La definizione costituzionale
La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, ha introdotto previsioni di tenore altamente garantista in materia di libertà religiosa:
- il principio di non discriminazione su base religiosa (art. 3);
- l’indipendenza e la sovranità, ciascuno nel proprio ordine, dello Stato e della Chiesa cattolica, con la regolamentazione dei reciproci rapporti tramite i Patti Lateranensi (art. 7);
- l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose di fronte alla legge e il loro diritto di organizzarsi secondo i propri statuti e di regolare i rapporti con lo Stato con apposite Intese (art. 8);
- la libertà di professare il proprio credo, sia individualmente che collettivamente, di promuoverne la diffusione e di celebrarne il culto in pubblico o in privato, a meno che i riti non siano contrari al buon costume (articolo 19);
- la libertà di riunione (art.17);
- la libertà di associazione (art.18);
- la proibizione di ogni forma di discriminazione o l’imposizione di speciali oneri fiscali nei confronti di associazioni o istituzioni ecclesiastiche e religiose (art. 20).
A sua volta, la Corte Costituzionale ha considerato che la libertà di coscienza costituisce il fondamento dei diritti dell’individuo. I valori di libertà religiosa e il sistema di relazioni con le confessioni religiose (artt. 7 e 8, 3 comma) concorrono a strutturare il principio di laicità dello Stato, che non significa indifferenza dinanzi alla religione bensì imparzialità a salvaguardia del pluralismo confessionale.
Sugli istituti giuridici cui ricorrere per attuare in concreto la libertà religiosa inizialmente non ci fu unanimità tra cattolici protestanti.[1]Il disegno costituzionale in materia religiosa, di vedute radicalmente più ampie rispetto al ventennio fascista e anche al precedente periodo liberale, è frutto di una mediazione tra i cattolici e le altre correnti di pensiero (liberale e socialcomunista). I cattolici erano interessati a salvaguardare, anche nel contesto repubblicano, gli accordi raggiunti con i Patti lateranensi. Tale impostazione venne sostenuta anche dal Partito comunista italiano, e, in particolare, dal realismo del suo segretario Palmiro Togliatti. Gli evangelici, la cui presenza era stata cospicua nelle fila della Resistenza, propugnavano un’impostazione la più ampia possibile, da intendere non solo come pratica individuale e uniforme per tutti i culti anche come facoltà di diffondere la loro fede, prima ostacolata per esigenze di ordine pubblico.
L’articolo 7 venne incontro alle richieste dei cattolici, l’art. 8 prese in considerazione quelle dei protestanti con la previsione innovativa di un’Intesa tra lo Stato e le singole confessioni, considerato un istituto giuridico analogo al Concordato e quindi atto a stabilire un equilibrio di trattamento. Non era questa la soluzione auspicata dalle confessioni non cattoliche, che però a posteriori mostrarono un generale apprezzamento delle Intese.
Le chiusure del primo dopoguerra: inerzia legislativa e rigidità amministrativa
Nell’immediato dopoguerra, fino al Concilio Vaticano II, in ambito cattolico continuò a prevalere una visione confessionale dello Stato imperniata sul cattolicesimo, e anche gli orientamenti governativi si rifacevano a tal impostazione.[2] Per circa un decennio alle nuove previsioni sul libero esercizio dei culti non cattolici si diede scarsa attuazione e continuò a trovare applicazione il Testo unico di pubblica sicurezza del 1930 con le sue limitazioni alla propaganda religiosa, seppure contrarie all’articolo 17 della Costituzione.
La circolare del periodo fascista contro i pentecostali (diramata nel mese di maggio 1936) venne ribadita nel 1944, quindi prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Successivamente, una circolare del Ministero dell’Interno del 1951 chiese ai prefetti di vigilare sui pentecostali, rilevandone anche la loro vicinanza ai comunisti. In una successiva circolare del 1953 gli aderenti alla confessione pentecostale vennero qualificati dal Ministro dell’Interno Scelba come «nocivi alla salute fisica e psichica». L’eccessivo rigore applicato nei confronti dei protestanti non riguardava affatto la Chiesa cattolica, i cui rapporti con lo Stato erano regolati dai Patti lateranensi. Ad alimentare le preoccupazioni della Chiesa cattolica era il proselitismo dei protestanti e la loro eventuale vicinanza ai comunisti. Queste preoccupazioni, nel mese di febbraio del 1954, vennero espresse anche nella prima lettera pastorale dei vescovi italiani.[3] Il Ministero dell’Interno, a ciò sollecitato anche dalla Segreteria di Stato Vaticana, applicò dunque di nuovo le disposizioni adottate nel periodo fascista (in particolare nel caso dei pentecostali).
Ancora in quegli anni la presenza dei protestanti continuava a essere tutt’altro che cospicua e, nel marzo 1954, un’indagine della Direzione Generale degli Affari di Culto registrò circa 121 mila persone appartenenti a quell’area religiosa, raggruppate in 48 diverse denominazioni. Anche la temuta vicinanza dei cristiani evangelici ai comunisti si rilevò di scarsa consistenza, come ebbe modo di accertare una delegazione internazionale del Consiglio ecumenico delle chiese, venuta appositamente a Roma nel mese di febbraio del 1955. Il Consiglio federale delle Chiese evangeliche, il 17 gennaio 1955, inviò un memorandum a tutti i componenti del Governo e a diversi parlamentari, per stigmatizzare l’inerzia del Ministero dell’Interno nell’applicare l’impostazione innovativa della Costituzione e nell’avviare le procedure per la stipula delle Intese. Aumentarono molto i casi di intolleranza religiosa nei confronti dei protestanti, peraltro ben conosciuti dalla polizia (talvolta anche incoraggiati). Il Ministro dell’Interno non tenne conto di queste sollecitazioni e continuò ad applicare la legge n. 1159/ 929, per giunta interpretata in senso restrittivo.
Dal 1955 questo livello della tensione andò scemando. Ne fu un segno, in quello stesso anno, la visita ufficiale del Presidente del Consiglio, dei ministri Scelba e Martino, ministro degli affari esteri, negli Stati Uniti, la cui amministrazione era molto attenta al trattamento dei protestanti in Italia. L’attuazione delle Intese venne chiesta anche dai partiti laici, tanto da quelli che facevano parte del governo, quanto da quelli che stavano all’opposizione, con interrogazioni e ordini del giorno, al fine di garantire un maggior rispetto dei principi costituzionali sulla libertà religiosa.
Nel 1956 fu presentata la prima proposta di legge su questo tema dal repubblicano Ugo La Malfa insieme ad alcuni parlamentari socialisti e in collaborazione con il Consiglio federale delle chiese evangeliche. Questa proposta, che prevedeva, tra l’altro, l’abrogazione della legge del 1929 e definiva le procedure per la stipula delle Intese, non ebbe alcun seguito in Parlamento. Il mondo cattolico del tempo non si mostrò affatto sensibile alle esigenze di quelli che poi sarebbero stati chiamati i “fratelli protestanti”. Il cambiamento radicale, che portò a insistere sulla libertà di coscienza a beneficio di tutti, da cui non poteva non conseguire l’apertura al pluralismo religioso, si registrò sotto l’impulso di papi straordinari quali furono Giovanni XXII e Paolo VI e i documenti lungimiranti approvati dal Concilio Vaticano II [4].
Di fronte all’inerzia legislativa e alla prassi amministrativa indebitamente restrittiva, un grande ruolo di sostegno alle comunità non cattoliche venne esercitato, invece, dalla la Corte costituzionale (la cui attività iniziò nel 1956), che con le sue sentenze ridimensionò ampiamente la legislazione restrittiva degli anni ’30 per garantire un uguale trattamento a tutte le confessioni e dichiarò l’illegittimità di diverse norme del periodo fascista: la sentenza n.1 del 1956 della Corte (la prima emessa dalla Corte) dichiarò infatti illegittime alcune norme del Testo unico di pubblica sicurezza del 1931 concernenti le affissioni di manifesti e la diffusione di stampati (aspetti importanti, seppure indirettamente, per l’operatività delle confessioni minoritarie) e, soprattutto, la Corte respinse la tesi secondo cui avrebbe potuto pronunciarsi solo sulle leggi entrate in vigore dopo la Costituzione.
La fase riformatrice degli anni ’80: il nuovo Concordato e le Intese
Si è già accennato che il mondo cattolico, che influenzava in maniera determinante la vita politica e le scelte legislative, conobbe un radicale cambiamento solo a partire dal pontificato di Giovanni XXII. Questo papa, nonostante la brevità del suo incarico, rappresentò un vero e proprio punto di svolta. La sua enciclica Pacem in terris (1963) sottolineò che ogni essere umano ha diritto alla «libertà nella ricerca del vero». L’impronta giovannea fu rinforzata dal Concilio Vaticano II (1962-1965) che rivalutò, approfondendoli, gli aspetti della tradizione cristiana sui quali in precedenza poco si era insistito. La dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae (7 dicembre 1965), affermò solennemente la libertà religiosa che, in quanto diritto naturale di ogni uomo, «si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana» e «deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società» (n. 2). Altri importanti documenti del Concilio furono il decreto Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo e la dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni con le religioni non cristiane. Chiuso il Concilio, papa Paolo VI portò a termine con grande apertura e saggezza, dopo la morte del “papa buono”, tale linea proseguita dai successivi pontifici.
Con il travaglio proprio dei grandi cambiamenti epocali e la permanenza in diversi uomini e settori della Chiesa di uno sguardo non più rivolto soltanto al passato, andò maturando una sensibilità più aperta al rispetto della libertà religiosa. Si dischiusero così nuovi orizzonti che permisero di pervenire alla revisione del Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica e di intraprendere la stipula di Intese con le altre confessioni religiose. Il 1984 fu l’anno di svolta che conobbe il conseguimento di entrambi gli obiettivi. Il nuovo Concordato venne sottoscritto a Villa Madama il 18 febbraio 1984. L’impronta del nuovo testo era ben diverso dallo spirito degli anni ’30 (e anche dell’immediato dopoguerra) e consentì di superare la considerazione del cattolicesimo come religione dello Stato; inoltre, nel nuovo Concordato non venne ribadito il “carattere sacro” della città di Roma, solo menzionato il “particolare significato” (art.24).
Nello stesso anno periodo si diede l’avvio alla stagione delle Intese con le altre confessioni religiose, la prima delle quali fu sottoscritta con la Chiesa valdese il 21 febbraio 1986. Come antecedente a questo sbocco positivo va ricordato che nel 1976 l’Unione delle Chiese valdesi e metodiste chiese, ancora una volta, al Governo di aprire le trattative per la stipula di un’Intesa, e in questa occasione il presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti rispose positivamente, incaricando formalmente della questione la stessa Commissione che conduceva le trattative con la Santa Sede per la revisione concordataria. Così facendo, la Presidenza del Consiglio rivendicò a sé tale materia, prima trattata dal Ministero dell’Interno: questo aspetto procedurale venne, quindi, formalmente confermato dalle norme successivamente approvate sulla riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri (legge 23 agosto 1988 n. 400 e decreto legislativo 30 luglio 1999 n. 303).
Un panorama giuridico differenziato per le realtà con finalità religiose[5]
Nella Costituzione la libertà religiosa è stata sancita in maniera generalizzata ed egualitaria per tutti i culti e tutte le fedi. Dalle norme di attuazione di questo principio e dai riferimenti non aboliti a leggi del periodo fascista sono derivati tre diversi livelli di tutela degli enti di culto. Il primo livello riguarda la Chiesa cattolica la quale, anche se non è più religione di Stato nell’attuale regime di separazione tra ambito statale e ambito ecclesiale, ha continuato a essere regolata nei suoi rapporti dal Concordato del 1929, prima della sua sostituzione con quello del 1984. Anche prima dell’approvazione del nuovo Concordato, la sua attività non è stata soggetta alle norme del 1929 e 1930 approvate per i “culti ammessi”. Il secondo livello è costituito dalle confessioni religiose, diverse da quella cattolica, che hanno sottoscritto una Intesa con lo Sato italiano (il corrispettivo del Concordato), in applicazione di una previsione innovativa della Costituzione. La sottoscrizione di un’Intesa sottrae queste confessioni dall’ambito di applicazione della legge n.1159 del 1929 e del relativo regolamento n. 289 del 1930. Il terzo livello è costituito dalle confessioni religiose che hanno ottenuto il riconoscimento giuridico dello Stato come ente morale, ma non hanno firmato un’Intesa, per cui godono di alcuni benefici ma sono anche soggette ai limiti (controlli, autorizzazioni) disposti dalle norme del 1929 e del 1930.
Da una parte non tutte le confessioni si sono mostrate motivate a sottoscrivere un’Intesa con lo Stato, preferendo fare unico riferimento ai propri valori religiosi. È stato il caso delle Chiese Cristiane Evangeliche dei Fratelli, quando furono invitate a pronunciarsi sul disegno di legge Prodi del 1998.[6] D’altra parte, diverse confessioni, seppure interessate, non hanno potuto ottenere un’Intesa (i testimoni di Geova, dopo aver firmato con il Governo un testo, non ottennero la ratifica dal Parlamento). A rigore si dovrebbe parlare anche di un quarto livello, costituito dalle associazioni che perseguono fini religiosi, ma non sono interessate al riconoscimento da parte dello Stato come enti morali (oppure, pur avendolo, non hanno avuto una risposta positiva alla loro richiesta). In tal caso le disposizioni sulla loro operatività ricadono interamente nella normativa generale riguardante le associazioni di fatto o su quelle generale (a esempio come Associazioni senza finalità di lucro). I livelli presi in considerazione sono soggetti a normative differenziate e ciò viene ritenuto scarsamente conforme all’attuazione del principio costituzionale della libertà religiosa su un piano generalizzato ed egualitario.
Il Concordato con la Chiesa cattolica
I Patti Lateranensi (così denominati perché firmati nel Palazzo del Laterano a Roma) furono sottoscritti l’11 febbraio 1929 tra il Regno d’Italia, rappresentato dal capo del Governo, cav. Benito Mussolini, e la Santa Sede, rappresentata dal Segretario di Stato card. Pietro Gasparri. Pervenendo così al mutuo riconoscimento, si ristabilirono le relazioni interrotte nel 1870 dopo l’annessione al Regno d’Italia dello Stato Pontificio. In quell’anno papa Pio IX con la curia si ritirò nei Palazzi Vaticani, indisponibile a raggiungere un accordo col Regno d’Italia. Il Governo italiano, nel 1871, approvò unilateralmente la “legge delle guarentigie”, per garantire la disponibilità di un fondo per il sostentamento del papa e della sua curia (fondo non incassato dai destinatari e depositato in un conto dedicato). I Patti Lateranensi furono ratificati dopo un vivace dibattito parlamentare (ad esempio, il senatore Benedetto Croce votò contro) ed entrarono in vigore il 7 giugno 1929, dando così vita allo Stato della Città del Vaticano, rappresentato dal papa.
Papa Pio XI, in una udienza del 1929, concessa ai docenti e agli studenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore, definì Mussolini «un uomo [...] che la Provvidenza ci ha fatto incontrare», ma la sua soddisfazione era destinata a trasformatasi in una profonda delusione nei confronti del regime fascista, deciso a sopprimere tutte le associazioni che non facevano riferimento al fascismo (dopo burrascose trattative non fu soppressa solo l’Azione Cattolica, limitandone l’attività ai soli fini religiosi).
I Patti includono tre distinti documenti: 1) il riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano comportava l’esenzione dai dazi sulle importazioni; 2) la “Convenzione finanziaria” con la previsione della erogazione di una somma a compensazione dei beni confiscati alla Chiesa cattolica; 3) la stipula del Concordato per definire le relazioni tra la Chiesa italiana e il Governo italiano, sia in ambito civile che religioso. A seguito dei Trattati Lateranensi vennero modificate le leggi italiane direttamente o indirettamente contrarie alle prerogative del cattolicesimo e quelle sul matrimonio e sul divorzio vennero rese conformi a quelle della Chiesa cattolica. Inoltre, il clero venne esentato dal servizio militare. Di tutta importanza fu la dichiarazione del cattolicesimo come religione di Stato, con l’introduzione nelle scuole pubbliche dell’insegnamento della religione cattolica (peraltro già in atto dal 1923).
Come prima ricordato, i Patti Lateranensi, grazie all’atteggiamento favorevole del Partito Comunista Italiano, furono inseriti nella Costituzione repubblicana ma, ciò facendo, non si intese conferire valore costituzionale ai suoi contenuti ma solo collocarli su un piano superiore alle leggi ordinarie, con la necessità – ai fini di una loro modifica – di un accordo bilaterale previo, come è usuale per qualsiasi trattato internazionali [7]. Secondo alcuni studiosi i Patti lateranensi non possono essere oggetto di referendum abrogativo (lo stesso viene sostenuto per il nuovo Concordato del 1984), mentre per altri si tratta solo di un semplice accordo con una confessione religiosa.
Il 18 febbraio 1984 l’on. Bettino Craxi, Presidente del Consiglio dei ministri, e il cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato della Città del Vaticano, firmarono il nuovo Concordato. Questa firma, resasi necessaria per tenere conto della nuova impostazione della Costituzione repubblicana e del nuovo orientamento del Concilio Vaticano in materia di libertà religiosa, richiese un arduo lavoro preparatorio. Per trattare questa materia, la Santa sede designò come diretto interlocutrice dello Stato italiano la Conferenza episcopale italiana. Il Presidente Craxi affermò in Parlamento che in questo modo si diede «l’avvio a una nuova fase nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, fondandoli su patti di libertà e di cooperazione». L’accordo consta di 14 articoli. Premessa l’indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa cattolica negli ambiti di propria competenza, si passa alle garanzie in ordine alla missione della Chiesa e alla libera organizzazione ecclesiale; si forniscono garanzie circa la missione salvifica, educativa ed evangelica e anche la disponibilità degli edifici: si dettano, poi, disposizioni a riguardo delle festività religiose e delle nuove discipline degli enti ecclesiastici.
Merita di essere ricordato che, nel 1984, il presidente del Consiglio Bettino Craxi non si occupò solo del rinnovo del concordato e della stipula della prima Intesa ma ravvisò anche la necessità di affrontare il problema delle confessioni senza intesa, auspicando una «normativa di diritto comune» per «superare gli ostacoli all’effettivo esercizio della libertà religiosa»: un auspicio rinnovato, dopo di lui, da altri presidenti del Consiglio.
Le Intese con le confessioni religiose non cattoliche
La richiesta di sottoscrivere un’Intesa può essere presentata solo dagli enti religiosi che abbiano già ottenuto il riconoscimento giuridico come ente morale ai sensi della legge n. 1159 del 1929, previa verifica dello statuto dell’ente che rappresenta la confessione religiosa e la verifica della sua compatibilità con l’ordinamento giuridico italiano. Secondo la prassi consolidata (non esistono al riguardo specifiche disposizioni legislative) per la stipula delle Intese la confessione interessata, dopo il riconoscimento giuridico come ente morale, deve presentare l’istanza al Presidente del Consiglio dei ministri. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri viene delegato a condurre le trattative. Il citato Sottosegretario si avvale del supporto della Commissione interministeriale per le Intese con le confessioni religiose, istituita nel 1985 presso la stessa Presidenza del Consiglio dei Ministri. La Commissione, presieduta da un eminente professore universitario, è composta da rappresentanti dei Ministeri interessati (interno, giustizia, tesoro, economia e finanze, difesa, pubblica istruzione e ricerca scientifica, beni e attività culturali e salute). L’Istruttoria preliminare circa la compatibilità della richiesta viene curata sia dal Ministero dell’Interno che dal Consiglio di Stato, chiamato a esprimere un parere circa il carattere confessionale dell’organizzazione richiedente.
A predisporre la bozza dell’Intesa provvede la Commissione per le Intese, insieme alla delegazione della confessione religiosa interessata, seguendo le indicazioni concordate dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Sulla bozza predisposta esprime il proprio parere in via preliminare la Commissione consultiva per la libertà religiosa, operante dal 1997 presso la Presidenza del Consiglio di ministri. La bozza di Intesa, così predisposta, deve quindi essere sottoposta all’esame del Consiglio dei ministri, che autorizza il suo Presidente ad apporre la firma, mentre poi verrà chiesta la firma della confessione religiosa: trova applicazione al riguardo la legge n. 400 del 1988 che disciplina l’organizzazione della Presidenza del Consiglio. Infine, il testo viene trasmesso al Parlamento per la sua approvazione con un’apposita legge, come prescrive l’articolo 8 della Costituzione.
È dibattuta in dottrina la questione se non solo il Governo, ma anche il Parlamento possa presentare una sua proposta di ratifica di una convenzione già sottoscritta dalle parti, peraltro questa ipotesi non si è mai verificata. È anche controverso, in dottrina, se la legge di approvazione di un’Intesa sia un mero atto di recepimento tra due ordinamenti autonomi (Governo e Parlamento). Parte della dottrina sostiene questa tesi, analogamente a quanto affermato per il Concordato con la Chiesa cattolica. Per i sostenitori della tesi contraria, invece, la legge di approvazione dell’Intesa è un atto interno tra lo Stato e un ente intermedio (la confessione religiosa), che è sottoposto alla sua sovranità. La decisione parlamentare sulle Intese è stata qualificata come legge di approvazione già dalla stipula nel 1984, con la Tavola Valdese – Unione delle Chiese valdesi e metodiste.
La legge di approvazione parlamentare non si traduce in un unico articolo di ricezione dell’Intesa, come avviene per gli accordi internazionali, bensì si struttura in una serie di articoli che riproducono sostanzialmente, con poche modifiche formali, il testo dell’Intesa (in ogni modo allegato alla legge). Viene ritenuto pacifico in dottrina che il Parlamento, chiamato a votare articolo per articolo il disegno di legge proposto dal Governo, abbia la facoltà di emendare il testo. Per prassi consolidata, però, l’emendabilità viene ristretta a modifiche di carattere non sostanziale, finalizzate cioè a integrare o chiarire il testo del disegno di legge o a emendarne le parti che non rispecchiano fedelmente l’intesa. Nel 2007, come prima ricordato, con i Testimoni di Geova si verificò il caso della mancata approvazione parlamentare dell’Intesa concordata tra il Governo e questa confessione religiosa.
A partire dal 1984, anno in cui fu firmata la prima Intesa con la Chiesa valdese, risultano complessivamente 10 approvazioni parlamentari di Intese con altrettante confessioni religiose, con un andamento temporale molto discontinuo. Negli anni ’80 sono state sottoscritte solo 4 Intese: nel 1984 con la Tavola valdese, nel 1986 con le Assemblee di Dio in Italia (ADI) e con l’Unione delle Chieste cristiane avventiste del settimo giorno e nel 1987 con l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Negli anni ’90 le convenzioni approvate sono state solo 2: con l’Unione Cristiana evangelica battista in Italia (UCEBI) e con la Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI. Dopo una stasi di ben 21 anni, nel 2007 sono state approvate 5 convenzioni: con la Sacra diocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale, con la Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, con la Chiesa apostolica in Italia, con l’Unione buddhista italiana e con l’Unione induista Italiana. In quello stesso anno non ha ricevutol’appovazione parlamentare l’Intesa concordata con i Testimoni di Geova. Infine una lunga stasi nel 2015 è stata approvata l’Intesa con l’istituto buddhista italiano Soka Gakkai (UBISG) [8].
Un’Intesa, una volta approvata dal Parlamento ed entrata in vigore, assicura alla confessione firmataria un regime indipendente dalla normativa del 1929-1930, cui sono soggette le confessioni che, seppure riconosciute giuridicamente dallo Stato, non sono firmatarie di un’Intesa, come anche gli enti con finalità religiosa che ancora non hanno ottenuto il riconoscimento. Le Intese affrontano gli aspetti che sono stati ritenuti funzionali per disciplinare i rapporti della singola confessione religiosa con lo Stato. Si articolano in un preambolo, con cui la confessione interessata manifesta la sua posizione su questioni ritenute determinanti: su tali punti si riscontra una certa differenza tra le confessioni firmatarie. Le materie trattate in tutte le Intese si possono così schematizzare per tipologia:
- la nomina dei ministri di culto, che avviene autonomamente, con l’unico obbligo di registrarli presso appositi elenchi;
- il riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni celebrati dai propri ministri di culto;
- il trattamento tributario degli enti delle singole confessioni;
- il riconoscimento degli enti di culto e delle festività;
- le forme per l’esercizio dell’assistenza in istituzioni collettive (forze armate, luoghi di cura, istituti di pena, ospedali);
- le previsioni in materia di istruzione (studio del fatto religioso, riconoscimento di diplomi rilasciati da istituti di studi teologici, diritto di istituire scuole di ogni ordine e grado);
- i rapporti finanziari con lo Stato per quanto concerne la ripartizione dell’8 per mille dell’Irpef;
- la deducibilità fiscale delle offerte dei fedeli;
- la tutela e la valorizzazione dei beni afferenti al patrimonio storico e culturale della concessione;
- il trattamento delle salme e la sepoltura;
- l’alimentazione e la macellazione rituale.
Le realtà con finalità religiose riconosciute come enti morali: benefici e limiti
Nei confronti degli enti con finalità religiose, riconosciuti dallo Stato come enti morali, trova applicazione la legge sui “culti ammessi” (n. 1159 del 1929) unitamente al relativo regolamento di attuazione (R.D. 289 del 1930). Il controllo degli enti giuridicamente riconosciuti viene esercitato (anche tramite ispezioni) dal Ministero dell’Interno, che ha anche la competenza in materia di approvazione delle nomine dei ministri di culto, autorizzati a celebrare il matrimonio con effetti civili. La normativa degli anni 1929-1930 attribuisce agli enti riconosciuti questi benefici:
- la nomina di ministri del culto senza che l’ente debba più chiedere l’approvazione del Ministro dell’Interno (di cui alla legge n. 1149/ 1929);
- il libero esercizio del loro ministero di culto, che in determinati casi (come nella celebrazione dei matrimoni) può avere effetti civili;
- il libero esercizio dell’assistenza spirituale prestata dai ministri di culto in luoghi collettivi pubblici (ospedali, carceri, forze armate e di polizia) senza bisogno della preventiva autorizzazione di cui il Regio Decreto n. 289/1930;
- l’equiparazione, ai fini tributari, degli enti aventi fini di religione o di culto, agli enti di istruzione e beneficenza, in analogia con quanto previsto per la Chiesa cattolica dalla legge n. 222 del 1985;
- la tutela degli edifici di culto da requisizioni, occupazioni, espropriazioni o demolizioni e il divieto d’ingresso della forza pubblica salvo urgente necessità;
- l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche nell’ambito delle attività didattiche integrative (con oneri a carico delle confessioni interessate);
- il rispetto delle tradizioni religiose relative al trattamento delle salme e alla sepoltura (compatibilmente con la normativa vigente) e il diritto a disporre di aree cimiteriali.
Tuttavia, l’agibilità riconosciuta è soggetta a restrizioni, che dovrebbero essere superate. Già nel 1956 l’on. Ugo La Malfa, nella sua proposta di una legge per una piena attuazione della libertà religiosa, stigmatizzò l’insorgere di un conflitto con le norme costituzionali «ogni qualvolta le norme del 1929 e del 1930 stabiliscono una restrizione, una forma di controllo preventivo o un impedimento all’esercizio di un qualsiasi diritto attinente alla libertà di religione che non trovino in quelle norme una esplicita conferma». Purtroppo, nonostante le proposte avanzate nel corso di diverse legislature, (anche da parte dei governi Prodi e Berlusconi, sia di centrosinistra che di centrodestra), non si è pervenuti all’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa. Peraltro, i limiti posti all’operatività degli enti con finalità di culto non derivano unicamente dalla normativa del 1929-1930.
È comprensibile che il diritto degli enti con finalità religiose debba poter disporre di spazi adeguati per le pratiche di culto: questa è un’esigenza primaria finalizzata a garantire l’effettivo esercizio del diritto di libertà religiosa. Questo tema è divenuto cruciale a seguito dell’aumento delle comunità religiose degli immigrati e dei loro enti di culto. Questi enti, nel caso che non siano firmatari di un’Intesa, sono esposti a disposizioni di controllo che limitano la loro libertà di culto. Inoltre, in assenza di principi sanciti dal legislatore nazionale, diverse leggi regionali sull’edilizia di culto hanno fortemente limitato le autorizzazioni al cambio di destinazione d’uso di edifici già esistenti e alla costruzione di nuovi edifici. Spesso, per superare i contrasti tra le autorità regionali e gli enti di culto, è stato necessario ricorrere alla Corte costituzionale per una pronuncia di illegittimità sulle leggi regionali restrittive in materia di esercizio della libertà di culto.
Le restrizioni possono determinarsi anche per altri motivi. Ad esempio, alcune regioni (segnatamente la Lombardia: cfr sentenza n. 653/2016 della Corte costituzionale) e alcuni comuni hanno escluso gli edifici di culo, promossi da un ente non firmatario di un’Intesa con lo Stato, dall’erogazione di benefici regionali previsti per altre costruzioni. Secondo la Corte costituzionale in tal modo è stato violato il principio costituzionale della libertà di culto e di organizzazione, che non vale solo per le confessioni firmatarie di un’Intesa. È stato anche sottolineato da diversi autori che il fatto di aver assegnato ai Comuni la facoltà di indire referendum, assoggetti il diritto di libertà religiosa al gradimento dell’opinione pubblica e al livello di tolleranza sociale dei singoli territori. [9] La soluzione generale di questi problemi non può consistere nel continuo ricorso alla Corte costituzionale per ottenere una sentenza di illegittimità sui singoli casi, bensì in una legge organica sull’attuazione piena e definitiva del principio di libertà religiosa in grado di proteggere tutti gli enti con finalità religiose
Le realtà religiose non riconosciute dallo Stato come enti morali e la procedura per il riconoscimento
La collocazione di un ente con finalità religiose all’interno dell’ordinamento giuridico italiano dipende inizialmente dalla volontà dei singoli enti di farsi riconoscere, che si traduce nella presentazione di una specifica richiesta rivola alle autorità governative. Vi sono realtà religiose di fatto (in quanto prive di riconoscimento ufficiale) che, pur operando per conseguire le finalità religiose previste nei loro statuti, o sono in attesa di ottenere il riconoscimento pubblico; oppure non lo hanno richiesto, non essendo ad esso interessate. Di conseguenza questi enti operano nell’ambito del diritto comune e, anche quando hanno una personalità giuridica, non si collocano nell’ambito religioso: ad esempio, possono essere Organizzazioni senza scopo di lucro. Finché perdura tale situazione, queste realtà associative non possono fruire delle opportunità previste solo per gli enti religiosi riconosciuti, segnatamente per quanto riguarda il riconoscimento dei ministri di culto e la celebrazione dei matrimoni religiosi con effetti civili.
Attualmente, a fronte di diverse decine gli enti religiosi che hanno ottenuto il riconoscimento giuridico da parte dello Stato, sono ancora più numerose quelle che non lo hanno. La richiesta per il riconoscimento deve essere presentata al prefetto territorialmente competente, allegando lo statuto dell’ente. Quindi, il Consiglio di Stato esprime un parere di legittimità; in verità questo parere non è più necessario ma continua a essere richiesto dal Ministero per motivi di opportunità (cfr. legge n.127/1997, art. 17, commi 25-27). Le confessioni religiose determinano liberamente gli obiettivi e gli aspetti organizzativi, ma i relativi principi e culti non devono risultare in contrasto con la l’ordinamento italiano. Se l’iter si chiude positivamente, il Consiglio dei ministri si pronuncia in merito all’opportunità politica del riconoscimento dell’ente che ha presentato la richiesta. Il riconoscimento prima avveniva su proposta del Ministro dell’interno con decreto del Presidente della Repubblica, mentre attualmente avviene con decreto del Ministro dell’interno. Al riguardo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 43/ 1988, ha precisato che la capacità delle confessioni religiose di dotarsi di propri statuti comporta che lo Stato rispetti la loro autonomia istituzionale, evitando ogni ingerenza e astenendosi dal fissarne direttamente per legge i contenuti.
La prima proposta di legge a carattere generale sulla libertà religiosa (1956)
L’on. Ugo La Malfa, all’epoca membro del gruppo misto e poi diventato segretario del Partito repubblicano italiano, fu il primo firmatario di una proposta di legge sulla libertà religiosa. Egli presentò la sua proposta, nel 1956, nel corso nella II legislatura della Repubblica [10]. Le confessioni evangeliche presenti in Italia avevano già da vari anni presentato al Governo particolari richieste per pervenire alle Intese previste dal terzo comma dell’articolo 8 della Costituzione.
«Tuttavia (come è scritto nella premessa alla proposta di legge), alle dette Intese non si è potuto ancora dare inizio, mancando precise disposizioni che ne stabiliscano le procedure. È indubbio per quanto si attiene all’esercizio di libertà religiosa, che la Costituzione ha fissato norme precise che stabiliscono in modo preciso modalità e termini entro cui i detti diritti di libertà possono essere esercitati dai singoli individui come dai loro enti o associazioni religiosi; in tal modo le disposizioni a suo tempo stabilite dalla legislazione sui culti ammessi (legge 24 giugno 1929, n. 1159 e regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289), circa il grado di libertà religiosa consentito per dette confessioni religiose, si presentano in aperto contrasto con le norme costituzionali ogni qualvolta stabiliscono una restrizione, una forma di controllo preventivo, o un impedimento all’esercizio di un qualsiasi diritto attinente alla libertà di religione che non trovino in quelle norme una esplicita conferma. L’esercizio dei diritti non potrebbe infatti in modo alcuno essere allargato o ristretto da una legge ordinaria oltre le modalità e i limiti stabiliti dalle norme costituzionali».
Questa proposta di legge si compone di soli tre articoli. L’articolo 1 estende alle confessioni evangeliche i diritti di libertà religiosa previsti dalla Costituzione. L’articolo 2 stabilisce «l’abrogazione di tutte le limitazioni che contrastano con l’ampio grado di libertà sancito dalla Costituzione in modo uguale per tutti, limitazioni che rappresentano il permanere residuo di un clima poliziesco nei confronti delle minoranze religiose, sconosciuto in Italia prima del periodo fascista, per il cui mantenimento non si possono trovare plausibili giustificazioni nel rinnovato clima democratico dell’Italia repubblicana». L’articolo 3 si occupa delle procedure e prevede che un’apposita Commissione sia costituita con decreto del Mistero dell’Interno che, con il coinvolgimento della confessione interessata, redige un testo impegnativo per le parti, dopo la presentazione al Parlamento da parte del Governo di un apposito disegno di legge. Nel caso che alcune parti dell’Intesa non vengano approvate anche da un solo ramo del Parlamento, tali parti devono essere riviste dalla specifica Commissione con la confessione interessata così da poterle riproporre il testo all’approvazione.
Questo progetto non ebbe alcun altro seguito se non quello di essere assegnato alla Commissione competente. Si vedrà di seguito che un incentivo alla proposizione di ulteriori proposte per l’approvazione di una legge organica sulla libertà religiosa si ebbe solo dopo il 1984, quando si procedette alla revisione del Concordato con la Chiesa cattolica e alla sottoscrizione della prima Intesa con la con la Tavola valdese.
Dalla X alla XVII legislatura (1987-2018) trent’anni di proposte ma nessuna approvazione di una legge a carattere generale
L’analisi delle iniziative legislative portate avanti a partire dalla X legislatura (luglio 1987-aprile 1992) viene qui presentata sulla base dell’accurata ricostruzione fattane dall’Ufficio Studi e Rapporti Istituzionali presso la Presidenza del Consiglio dei ministri [11]. Nel 1988 il Presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, incaricò il prof. Margiotta Broglio (presidente della Commissione preposta all’attuazione dell’accordo tra l’Italia e la Santa Sede), di predisporre il testo di un disegno di legge organica in materia di libertà religiosa. Nel 1990 l’impegno fu assolto dall’incaricato insieme ai professori Cardia e Mirabelli, componenti della stessa Commissione. Il testo, predisposto venne preso in considerazione da Giulio Andreotti, nel frattempo diventato il nuovo Presidente del Consiglio dei ministri, che, sempre nel corso della X legislatura, avviò le procedure per la sua approvazione. L’iter rimase subito bloccato presso la Ragioneria generale dello Stato, che ravvisò la mancanza di copertura finanziaria relativamente ai 2 milioni di lire ritenuti necessari per far fonte alle previste agevolazioni fiscali in materia di Irpef a favore delle diverse confessioni religiose [12].
Nel frattempo venne istituita la Commissione consultiva per la libertà religiosa con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 14 marzo 1997 (da ultimo prorogata nella sua validità con Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il 4 maggio 2016). La Commissione ha un ruolo di informazione e proposta per tutte le questioni attinenti all’attuazione dei princìpi della Costituzione e delle leggi in materia di libertà di coscienza, di religione o credenza, ricognizione dei problemi (preliminari alla stipula o operativi) e formulazione di pareri sulle bozze di Intesa).
Nel corso della XIII legislatura (maggio 1996-maggio 2001), la nuova Commissione (questi i membri: Margiotta Broglio, Cardia, Long, Pastori, Pizzetti, Sacerdoti) perfezionò il precedente disegno di legge sulla libertà religiosa e il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, previa l’approvazione del Consiglio dei ministri, la presentò alla Camera dei deputati nel 1998. Seguì un’ampia e movimentata discussione presso la Commissione affari costituzionali, stimolata dal relatore del disegno di legge on. Maselli. Non si riuscì, tuttavia, a iniziare la discussione in aula prima della scadenza della Legislatura.
Nel corso della XIV Legislatura (maggio 2001-aprile 2006), dopo che i deputati Spini e Molinari avevano presentato le loro due distinte o proposte di legge basate sul disegno di legge del Governo Prodi, anche il Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi propose il disegno di legge a nome del suo Governo, riprendendo anch’egli, grosso modo, l’impostazione del governo precedente. Al termine di accese sedute presso la Commissione affari costituzionali, la relatrice, on. Patrizia Paoletti Tangheroni, predispose un testo inclusivo degli emendamenti proposti, senza tenere conto dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati. Se ne dedusse la mancanza di una volontà politica per portarne a termine l’iter parlamentare e di fatto il testo non fu nemmeno sottoposto all’esame in aula. La risonanza sui media enfatizzò i diversi punti del dibattito parlamentare. Secondo la Lega Nord il testo concedeva troppe agevolazioni a favore dei musulmani, senza averne ottenuto l’adesione ai princìpi costituzionali fondamentali. Inoltre, per alcuni parlamentari di Alleanza Nazionale e di Forza Italia si rischiava di concedere il riconoscimento statale a una serie di sette di natura quanto meno ambigua. Un emendamento proposto approvato in Commissione prevedeva che, nel caso dell’avvio di trattative per una nuova Intesa, la comunicazione al Parlamento dovesse avvenire prima dell’inizio dell’iter legislativo, così da attuare un coinvolgimento tempestivo dl Parlamento in grado di accelerare i tempi necessari per l’approvazione delle Intese.
I successivi governi, tenuto conto dei contrasti emersi nella XIII e nella XIV legislatura. siastennero dal riproporre un disegno di legge in attuazione del diritto alla libertà religiosa, mentre non mancarono le proposte parlamentari. Nella XV Legislatura (aprile 2006-aprile 2008) la Commissione affari costituzionali della Camera, presieduta dinamicamente da Luciano Violante, predispose un documento sulla base delle proposte di legge presentate dagli onorevoli Spini e Boato, che fondamentalmente riprendevano i testi governativi presentati in precedenza (dal Governo Prodi e dal Governo Berlusconi). Furono di nuovo vivaci le discussioni intervenute in seno alla Commissione affari costituzionali, ma non fu possibile portare il testo in aula per una sua discussione. Per rendersi conto delle difficoltà, da tempo espresse e riproposte in occasione delle successive iniziative, si riporta la presa di posizione dell’on. Fabio Gargani (PDL) espressa nel 2007:
«Ritengo che questa legge nella migliore delle ipotesi sia inutile, nella peggiore sia devastante rispetto ad una situazione politico-sociale particolarmente delicata. […] La legge in questione è vista da settori crescenti, anche se minoritari, dell’opinione pubblica come una sorta di rivendicazione delle altre confessioni religiose nei confronti dell’identità culturale cristiana del nostro Paese. […] In sostanza, rischiamo che la maggioranza degli italiani, che si riconosce nella tradizione culturale, spirituale e religiosa giudaico-cristiana, diventi minoranza» […].
L‘allora segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) definì per la prima volta il matrimonio secondo il rito cattolico “matrimonio religioso con effetti civili” (anziché un matrimonio civile celebrato in forma speciale), aggiungendo: «Penso a quelle confessioni che prevedono un matrimonio di carattere poligamico. Come poter attribuire tout court un riconoscimento con effetti civili al loro matrimonio?»[13]. Il ministro Paolo Ferrero, intervistato da un giornalista de La Repubblica, disse che, al fine di evitare ulteriori polemiche, era auspicabile scrivere esplicitamente che la poligamia era vietata. La riflessione sulla libertà religiosa ancor peggio andò al Senato, dove i due disegni di lege (Malan e Negri) durante la XV legislatura non furono discussi neppure in Commissione.
Nella XVI Legislatura (aprile 2008-marzo 2013) a presentare proposte furono i parlamentari Zaccaria e Miglioli alla Camera e Malan e Negri al Senato. Nella successiva (marzo 2013- marzo 2018) furono presentati diversi disegni di legge da parte di parlamentari di questi diversi partiti: per il PD Ernesto Rossi e Fabio Lavagno, per Art. 1-MDP Ernesto Preziosi e Luigi Lacquanti, per la Lega Nord Raffaele Volpi [14].
Le attese risposte nella XVIII legislatura ridimensionate dagli orientamenti restrittivi
La situazione differenziata di tutela degli enti con finalità religiosa non può essere ritenuta quella più rispondente al livello generalizzato ed egualitario di tutele previsto dalla Costituzione, nonostante la soppressione di una serie di disposizioni degli anni ’30 dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale. Le confessioni religiose, anche quando sono state riconosciute come enti morali, per il fatto di non aver potuto sottoscrivere un’Intesa con lo Stato fruiscono di una tutela meno completa. Questa diversificazione avviene in un contesto che sta diventando sempre più a carattere multietnico, multiculturale e anche multireligioso e bisognoso pertanto di maggiori garanzie per l’esercizio della libertà di culto.
La soluzione dei problemi che si incontrano consiste, secondo una corrente di pensiero molto qualificata, nell’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa, che superi le attuali restrizioni e realizzi pienamente la previsione costituzionale secondo cui «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», senza peraltro misconoscere il ruolo del Concordato e delle Intese. Tra l’altro, i progetti di legge presentati al riguardo, pur con alcune differenze, non mancavano di una tendenziale omogeneità. In essi la prima parte era dedicata alla libertà religiosa individuale e collettiva, la seconda parte alla posizione giuridica delle confessioni religiose e la terza alle procedure per la stipula delle Intese. Eppure, a 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, non si è pervenuti a una sua compiuta realizzazione su questo punto.
Più di recente, nel corso di un convegno, svoltosi al Senato il 6 aprile 2017, Roberto Zaccaria (che da parlamentare fu firmatario a sua volta di una specifica proposta di legge) presentò una proposta, articolata come un disegno di legge. Era il frutto di due anni di impegno di un a gruppo di lavoro costituito presso la Fondazione ASTRID composto da esperti e rappresentanti delle confessioni religiose. Lo scopo fu quello di mettere a disposizione dei parlamentari della imminente XVIII legislatura (iniziata a fine marzo 2018), una piattaforma che teneva conto delle soluzioni ipotizzate nel passato in tema di libertà religiosa e si proponeva di perfezionarle [15]. L’iniziativa suscitò grande interessa in ambito cattolico e presso le altre comunità religiose, ma era destinata a trovare, rispetto al passato, nella XVIII legislatura un’accoglienza meno favorevole e più decisamente ostile. Entriamo così nelle vicende di questi ultimi anni.
Per evidenziare le difficoltà che ancora impediscono l’approvazione di una legge a carattere generale sulla libertà religiosa si possono prende in esame due proposte di legge (rispettivamente, alla Camera e al Senato) presentate da parlamentari di Forza Italia, il partito più moderato dello schieramento di centro destra. Nel corso della XVIII legislatura, presso la Camera dei deputati risulta presentata dall’on. Galeazzo Bignami (passato nel 2019 a Fratelli d’Italia spinto dal desiderio di sentirsi più collocato a destra), insieme ad altri parlamentari, la proposta di legge n. 744 in data 18 giugno 2018, recante “Disposizioni concernenti la promozione della libertà di culto, il contrasto del fondamentalismo religioso e il censimento dei luoghi di culto”. L’iniziativa ha avuto un certo seguito sulla stampa perché è stata organizzata una conferenza stampa a Reggio Emilia del deputato Fiorini, uno dei firmatari della proposta di legge e commissario regionale di Forza Italia in Emilia Romagna. Quanto precisato in tale occasione è d’aiuto per rendersi conto delle preoccupazioni sui contenuti della proposta abbastanza diffuse sulle diversità religiose dei rimedi auspicati [16].
Una legge sulla libertà religiosa è ritenuta necessaria alla luce del crescente multiculturalismo e dell’interreligiosità che impongono di trovare un equilibrio tra il diritto del pieno esercizio della religiosità nei luoghi di culto e il rispetto delle disposizioni in materia urbanistica e di sicurezza (ritenuti non sempre rispettati dalle confessioni acattoliche, in particolare dagli islamici che utilizzano come luoghi di culto locali non idonei e difficilmente controllabili. Secondo l’on. Benedetto Fiorini la religione islamica non è dotata di uno statuto specifico e «quindi la collaborazione con le istituzioni avviene sempre in deroga» e, perdurando tale situazione, «è da considerarsi non rispettosa, e quindi contraria, al dettato costituzionale». Oltre che contro le moschee, mascherate da centri culturali, l’on. Fiorini lamenta degli imam, che predicano in lingua araba senza che si possa capire se le loro affermazioni siano rispettose della cultura e delle leggi italiane, della dignità della donna (eventualmente obbligata a indossare il velo, della volontarietà dei versamenti dei fedeli. Una legge è necessaria perchè sono troppe le anomalie cui si soprassiede.
A parte una certa imprecisione terminologica a livello religioso e giuridico, è indubbio l’intento di delimitare e restringere l’attuale pratica religiosa della comunità islamica, per alcuni aspetti in maniera più rigorosa delle norme del 1929 e del 1930. Sempre all’inizio della XVIII legislatura, il 28 marzo 2018 l’on. Mario Rizzoli con altri senatori di Forza Italia ha presentato il disegno di legge n. 186, recante «Disposizioni in materia di confessioni religiose acattoliche minoritarie e delega al Governo in materia di Statuti»[17]. Le argomentazioni introduttive alla proposta si soffermano sulle motivazioni e sulle finalità delle iniziative e ne illustrano i contenuti, che non riguardano né le confessioni religiose non cattoliche firmatarie di un’Intesa con lo Stato, né le confessioni già riconosciute come enti morali. Invece per le entità religiose di fatto, che ancora non sono state riconosciute, detta una nuova normativa destinata a sostituire la legge n. 1159/1929 tuttora in vigore, sanando determinate situazioni venutesi a creare; definisce la delega al Governo ad adottare, entro tre mesi, un decreto legislativo recante i requisiti generali (principi e criteri) degli statuti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica così che ne derivi la conformità all’ordinamento giuridico. Viene disposto infine che le confessioni religiose acattoliche minoritarie siano organizzate e rette da statuti conformi ai princìpi dell’ordinamento giuridico italiano ed esprimano il carattere religioso delle finalità aggregative. Nell’esercizio delle loro funzioni i ministri del culto, i formatori spirituali e le guide di culto di queste confessioni (tutti cittadini italiani maggiorenni e non condannati a pene detentive con sentenze passate in giudicato) sono tenuti ad esprimersi e comunicare con la lingua ufficiale della Repubblica italiana. Nel caso sussistano dubbi sulla sussistenza dei requisiti di conformità con l’ordinamento italiano, il Ministero dell’Interno può richiedere il parere del Consiglio di Stato (come già avviene attualmente). Il Governo è delegato ad adottare un decreto legislativo che indichi i requisiti generali degli statuti perché possano essere ritenuti conformi, facendo riferimento:
- il divieto di pratiche religiose contrarie al buon costume e di attività che alterino la personalità e assoggettino la volontà dell’individuo;
- l’obbligo di rispettare la salute e la vita dell’individuo in tutte le sue forme e rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione, con particolare riferimento esplicito riconoscimento della dignità dell’uomo e della famiglia (art 29 Costituzione);
- il divieto di svolgimento di funzioni non prettamente collegate all’esercizio del culto;
- il divieto dell’uso di lingue diverse da quella italiana in tutte le attività pubbliche, particolarmente nei sermoni;
- il riconoscimento dell’eguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna (art 29 Costituzione);
- l’obbligo di un abbigliamento che permetta l’identificazione da parte delle forze preposte all’ordine e alla sicurezza.
Il Ministro dell’interno può disporre lo scioglimento delle confessioni religiose acattoliche qualora la loro azione o il loro statuto siano in contrasto con il rispettivo statuto o con la legge dello Stato ovvero per motivi di sicurezza nazionale.
Innanzi tutto non si può fare a meno di osservare che, a differenza di altre proposte finalizzate a generalizzare e assicurare una tutela egualitaria, quella dell’on. Rizzoli appare di segno contrario. Dal punto di vista giuridico non si ritiene sufficiente prevedere l’obbligo di rispettare tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, ma si ritorna a più riprese su alcuni di essi (con implicito riferimento alla confessione islamica). Dal punto di vista operativo non sembra fondato esigere dagli enti non cattolici che presso i loro luoghi di culto non si svolgano anche attività di promozione umana: si pensi, presso le parrocchie, quanto fanno i gruppi Caritas e altri gruppi per la solidarietà social e la promozione culturale. Quanto a esigere l’esclusivo utilizzo dell’italiano, obiettivo che si consegue da sè man mano che si rafforza il processo di integrazione, sussistono delle riserve di ordine culturale e anche giuridico. Non sembra, poi, auspicabile inserire in una normativa specificamente dedicata all’ambito religioso disposizioni riguardanti altri settori come la sicurezza: l’obbligo di conformità con l’ordinamento italiano è inclusivo anche di quell’aspetto (anche tale disposizione sembra dettata da una riserva nei confronti dei musulmani). Sarebbe invece auspicabile un ampio dibattito in Commissione per confrontare le diverse sensibilità politiche tra di loro e con le posizioni espresse dai rappresentanti delle realtà religiose.
Al termine di questa analisi storica del dibattito parlamentare sulla tutela della libertà religiosa risulta che è andato prevalendo negli ultimi tempi un orientamento restrittivo rispetto alle ampie aperture della Costituzione, supportato da interpretazioni politiche riduttive del fatto religioso e da una diffusa faziosità ideologica.
Le motivazioni a favore dell’accettazione del pluralismo religioso
La dimensione multireligiosa riguarda, nel maggior numero dei casi i cittadini stranieri venuti a risiedere in Italia, ma concerne anche un numero non trascurabile di cittadini italiani. L’immigrazione iniziata alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, si è incrementata successivamente. Le presenze erano meno di 150 mila nel 1970 e meno di 1,5 milioni nel 2000 e superarono i 5 milioni a partire dal 2014. Vi sono poi gli stranieri che sono diventati cittadini italiani (circa 1,5 milioni all’inizio del 2020). La presenza straniera si configura come una presenza multireligiosa. Circa la metà è di religione cristiana, con prevalenza della confessione ortodossa. Gli altri immigrati appartengono a diversi gruppi religiosi, tra i quali spiccano le più diffuse religioni del mondo (islam, induismo, buddismo).
Già prima dell’arrivo degli immigrati stranieri era riscontrabile tra gli stessi italiani una dimensione multireligiosa. Sommando cittadini stranieri e cittadini italiani di confessione religiosa diversa da quella cattolica (2 milioni secondo la stima del CSNUR), si può calcolare che si tratti di un decimo dei 60,4 milioni di residenti nella Penisola. La dimensione quantitativa è di per sé un valido motivo per occuparsi dell’esercizio della libertà religiosa in contesto così differenziato. Ancora più forte è la motivazione qualitativa, trattandosi di una scelta di coscienza che, secondo la Costituzione repubblicana e il diritto internazionale, deve essere salvaguardata e tutelata. La convivenza in una società multireligiosa riveste varie implicazioni socio-psicologiche, culturali, giuridiche, specialmente nel caso dei cittadini stranieri, che secondo l’analisi condotta dal sociologo Gorg Simmel rischiano di essere considerati estranei al proprio gruppo. Il buon esito del processo di integrazione presuppone che non venga rifiutata, e tanto meno contrastata, la loro eventuale diversità religiosa Sono persone stabilmente residenti in Italia e destinati ad aumentare notevolmente. Tra gli stessi italiani continuerà e probabilmente aumenterà l’appartenenza a religioni diverse dal cristianesimo. La coesione della società richiede che vengano superati i contrasti ponendo fine alle chiusure pregiudiziali e instaurando un clima di dialogo.
Un altro serio ostacolo che si incontra su questo percorso è rappresentato da una certa interpretazione del secolarismo, per cui in una società post-moderna non ci sarebbe più posto per la fede in Dio o, tutt’a più, la religiosità verrebbe confinata in uno spazio del tutto residuale. Di fronte al rifiorire del sentimento religioso, non solo sotto sue nuove forme ma anche nelle grandi religioni tradizionali, si è parlato della “rivincita di Dio”, smentendo la profezia pronunciata sulla sua morte. In altre parole, con la realtà multireligiosa bisogna fare i conti [18].
Il dibattito sulla secolarizzazione e sui suoi effetti è stato fortemente influenzato da una pubblicazione del 2007 del filosofo cattolico canadese Charles Taylor [19]. A dire il vero Taylor aveva distinto tra una secolarizzazione qualitativa (di cui è indicatore in Occidente la separazione tra Chiesa e Stato) e una secolarizzazione quantitativa, che non necessariamente comportava una riduzione delle persone a loro modo vicine alla religiosità, neppure a quella cristiana (non solo in ambito protestante a anche in ambito cattolico). È vero, però, che la religione, pur professata da molte persone e proponendo il riferimento operativo a un sistema di valori che si pongono al di sopra del mero interesse (individuale o di gruppo), non è più il fattore maggiormente determinante di scelte socio-culturali e politiche. Come qui di seguito viene spiegato, la Costituzione ha indirizzato in tal senso con una impostazione quanto mai illuminata e, seppure con ritardo, si sono fatti dei passi in avanti, ma sono ancora diverse e consistenti le carenze cui porre rimedio.
Il diffuso analfabetismo religioso è la diffusione dei pregiudizi
Un forte ostacolo è rappresentato dalla superficialità che impedisce di affrontare come dovuto aspetti molto impegnativi dell’esperienza umana, tra i quali è inclusa la religiosità. Per rendersene conto si può riflettere sui risultati dell’indagine Santa ignoranza, condotta nel 2013 da Gdf Eurisko su incarico dell’Unione delle Chiese valdesi e metodiste in Italia [20]. Non può che amareggiare la rudimentale conoscenza dei capisaldi del cattolicesimo, religione di riferimento di 9 su 10 intervistati. Una sorta di “religione all’italiana” secondo Franco Garelli In. Questo autore, in una sua indagine a campione registra queste posizioni rispetto alle religioni diverse da quella cattolica (le risposte sono multiple): per il 46,4% degli intervistati costituiscono una minaccia alla propria identità, mentre per il 57,7% sono un arricchimento culturale e per ben il 69%, una causa diretta di conflitti. Si ha paura, specialmente di fronte ai musulmani, che essi arrivino a scompaginare l’equilibrio e provocare eccessive tensioni sul territorio, il che presuppone di confinare la diversità religiosa nella sfera privata [21].
Alla fine del decennio le posizioni nei confronti della diversità religiosa sono diventate anche più drastiche. Nel presente saggio si è partiti dagli orientamenti aperti adottati dai costituenti e tradottisi in articoli della Costituzione del 1948, la tardiva traduzione di tali previsioni in legge ordinarie, il sistema differenziato di tutela che ne è derivato, le lacune che sono emerse e la renitenza del Parlamento ad approvare una legge che consenta di risolvere i problemi in maniera generalizzata, tenendo anche conto che senz’altro il pluralismo religioso aumenterà a seguito dell’aumento dell’immigrazione.
Conclusioni: necessario il superamento degli attuali limiti in Italia e in Europa
Quella attuale, nonostante gli alti obiettivi additati dalla Costituzione e i miglioramenti attuati a partire dagli anni ’80, si può considerare una tutela della libertà religioso parcellizzata e incompleta sia nei confronti degli immigrati stranieri che degli italiani La situazione sarebbe stata ancora più deficitaria se non fosse intervenuta a più riprese la Corte costituzionale per dichiarare illegittime diverse norme. Quando non si arriva alla sottoscrizione di un’Intesa, neppure il riconoscimento di una realtà religiosa come ente morale costituisce una valida garanzia. A differenza di quanto avvenuto in altri Paesi europei, non è stato finora possibile trovar una soluzione neppure per una comunità religiosa così diffusa come quella islamica.
Attualmente si riscontra in Europa un duplice atteggiamento che divide le popolazioni: da una parte si riscontra l’accettazione di un multiculturalismo, anche religioso, considerato (se ben gestito) positivo e arricchente; dall’altra, è diffusa la paura della diversità, talvolta con accenti di vera e propria “guerra di religione”, specialmente nei confronti dell’Islam, soprattutto dopo i tragici attentati dell’11 settembre 2001 e gli eventi terroristici degli ultimi anni, che non hanno favorito la distinzione tra l’Islam e le sue correnti fondamentaliste. È amaro constatare che non sono del tutto stati stabiliti i presupposti per una gestione armoniosa delle diversità religiose, e da ciò derivano, pertanto, una serie di impegni non solo legislativi ma anche sociali, culturali, formativi (specialmente nelle scuole) e urbanistici (per quanto riguarda i luoghi di culto. L’apertura non deve limitarsi alla dimensione istituzionale e deve concretizzarsi anche nelle singole persone, ch vanno considerate il perno fondamentale del dialogo interreligioso, definito da papa Paolo VI non tanto un esercizio teorico quanto un incontro concreto tra credenti da impostare in maniera corretta [22].
Il pluralismo religioso, enfatizzato dalle migrazioni internazionali va considerato un “segno dei tempi”. In Europa una faticosa storia, protrattasi per secoli e contrassegnata da sanguinose guerre di religione, si è conclusa con l’affermazione dello “Stato laico” come piattaforma in grado di accogliere e far coesistere le differenti comunità religiose Questa soluzione giustamente viene ritenuta irrinunciabile nelle società occidentali, anche se non è praticata in diversi Paesi di origine degli immigrati. Assicurata la mancanza di contrasto con l’ordinamento istituzionale del Paese di accoglienza, come contropartita deve essere però offerta la piena tutela dell’esercizio della libertà religiosa da tradure definitivamente, da parte dei decisori pubblici, in impegni concreti.