lavoro la spunta sul fastidio della polvere). Sì, perché spolverare significa anche questo nell’arco più generale dei miei registri di vita: concedermi la possibilità, senza un fine preciso, affrancato dallo scopo di arrivare al dunque, di aprire un libro e leggere un rigo qualsiasi, di richiuderlo subito dopo e mettermi a leggere la quarta di copertina di un altro libro, confrontare sorpreso due indici di diversi libri e, come se nulla fosse, repentinamente, passare a leggere una pagina intera che nulla ha a che vedere con l’argomento del libro precedente. Di libro in libro, di rigo in rigo, di andazzo in andazzo: senza sensi di colpa, poiché iniziare «non è soltanto un tipo d’azione, ma è anche un ordine mentale, un tipo di lavoro, un’attitudine, una coscienza» (Said 1975: XV). Iniziare è difficile e bisogna concedersi alla sua ritualità con una giusta cadenza e un piacere misurato dalle azioni scelte.

È il piacere libero dello scorazzare senza fine, senza impegno: lasciarsi andare al caso, tenendo a bada la frenesia tipica della pianificazione ad ogni costo che imperversa nella vita di tutti noi, per necessità e abitudine inveterata. Il dolce far niente vuol dire questo, almeno per me, sì proprio questo: darsi al caso, rigettare il piano precostituito anzitempo. Un fatto è inoltre certo: concedersi la possibilità, spolverando, spolverando, di andare a zonzo con la mente e con i libri corrisponde al contempo a concedersi al particolare, più che alla totalità e all’insieme. Per vedere l’estremamente piccolo che attira l’attenzione, che punzecchia, bisogna sapersi lasciare andare e venire meno alle convenzioni.

Roland Barthes

Roland Barthes

Barthes ha scritto un libro intero sulla questione che, per lui, ruotava più particolarmente intorno alla riflessione su un oggetto del sapere in apparenza più nobile del mio: la fotografia. Così scrive Barthes: «Molto spesso, il punctum è un ‘particolare’, vale a dire un oggetto parziale. Fornire degli esempi di punctum, significa perciò, in un certo qual modo, concedermi» (Barthes 1980: 44). Ovviamente, il principio ha un campo di applicazione molto vasto, ben al di là dell’immagine. Nel mio caso, non si tratta tanto della relazione dello sguardo con la fotografia, quanto di un vero e proprio mutar di stile di vita, seppur per qualche minuto o quasi: dal ‘fare programmatico’ (previsto per lo scrittore di un saggio) al ‘fare casuale’ (atteso da chi bighellona con la mente e con il corpo). Ne ho bisogno di tanto in tanto: farmi pungere. Per me, in definitiva, si tratta di cambiare per un po’ stile di vita e modo di considerare i libri bighellonando: i libri si possono infatti leggere e studiare oppure, al contrario, i libri si possono spolverare e possono far pensare altrimenti. Leggere per studio e leggiucchiare spolverando sono dunque due stili di pensiero diversi da considerare – direi senza timore alcuno – attento oggetto di analisi antropologica: visto che il «problema del diverso modo di ragionare delle persone appartiene alla storia dell’antropologia» (Douglas 1999: 7).

Un’ipotesi si fa allora strada pian pianino nella mia mente, man mano che lavoro, mentre la polvere si solleva in aria e il mio ego tutto d’un pezzo, quello più convenzionale, batte in ritirata: l’antropologia dovrebbe studiare, tra le tante altre cose, anche i modi secondo cui una modalità dell’agire si coniuga con un tipo di pensiero e lo caratterizza in maniera più o meno stabile, rappresentando alcuni canoni socio-culturali di elaborazione e trasmissione del pensiero stesso. Concepire agire e pensare insieme, in contraltare e interrelati, è un modo – il modo che io qui propongo – per superare il paradosso di cui parla Geertz, nel suo articolo, secondo cui non si capirebbe bene come possa esserci un pensiero in atto (il processo) e un pensiero prodotto (il concetto), un pensiero nella testa (al suo interno) e un pensiero nel circolo sociale (all’esterno). Un paradosso bell’e buono, a detta di Geertz.

Clifford Geertz

Clifford Geertz

 In fondo, secondo me, agire è un po’ come pensare, e viceversa. Allora, per cogliere la coniugazione del pensiero con l’azione (e smontare di conseguenza la retorica dell’interiorità e dell’esteriorità ventilata da Geertz dualisticamente), la scrittura può giocare ancora un ruolo importante: anziché essere vista come un mezzo per mettere in forma un pensiero da essa rigidamente separato («la scrittura arriverebbe a cose fatte, a rendere il pensiero che avrebbe già preso preliminarmente una solida configurazione»), essa dovrebbe essere considerata uno strumento attivo nella formattazione stessa del pensiero («scrittura e pensiero come alleati di pari portata»). Si possono prevedere diversi modi di mettere in atto questo presupposto secondo cui «la cultura e la scrittura diventano entrambi potenzialmente generativi e capienti», in qualche modo idonei a contenersi e riformularsi reciprocamente (Stewart 2012: 518). Penso che uno di questi modi sia stato già stato reso efficacemente ‘operativo’ da alcuni antropologi postmodernisti. Può sembrare strano quello che affermo perché si dice, talvolta, che il Postmodernismo ha soprattutto messo in rilievo il fallimento dell’antropologia di cogliere pienamente l’altro. Il Postmodernismo viene infatti unicamente associato, da alcuni studiosi, alla dismissione dei grandi miti e delle grandi narrazioni.

È vero: i postmodernisti hanno senz’altro contribuito a prendere maggiore consapevolezza del fatto che la pienezza dell’alterità è effettivamente difficile da cogliere, se non addirittura impossibile, una volta per tutte. Secondo me, però, essi hanno inoltre contribuito, più ‘positivamente’, a mettere a punto strumenti più efficaci di approssimazione all’alterità, servendosi della scrittura come “modalità del pensiero” (Stewart 2012: 518) che interviene, fin dal primo momento, nella sua difficile resa testuale, dalla vita del pensiero stesso alla sua inevitabile messa in forma. Direi, succintamente, che i postmodernisti hanno cercato di approssimarsi al processo: nella consapevolezza che è necessaria, sempre e comunque, una forma di testualizzazione di volta in volta regolata, e persino sregolata, caotica come la vita stessa. Sono celebri gli esempi di Crapanzano (1995) o Dwyer (1982: 2004) che, forse ingiustamente, passano comunemente per esperimenti di campo riguardanti soprattutto il dialogo con gli ‘individui in carne e ossa’. È certamente così in qualche modo, ed è pure vero che il loro tentativo è consistito nel dare maggiore spazio all’interlocutore e a un suo più ampio diritto di parola. Io credo però che le loro etnografie siano, di più, esempi di interlocuzione con il proprio pensiero sull’altro in opera durante la ricerca, nonché un accostarsi al divenire molteplice della vita sul campo, tra gli altri. I modi di Crapanzano e di Dwyer sono in parte diversi, ma, sostanzialmente, tendono a mettere in forma un dialogo con se stessi e gli altri, il proprio pensiero sull’altro e il pensiero dell’altro, il più vicino possibile alla sua attuazione processuale, il più lontano possibile da un piano inutilmente precostituito. In fondo, cos’è il dialogo, se non un attraversamento fluido e costante, in corso, della propria voce da parte dell’altro, e viceversa? Bachtin lo lascia intendere in alcuni suoi scritti: sottolineando il movimento dell’attraversamento rispetto all’immobilità del monologo (Bachtin 1979).

Similmente, nella mia prospettiva di antropologo del linguaggio, soprattutto adesso che sono al lavoro, immerso nella complessità di una pratica in apparenza semplice quale lo spolverare una biblioteca, il dialogo è un ritmico viavai di attraversamenti in un contesto: di voci e di testi, di persone e cose, di interlocuzioni e codificazioni, di fogli e pezzuole, di nugoli di polvere e brezze d’aria. Spolvero a destra e a manca, penso per flussi e per ripieghi, in linea retta o per spizzichi e bocconi, mentre un libro scivola via per terra dalla mensola: allora mi arrabbio e lo insulto. Ma come, è solo un oggetto? Parlo e mi arrabbio con un oggetto privo di anima e corpo? Eppure lo faccio, costituendolo interlocutore par mio. Poi, preso dai miei pensieri, continuo a passare con insistenza la pezzuola sullo stesso angolo del ripiano; finalmente me ne accorgo e mi metto a parlare con me stesso: “ma che fai Stefano, svegliati, fai bene il tuo lavoro!”. Io parlo con me stesso come se fossi duplice, due in uno: l’esortazione parte da me stesso, ma viene enunciata da un delegato presupposto esterno a me stesso il cui ruolo di emittente assume pure una funzione persuasiva, velata d’un pizzico d’autorità.

 Pensazioni (foto Montes)

Pensazioni (foto Montes)

È noto: l’identità non può essere tale se non in termini di similitudini e differenze. Ciò vale pure per quell’‘io’ che pensiamo ingenuamente costituirci monoliticamente dall’interno. Spolverando, io ricorro a me stesso considerando il «Sé nei termini delle relazioni instaurate con gli altri» (Okely 1992: 2), ma anche in relazione con me stesso e con i modi secondo cui io stesso – soggetto e oggetto molteplice, processo e risultato, stratificazione e distensione – prendo progressivamente posto nello spazio, dispiegando flussi di pensiero e sensazioni vari. Non sono quindi pazzo: sono soltanto un antropologo, sono una persona comune come tanti altri, sono al lavoro, alle prese con la polvere. A un tratto, sul punto di fare scontrare due libri in aria al fine di far volare via la polvere senza colpo ferire, due innamorati per strada incominciano a litigare proprio sotto la mia finestra, invadendo il mio spazio acustico, chiamandomi involontariamente in causa nella loro conversazione.

Non c’è niente da fare: sono attraversato dai dialoghi, volente o nolente, che siano oggetti materiali, persone in carne e ossa o i miei stessi pensieri sotto forma di flussi indipendenti dalla mia diretta volontà. E non mi dispiace perché so bene, in fondo, cosa significa tutto questo. Svincolato dall’idea più comune di comunicazione tra due istanze in carne e ossa, il dialogo mette avanti un aspetto teorico forte che io privilegio nella ricerca e nella vita: il rifiuto del progetto in quanto ritaglio della vita (e del campo) come fare prefissato in partenza, preordinato e quindi in parte dottrinale. Il dialogo schiude dunque all’accettazione del disordine come elemento culturale e alla sensibilità come elemento centrale di apertura all’alterità. Scrive Dwyer sul campo: non ho né «l’intenzione di portare a compimento un progetto di ricerca concepito in anticipo, né, all’opposto, di fare vani tentavi di ‘trasformarmi in nativo’. Avrei semplicemente […] cercato di essere sensibile alle mie esigenze e alle loro» (Dwyer, 1982: XVI). Egli accetta il disordine (favorito dall’assenza di un progetto fisso) e la sensibilità (una dimensione che coniuga i sensi e l’apertura alla ricezione). Il presupposto ineludibile è che siamo – consapevoli o meno, a casa e sul campo, da soli o in compagnia, studiando o spolverando – sempre immersi in un fare e nel flusso inarrestabile di pensieri che lo accompagna, a volte lo precede, più spesso ne consegue: il pensiero infatti si svolge in parallelo all’azione (e persino all’inazione), costituisce a volte la premessa a un’azione che necessita di competenze e riflessioni specifiche per essere attuata, può anche essere situato in un contesto particolare dall’azione svolta e a cui fa seguito. In questa prospettiva, penso anche alle polifonie di Clifford e alle sue provocatorie ibridazioni di generi diversi che fondono insieme il viaggio, la traduzione e (sempre nella mia ipotesi) il pensiero (Clifford 1999).

Per ritornare a Geertz, dunque, cosa mi sembra che non vada nella sua pur innovativa proposta? Semplicemente il fatto che il pensiero sia da lui ‘pensato’ in maniera paradossalmente dicotomica: come qualcosa che si trova nella testa e come qualcosa che si trova al di fuori, una opposizione a mio parere di fatto inesistente. Mi diverte molto il suo stile provocatorio che accetto comunque nella sostanza interdisciplinare: «Alla fine siamo costretti, sia che lavoriamo in laboratori, cliniche, bassifondi, sia in centri di calcolo o villaggi africani, a considerare che cosa pensiamo veramente del pensiero» (Geertz 1988: 188). Sono dunque del parere, come lui, che lo studio del pensiero sia un grosso passo avanti per la messa a punto di una forma di conoscenza interdisciplinare, proposta con l’obiettivo di scardinare inutili compartimentazioni di saperi. E quindi mi diverto, ma penso pure che Geertz sia rimasto intrappolato nell’atto interpretativo, proposto dalla sua antropologia ermeneutica, che concede poco spazio all’altro, alla sua parola, e restringe la traduzione interculturale a un’operazione di un solo tipo: quello basato sul significato posto in essere dall’individuo che interpreta e non, come io vorrei, dal significato-significante intessuto dalle interrelazioni stabilite tra le più diverse istanze intersoggettive.

Se alla stessa stregua di Geertz penso che «l’ideazione, sottile o meno, sia un manufatto culturale», diversamente da Geerz credo che una etnografia del pensiero non sia soltanto una impresa di tipo interpretativo; se, con Geertz, penso che «fare un’etnografia del pensiero, è prendere posizione su che cosa sia il pensiero prendendo posizione su come si debba pensarlo», al contrario di Geertz credo che non ci si debba limitare a «descrivere il mondo in cui assume il suo significato» al singolare per un solo interprete, bensì ci si debba aprire alle plurime forme di semiosi intersoggettive (Geertz 1988: 193-194). Il grande merito di Geertz è dunque quello di aver proposto, forse tra i primi, una etnografia del pensiero. Lo sforzo è inoltre quello di aver cercato di accerchiare il difficile problema prendendo in considerazione studiosi e oggetti diversi: ne sono testimonianza gli altri saggi di Antropologia interpretativa, ma anche, se non di più, i diversi testi di Antropologia e filosofia.

 Soglie antropologiche (foto Montes)

Soglie antropologiche (foto Montes)

Nei saggi raccolti in questi due volumi, Geertz, in un modo o nell’altro, esplicitandolo direttamente o meno, si è confrontato con la possibilità di mettere in cantiere una etnografia del pensiero: giustamente però, nel suo caso, una etnografia del pensiero che mette in opera soltanto uno sguardo da vicino e non – come io prospetterei – un viavai di sguardi da vicino e da lontano, da dietro e di fronte, dall’alto e dal basso (per estendere la metafora ad altre forme spaziali). Quale opzione adottare, allora, più particolarmente? Penso che una etnografia (e una antropologia) del pensiero, da vicino e da lontano, richieda una riflessione comparata sulle articolazioni semantiche – che siano implicite o esplicite nelle culture e nelle teorie degli studiosi – del lessema ‘pensiero’ e dei suoi effettivi contesti d’uso. Ricorro dunque a un altro antropologo per meglio esemplificare questa mia affermazione: Tim Ingold. Critico nei confronti di Geertz, Ingold dice infatti ‘tre in uno’: propone cioè di pensare non più separatamente corpo, mente e cultura, ma di considerarli un tutt’uno all’interno di un sistema che si evolve. Non si può che essere d’accordo, credo. Io sono senz’altro contro i dualismi ciecamente radicati in una teoria o in una cultura. Geertz, a detta di Ingold, ne riproporrebbe uno: quello tra mente e cultura. Scrive Ingold: «Ciò di cui abbisogniamo, invece, è un modo diverso di pensare gli organismi e i loro ambienti. Questo è ciò che chiamo ‘pensiero relazionale’. Significa trattare gli organismi non come entità discrete, predefinite, ma come luoghi di crescita e di sviluppo all’interno di un continuo campo di relazioni. È un campo che si dispiega nelle storie di vita degli organismi e che essi introflettono (attraverso processi di incorporazione o in-menta-mento) nelle loro specifiche morfologie, capacità di movimento, di coscienza e di risonanza» (Ingold 2001: 79).

Tuttavia, pur apprezzando le qualità del continuo e dell’indistinzione proposte da Ingold, mi chiedo, perché partire solo da tre categorie (corpo, mente e cultura) e non da quattro o cinque? Perché, per esempio, non tentare di includere anche percezioni e affetti nel tutt’uno in evoluzione di cui parla? In altri termini, perché dividere il ‘semantismo del continuo’ soltanto nel ritaglio di tre entità da rigettare in favore di un ipotetico pensiero relazionale le cui relazioni sono, invece, a mio parere, sempre da ridefinire. Si potrebbe obiettare che è solo un punto di partenza, proposto soltanto come argomentazione di un altro studioso (quello di Geertz) per essere subito dopo rifiutato; detto questo, il campo semantico utilizzato da Ingold stesso reintroduce alcune discretizzazioni più o meno sotto altra forma: categorie discrete quali coscienza, incorporazione, in-menta-mento che fanno ricadere inevitabilmente Ingold in una forma – o l’altra – di ‘posizionamento’.

Tim Ingold

Tim Ingold

In definitiva, ciò che intendo dire è che persino un ‘pensiero relazionale’ come quello avanzato da Ingold, che mette l’accento sul sistema e sulle connessioni, non può che ricorrere ad alcune categorie necessariamente discretizzate. Da parte mia, più che di tre in uno, io parlerei di quattro in uno, visto che includerei nel tutt’uno anche gli oggetti (oltre il corpo, la mente e la cultura). Come chiunque altro, io sono infatti in relazione talmente stretta con gli oggetti – credo sia impossibile, nella vita pratica e per la stessa definizione di (de-)soggettivazione, farne a meno – che la mia tentazione teorica sarebbe proprio quella di comprenderli anch’essi nel tutt’uno di cui parla Ingold. Perché no? Ovviamente, non si tratta qui di decostruire Ingold, ma di mettere l’accento sul ‘pensiero’, sulle sue declinazioni, persino aggettivate, e di valutarne comparativamente vantaggi e svantaggi in teorie (come, per esempio, qui quelle di Geertz e Ingold) e in culture diverse. Il tentativo di Ingold mi pare dunque interessante, ma penso pure che una discretizzazione più urgente da ricomporre in tratti più continui sia quella che distingue nettamente soggetti e oggetti o affetti e pensieri.

In questa direzione, sarebbe utile una riflessione sul modo in cui flussi e processi, affetti e percetti, si traducono in forme di testualizzazione specifiche, nell’emergere stesso del loro darsi. In che modo, per esempio, la scrittura fissa le forme emergenti del pensiero-affetto-azione? Si possono, per esempio, scrivere «scene di vita ordinaria in cui una forma di sentire, pensare o percepire è emergente» al fine di saggiarne le intensità e traiettorie che possono essere descritte in questi termini (Stewart 2012: 518). Non si deve necessariamente privilegiare il quotidiano. Taussig, per esempio, misura gli effetti del colonialismo in Colombia attraverso una ipotetica visita a un museo che ripercorre parte della storia e antropologia del Paese in un montaggio visivo e narrativo che ha quasi il sapore di un film (Taussig 2005). A proposito di montaggio: non necessariamente si deve privilegiare il campo. Le conferenze teoriche raccolte da Crapanzano nel suo volume, Orizzonti dell’immaginario, sono state lette e scritte sotto l’egida del montaggio con un fine particolare: «restare sospeso tra le diverse posizioni e godere dell’inquietudine che tale sospensione produce dentro di sé e nei suoi interlocutori reali e immaginari» (Crapanzano 2007: 24).

7In tutti questi casi, poco importa che si prenda di mira il quotidiano, un campo più esotico o la propria posizione teorica, credo però che si mostri, con un espediente o l’altro, il movimentarsi tensivo o emergente del pensiero stesso. Per quanto mi riguarda, in questo breve saggio io ho preferito prendere in conto, intenzionalmente, un aspetto in apparenza infimo del quotidiano per mostrare tutta la sua importante valenza etnopragmatica: l’azione-pensiero di spolverare. Se dovessi sintetizzare in breve a cosa punto in particolare direi: al passaggio dalla riflessione sul pensiero indistinto (e svincolato dai contesti d’uso) al pensare nella sua forma più vicina al flusso continuo in situazione. Per fare questo, sono consapevole che è inevitabile tenere conto delle forme di testualizzazione e dei generi di scrittura che rendono la fluidità o l’emergenza del pensare: un’origine pura del pensare è infatti, a mio parere, inattingibile e irrealizzabile in sé perché necessita sempre del veicolo che lo significa secondo una convenzione o l’altra. Un punto secondo me correlato da prendere in conto è, inoltre, la stretta associazione tra ‘atti cognitivi’ e ‘atti emotivi’, tra pensieri ed emozioni: gli uni non dovrebbero essere studiati separatamente dagli altri perché si (ri)significano reciprocamente. L’ultimo punto riguarda l’attenzione che si dovrebbe dedicare al pensare in relazione all’azione: tutt’e due entità sono flussi in movimento la cui connessione è tutta da scoprire, soprattutto nel quotidiano. Io ho deciso di prendere qui come esempio l’azione di spolverare proprio perché è molto semplice e dotata di una sua fissità: nonostante tutto, però, queste poche pagine sono solo un esempio di un futuro, più lungo, approfondimento della questione da me sollevata. In questo specifico esercizio, dunque, la fissità dell’azione la si può ritrovare nel gesto generalizzato di spolverare, ma altre azioni – ne sono certo, senza tema di smentita – sono più ‘nobili’ e sono d’un ordine già ampiamente riconosciuto socio-culturalmente: per esempio, camminare, parlare, risiedere, cucinare. Non a caso parlo di questi quattro sintagmi. Sono gli stessi menzionati da De Certeau nel suo celebre volume sull’invenzione del quotidiano (De Certeau 2001). Il fatto interessante è che, benché effettivamente molto originale, nel suo testo De Certeau non fa esplicitamente questa associazione tra pensiero e azione, ma ‘ripiega’ sulla pur utile opposizione langue-parole di derivazione saussuriana.

Comunque sia, non sempre si può essere certi che un pensiero sparuto possa fare parte adeguatamente della storia dell’antropologia; si può comunque tentare, per quanto difficile, di seguirne l’evoluzione e la sua possibile cristallizzazione: «C’è un momento in cui un pensiero personale, dopo essere comparso, svanisce, oppure si va a collocare entro una data cornice di nessi consueti, per poi sussistere come parte di quel clima particolare che cattura e trattiene i pensieri futuri. Tale è il processo di funzionamento della cultura» (Douglas 1999: 7). Trovo che, in queste formulazioni di Douglas, sia concentrato un bel programma di ricerca antropologica che, forse, nemmeno lei stessa abbia mai portato a termine veramente, per quanto la sua produzione scritta sia stata abbondante e brillante (cfr. però il suggestivo Douglas 2007).

Si rifletta bene, parafrasando e riassumendo un po’, sulla difficoltà del compito: un pensiero personale compare, s’inserisce prima in una cornice di nessi consueti e, poi, in un clima particolare la cui valenza riguarda pure il futuro. Il problema si pone già con il primo enunciato: un pensiero personale compare. Come compare un pensiero personale? Da dove arriva e dove va? Può, inoltre, veramente dirsi personale un pensiero oppure esso è il frutto, in qualche modo, della comunità di appartenenza all’interno della quale si è generato? Dire come compare un pensiero personale significa inserirlo – mi pare – in un rapporto preciso di causa ed effetto di tipo logico che, per lo più, persino a un’attenta analisi, normalmente sfugge. Che fare a riguardo? Le mie proposte in questo saggio, atte a eludere il problema, sono affini e parallele a quella di Lotman, secondo cui «la stessa natura dell’atto intellettuale può essere descritta nei termini di una traduzione» (Lotman 1993: 16). Questo vuol dire che, se non si può sapere dove si generano i pensieri (l’origine) e il modo esatto in cui compaiono (la consapevolezza), si può comunque prospettare un legame associativo secondo cui un pensiero è la traduzione di un altro: si risale così da un pensiero all’altro come se uno fosse la traduzione dell’altro. Tradurli consente di rincorrerli attraverso la strategia del ‘come se’.

Proprio come faccio ora, in questo momento, con la pezzuola in mano: spolvero per affermare la potenza del dialogo e sentirmi meno solo; spolvero per dare spazio ai miei flussi di pensiero e aspettare da essi suggerimenti; spolvero per dare un ritmo al mio vissuto; spolvero per ricordare a me stesso che posso trasformare il disordine del mondo in ordine e controllarlo in qualche modo. Oggi, rincorro i pensieri come al solito, nonostante vi sia una novità: pulisco la mensola con una pezzuola spingendo in un angolo la polvere residua. Per quale ragione? Perché così sostituisco l’effetto che otterrei con i tovaglioli. Per lo più, infatti, utilizzo i tovaglioli di carta perché mi consentono di guardare subito lo sporco raccolto e avere, in ritorno, piena soddisfazione del mio operato. Strumenti e azioni sono infatti, per quanto strano possa sembrare, funzionali a una narrazione di vita e a una sua schematizzazione. Pulire le mensole e spolverare i libri, in apparenza azioni triviali, non sono fini a se stesse o volte a ottenere unicamente lo scopo per cui sono create, ma si configurano nei termini in cui la vita viene concepita. Io, per esempio, se faccio qualcosa, devo averne una gratificazione e riceverne una sorta di ricompensa: guardare lo sporco raccolto è una sanzione positiva del mio operato, della mia efficienza. E questo perché azione e sanzione (personale e sociale) sono strettamente correlate. Si fa qualcosa per sentirsi dire: quanto sei bravo! Oggi, comunque, se spolvero, lo faccio per un’altra ragione ancora: tra qualche giorno andrò a Mazara del Vallo per una tavola rotonda e ho bisogno di recuperare i miei libri su terrorismo, guerra e violenza. Il fatto è che, più che leggerli e sfogliarli, proprio come faccio solitamente quando mi metto a spolverare e pulire, oggi sono più attratto dalle immagini delle copertine che dal resto. E devo ammettere che, quando ho parlato di punctum, mi sono sbarazzato troppo presto di Barthes dicendo che io, più che al legame sguardo-immagine, ero interessato soprattutto al situarsi del pensiero personale nel viluppo delle azioni. Ho parlato troppo presto, ma il groviglio dello spolverare e pulire mi ha fatto ricredere: ho fatto un passo indietro rispetto a un pensiero ingenuo, svincolato dall’azione quotidiana.

Flussi scomposti di pensiero (foto Montes)

Flussi scomposti di pensiero (foto Montes)

In realtà, il legame tra il pensiero e l’immagine è inevitabile, se non altro perché ‘si è spinti a pensare’ per immagini, essendo situati continuamente tra le immagini. E, mentre il mio pensiero si ritrae, prende corpo nella mia mente quella foto che ho scattato qualche anno fa, nel tragitto che collegava la navetta dal centro di Londra all’aeroporto, dopo una notte passata ad aspettare, per i ritardi dovuti alle manifestazioni di gruppi di londinesi in rivolta. Per quale motivo manifestavano? Non ne serbo ricordo alcuno. Stranamente. Ciò che ancora è rimasto, nel tempo, nei miei ricordi, è il senso di sintesi che quella immagine scattata nella navetta buia dava dei miei pensieri, in quel momento, mezzo addormentato, infreddolito, con il corpo scosso dai sussulti della navetta. La domanda che mi pongo adesso, forse ingenuamente, è come può un’immagine sintetizzare i pensieri di un individuo in un dato momento? Quali caratteristiche deve possedere? Per questo, per tentare di trovare una risposta, forse è meglio rinviare al prossimo numero di Dialoghi Mediterranei. Nella speranza che i nugoli di polvere e le brezze continuino a mantenere il loro ritmo musicale e a destare i miei pensieri assopiti.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
Bachtin M., Estetica e romanzo, trad. it. Einaudi, Torino, 1979 (1975)
Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. Einaudi, Torino, 1980 (1980)
Clifford J., Strade, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1999 (1997)
Crapanzano V., Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, trad. it. Meltemi, Roma, 1995 (1980)
Crapanzano V., Orizzonti dell’immaginario, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2007 (2004)
De Certeau M., L’invenzione del quotidiano, trad. it. Edizioni Lavoro, Roma, 2001 (1990)
Dwyer K., Moroccan Dialogues, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1982
Dwyer K., Beyond Casablanca, The American University in Cairo Press, Cairo, 2004
Douglas M., Questioni di gusto. Stili di pensiero tra volgarità e raffinatezza, trad. it. Il Mulino, 1999 (1996)
Douglas M., Thinking in circles, Yale University Press, New Haven, Londra, 2007
Geertz C., “Il modo in cui oggi pensiamo: verso una etnografia del pensiero moderno”, in Antropologia interpretativa, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1988 (1983): 187-208
Geertz C., Antropologia e filosofia, trad. it. Il Mulino, Bologna, 2001 (2000)
Ingold T., “Tre in uno: come eliminare le distinzioni tra corpo, mente e cultura”, in Ecologia della cultura, Meltemi, Roma, 2001 (2000): 49-79
Lotman J. M., La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli, Milano, 1993 (1993)
Okely J., “Anthropology and autobiography: participatory experience and embodied knowledge”, in J. Okely and H. Callaway, a cura di, Anthropology and Autobiography, ASA Monographs 29, Routledge, London and New York, 1992: 1-28
Said E. W., Beginnings. Intention and Method, Columbia University Press, New York, 1975
Stewart K., “Precarity’s forms”, Cultural Anthropology, vol. 27, issue 3, 2012: 518-525
Taussig M., Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca, trad. it. Bruno Mondadori, Milano, 2005 (2004)
 __________________________________________________________________________
Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.

______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>