Molto diffuso è il detto «Scherza coi fanti e lascia stare i santi», che non è rivolto soltanto a chi se la prende con le divinità quando inciampa in qualche difficoltà esistenziale; pur se il suo uso assume l’aspetto di un monito nei confronti di chi proferisce parole blasfeme, esso ha, infatti, un significato più ampio, perché traccia un confine netto tra il sacro ed il profano, due elementi che non possono venire accoppiati, se non antiteticamente, in nessun modo. In questo significato è usato nella Tosca di Puccini, nella scena in cui il pittore Cavaradossi paragona l’immagine sacra che sta dipingendo a quella delle sue amanti, meritandosi il rimprovero del sacrestano: «Scherza coi fanti e lascia stare i santi», appunto.
Quindi nessuno accostamento di argomenti e personaggi profani a quelli ritenuti sacri. Non solo: il proverbio parla di “scherzi”, cioè di azioni finalizzate a provocare il riso, se non addirittura una risata piena, sonora, mediante la presa in giro, più o meno pesante, di avvenimenti e di personaggi importanti e seri. Si può scherzare con i fanti, cioè con i fanciulli e, per estensione, con persone del nostro stesso livello sociale o molto più basso. Lo scherzo e la risata devono rimanere lontani da quelle persone superiori a noi e soprattutto dal sacro.
Il motto ha un’origine antica, come ci informa il vocabolo “fanti” che oggi si usa solo come termine tecnico per indicare una parte dell’esercito (la fanteria); e da questa accezione deriva il suo significato di persone adulte ma non importanti. Lo troviamo in Dante e proprio in un’espressione che probabilmente sta alla base del contenuto e della forma del proverbio attuale. Nei canti XXI e XXII dell’Inferno il poeta racconta di avere avuto come compagni temporanei di viaggio un gruppo di diavoli; la compagnia non è gradita, ma Dante è costretto ad accettarla; e così commenta: ne la chiesa / coi santi e in taverna coi ghiottoni. Dopo di che ci racconta di una burla che un dannato tesse contro il gruppo dei demoni. Ecco, il diavolo può essere beffeggiato, ridicolizzato, ma superate le soglie del Purgatorio e del Paradiso, non si ride più, al massimo è il sorriso che prevale ma come espressione metaforica della più alta letizia eterna.
Non sappiamo quando fu deciso che il riso e lo scherzo dovessero essere banditi dalla gioia del Paradiso, ma possiamo arguire che il divieto dovette nascere nei decenni dell’Alto Medioevo, se Dante poté accoglierlo come un dato di fatto, probabilmente già passato al vaglio del tomismo. E difatti, Umberto Eco, nel suo romanzo Il nome della rosa, la cui trama si svolge nel periodo del monachesimo medievale, mette al centro della vicenda un libro della biblioteca del convento, tenuto nascosto e segreto e che riguarda le tesi di Aristotele sul riso. Pur di non farlo leggere si preferisce uccidere i confratelli più curiosi.
Quindi, sembrerebbe che circa un millennio fa era già profonda convinzione che il riso non fosse congeniale al Cristianesimo. Ma a ripensarci e andando indietro nel tempo ci si accorge che già nella Bibbia non si ride e nemmeno si sorride. Forse che la mancanza di momenti gioiosi e ridanciani nei libri del Vecchio Testamento ha influenzato i Vangeli e perfino il Corano? E perché?
Su questi temi discutono in tre: Francesco Remotti, Maurizio Bettini e Massimo Raveri (Ridere degli dèi, ridere con gli dèi. Il comico teologico, Il Mulino, Bologna 2020); le analisi dei tre studiosi indagano sulla presenza e sull’assenza della risata nelle varie religioni esaminate, ma, a parte qualche considerazione di Bettini, ci rimane sconosciuto il motivo per il quale in alcune religioni si ride degli dèi e con gli dèi e in altre lo scherzo e la risata sono severamente riprovati.
Nella sua Introduzione, Remotti si serve di alcuni temi, tratti dai contributi successivi di Bettini e Raveri, per spiegare il titolo del volume e per delinearne il contenuto principale. Egli parte da una semplice considerazione: nei testi delle tre più importanti religioni, nate nel clima della cultura mediterranea (Giudaismo, Cristianesimo e Islamismo), non c’è una scena in cui i protagonisti ridano o facciano una battuta scherzosa, mentre in quasi tutte le religioni professate in continenti diversi dall’Europa è possibile rintracciare, nei relativi racconti mitici, elementi di comicità che coinvolgono le divinità e gli uomini. Questa osservazione gli consente di stabilire una linea di confine tra le «religioni senza nome», che, cioè, appartengono ad etnie rimaste circoscritte nei loro luoghi d’origine, e che accettano che si possa scherzare sulle loro divinità, e, dall’altra parte, religioni che hanno un nome più o meno altisonante e che disapprovano o addirittura disprezzano e aborriscono l’umorismo e lo scherzo.
Non è che i fondatori di queste grandi religioni e i loro seguaci non sapessero ridere: nella loro reale vita quotidiana sarà loro capitato di scherzare, di apprezzare qualche gesto o qualche battuta di umorismo, ma nei libri in cui si raccontano le loro storie non ci sono tracce di comicità. È come se in esse si volessero eliminare o almeno rimuovere l’umorismo, lo scherzo e l’ilarità dal mondo sacro. Per quanto riguarda il Cristianesimo, Remotti, riprendendo un passo di Bettini, cita sant’Agostino come uno dei primi teologi a tracciare la differenza tra la religione greco-romana e il Cristianesimo e a non ammettere che si possa sentire devozione nei confronti di personaggi ed elementi di così rozza volgarità tanto da essere facilmente derisi nelle rappresentazioni teatrali e nei discorsi quotidiani; per lui, la divinità deve essere immune da questi oltraggi.
Diversa è la situazione delle “religioni senza nome”, molte delle quali presenti in Africa, in cui lo scherzo e l’umorismo sono usuali anche nel rapporto uomini-divinità. Sembra che ciò succeda in quanto tra mondo divino e mondo umano non c’è separazione, perché, secondo Remotti, è proprio il riso «che maggiormente accomuna il mondo umano con il mondo divino»; e, aggiunge, se non si attribuisce alla divinità la facoltà di ridere e scherzare questa comunanza viene a mancare. Rimane, tuttavia, l’impressione (lo stesso Remotti in qualche modo lo fa capire) che questa comunanza basata sul riso sia dovuta soltanto ad un’invenzione degli uomini e non delle divinità.
Questa introduzione serve all’Autore a sgombrare il campo da alcuni pregiudizi. Poiché, infatti siamo imbevuti di cultura mediterranea, che include anche la conoscenza e l’esperienza delle tre religioni monoteiste, rimaniamo perplessi se riscontriamo in un contesto religioso diverso elementi di riso e di comicità, spesso triviali, che coinvolgono le divinità in modo da riportarli sullo stesso piano umano. Remotti ci chiarisce che questa desacralizzazione, siccome fa parte di una narrazione sacra, svolge una funzione molto importante, quella di creare un equilibrio tra l’assoluto del sacro e quello del profano.
L’introduzione si chiude, infine, con una considerazione sulla “traducibilità” teologica di certe religioni: gli antichi Romani, per esempio, facevano proprie le divinità di altri popoli, traducendole e modificandole secondo la propria cultura. Cosa che non può accadere con sistemi religiosi che restano “intraducibili” perché c’è un imperioso comandamento che glielo impedisce: «Non avrai altro Dio all’infuori di me».
Bettini e l’antichità classica
In epigrafe al suo contributo Maurizio Bettini cita proprio il detto “scherza coi fanti, ecc.”, ma lo fa seguire da un commento ironico di un anonimo livornese che preferisce scherzare con i santi perché coi «fanti dopo un po’ non si sa più che cosa dire». Mentre gli altri due coautori si servono per lo più di esempi tratti dalle loro ricerche sul campo, Bettini, da filologo classico, esplora alcuni testi letterari in cui in vario modo sono stati affrontati i temi della risata e dell’umorismo che coinvolgono le divinità e gli uomini.
Egli parte addirittura da Omero che, nell’Odissea, racconta di come il dio Efesto avesse catturato, per mezzo di una rete, Venere, sua sposa, e Marte, colti in flagrante adulterio. È un episodio che suscita sia il riso degli dei, chiamati dal marito tradito a guardare e a sbeffeggiare i due fedifraghi caduti nella rete, sia quello di chi ne ascolta o legge il racconto. Quindi, già ai tempi di Omero o chi per lui, c’era l’abitudine a ridere degli dèi e con loro, i quali venivano rappresentati con gli stessi vizi e le stesse virtù degli uomini. Presso gli antichi Greci, dunque, sembra ci fosse una comunanza tra divinità e uomini basata sulla comicità, così come c’era nella più antica religione babilonese, perché nell’opera Athrabasis, in cui si racconta il mito del diluvio universale, si legge che per festeggiare la ritrovata pace fra dèi ed uomini, si prepara un banchetto su cui gli dèi, affamati e avidi di cibo come gli uomini dopo un così lungo digiuno, si gettano come “uno sciame di mosche”: paragone che grottescamente rende le divinità simili ad insetti sudici e spregevoli. Lo stesso episodio è narrato anche nella Bibbia, ma, fa osservare Bettini, Noè non cade nel grottesco e nel comico in quanto il suo comportamento è molto più elegante di quello delle divinità babilonesi. Nella Bibbia, insomma, si cerca di attutire e circoscrivere ogni eccesso che possa facilitare una vicinanza troppo stretta tra uomini e dèi.
Lo studioso fa poi un’analisi molto dettagliata di alcune scene delle Rane, degli Uccelli e del Pluto di Aristofane, in cui Bacco, Eracle ed Ermes sono protagonisti ed insieme vittime di scherzi molto pesanti, e in cui viene messa in discussione la loro potenza divina. Lo sdoppiamento del dio, che avviene sulla scena, è un aspetto importante che ci aiuta a capire perché gli dèi, specialmente Bacco, sono essi stessi motori della comicità che investe contemporaneamente il loro mondo e quello umano.
Anche nella religiosità romana possiamo assistere alle stesse situazioni, come ci dimostra Bettini analizzando l’Anfitrione di Plauto e alcuni brani di Ovidio, di Petronio, di Giovenale. La rappresentazione che degli dèi fa Plauto dà modo allo studioso, attraverso strumenti semiologici, di farci capire i meccanismi per cui una divinità possa essere schernita e nello stesso conservare la sua potenza e possa anzi rafforzarla quanto più lo scherzo è pesante.
L’esame delle commedie di Aristofane e Plauto è così convincente da farci ricredere sulle interpretazioni che ci siamo portati dietro per secoli: noi ormai siamo molto lontani culturalmente dall’antichità classica, sia per una diversa concezione e un diverso sentimento della religione, sia perché siamo abituati, ahimè, a ridere per le scenette comiche dei varietà teatrali e televisivi; così, tendiamo a leggere le commedie greche e romane come se fossero i testi, alquanto superficiali, del Bagaglino. Lo stesso Bettini ci avverte che il mondo greco e quello romano possono essere compresi a livello storico, mentre a livello culturale dobbiamo fermarci sulla soglia di una battuta di spirito o di una rappresentazione comica e parodistica, il cui profondo significato può essere percepito solo se ci “mettiamo nei panni” degli antichi, cioè con uno sforzo notevole delle nostre capacità intellettive e rimuovendo tutti i pregiudizi e le incrostazioni stratificate delle nostre molteplici esperienze.
Viste, perciò, con l’ottica «del ridere con gli dèi e degli dèi», le battute dei personaggi di Aristofane e Plauto sono da considerare come bestemmie o quanto meno hanno una grande violenza dissacratoria come quelle che potrebbero avere le maligne considerazioni di una radicale laicità (sembra di leggere, dice Bettini, il «Vernacoliere», la celebre rivista anarcoide di Livorno).
Per rispondere all’obiezione di sant’Agostino, secondo il quale non si può venerare un dio che può essere ridicolizzato, Bettini si chiede cos’è il riso e cos’è il comico. Con l’aiuto di Bergson arriva alla conclusione che la risata scoppia se ci troviamo davanti a contraddizioni evidenti, come vedere sulla scena un dio potente come Bacco travestito da buffone e preso in giro dagli astanti. La comicità aumenta se interviene anche il fattore “incongruenza” come quella che si manifesta quando è lo stesso dio a sollecitare gli scherzi che il suo comportamento e il suo abbigliamento suggeriscono. Anche qui, come ricordava prima Remotti, la risata accomuna uomini e dèi; quindi, se è vero, come diceva Bergson, che il riso è proprio dell’uomo, allora, poiché ridono, gli dèi sono molto vicini agli uomini; e se uomini e dèi sono di pari livello, è possibile che gli uomini scherzino e deridano le divinità e che queste accettino che si rida di loro.
Tutto ciò, evidentemente, non è possibile nelle religioni monoteistiche, che non ammettono che si possa insultare o deridere la divinità, pena le fiamme dell’Inferno. Eppure qualcosa di questa comunanza tra uomini e divinità è rimasta, anche se ad un livello culturale subalterno, per quel tanto da essere stato documentato tra i repertori del folklore.
Secondo la teologia cristiana e cattolica, Gesù il figlio di Dio si fa uomo, ma sembra che dell’umanità non abbia né i difetti, né la facoltà di ridere e scherzare; come uomo deve subire la morte e, come gli altri uomini, ha momenti di paura e di debolezza («O padre, perché mi hai abbandonato?»); tuttavia, conserva una “diversità” così profonda da non poter mai essere considerato allo stesso livello degli esseri umani. Non solo: i Vangeli raccontano che Gesù si è fatto uomo con l’unico scopo di redimere l’umanità con la sua morte violenta ed umiliante; tutta la narrazione della sua esistenza, pertanto, si sviluppa per arrivare a quella tragica fine. Non si può, scrive Bettini, ridere di una storia siffatta.
Questa diversità non è caratteristica solo di Gesù, perché viene attribuita anche alla Madonna e a tutti i Santi; per questo gli antichi pittori dipingevano, attorno alle figure dei santi, l’aureola, che era la concreta e visibile rappresentazione di questa differenza che tiene le divinità separate dai mortali. Le tele che raffigurano i santi sono la trasposizione pittorica di quello che di loro dice la religione ufficiale; ma nella religiosità popolare essi conservano i loro tratti umani, come possiamo vedere nei rapporti che i devoti instaurano con essi: quindi essi sono sentiti come “vicini” e alcuni di loro possono diventare oggetto di scherzi più o meno pesanti. È il caso, per esempio, di san Gennaro [1], di sant’Antonio abate, di san Pietro e di san Giuseppe, le cui doti, che nell’agiografia sono ritenute degne del paradiso, diventano per la mentalità popolare comportamenti di umile quotidianità.
Così le tentazioni demoniache che l’eremita Antonio dovette affrontare e vincere nel deserto sono raccontate e cantate come storielle comiche e usate per una questua di inizio d’anno [2]. Racconti simili si trovano nelle novelle su san Pietro e su altri santi popolari raccolte da Giuseppe Pitrè, altri sono tramandati dai repertori dei cantastorie, come quello cantato da suonatori ambulanti a Palermo e recepito da Rosa Balistreri e Otello Profazio: la storiella racconta la vita di san Giuseppe sullo stesso tono umoristico usato per illustrare le tentazioni di sant’Antonio [3].
Questa vicinanza tra uomini e dèi che permette alla cultura popolare di scherzare sui santi (sulle divinità maggiori si bestemmia facilmente mentre si scherza molto raramente o addirittura mai) forse deriva dall’antropomorfismo attribuito dagli antichi alle loro divinità. Fin dalla scuola media, infatti ci è stato spiegato che le divinità greco-romane sono antropomorfe, si comportano cioè come i comuni mortali; pure Bettini ce lo spiega e con argomentazioni più dotte. Se questa concezione è stata espunta dalla religiosità ufficiale perché giudicata come una manifestazione dell’ingenuità del mondo classico, essa sembra essere rimasta nel patrimonio culturale di quelle classi sociali che una volta si dicevano “subalterne”. È stato, infatti, raccolto dai folkloristi un repertorio di aneddoti e storie su alcuni personaggi del Cristianesimo, che somigliano a quelli che abbiamo letto nella mitologia classica e da cui sono stati tratti gli esempi riportati nelle note [1, 2, 3]. Ma si tratta, appunto, di rielaborazioni di frammenti di concezioni antiche che facilmente possono essere definite “superstizioni” o manifestazioni di ignoranza. Se vogliamo, però, almeno sorridere di qualche tratto della “nostra” religione, non possiamo che ricorrere ad esse.
Raveri, la religione shintō e il Buddhismo
Massimo Raveri nel suo contributo ci dà un succinto quadro sulla modernizzazione del Giappone, avvenuta nel secolo XIX; essa, ci spiega lo studioso, è stata una violenta trasformazione culturale, uno sradicamento quasi totale dell’antica identità nipponica: per ricostruirne una nuova fu necessario il recupero della tradizione, che avvenne però sulla falsariga delle religioni monoteiste e prendendo da queste qualche suggerimento. Il risultato ebbe un duplice esito: da una parte sparirono le feste caratterizzate dall’incontro gioioso ed allegro tra gli uomini e dio, perché fu fatta una lunga lotta contro il comico; dall’altra l’intreccio di molte pratiche rituali si rivelò un potente e versatile strumento ideologico. Tutto fu ridotto a religione monoteistica con a capo l’imperatore, considerato di stirpe divina. Scrive Raveri:
«Da questo modello furono espurgate tutte le espressioni più libere della corporeità, più cariche di sessualità, più scatenate di euforia. Una solennità rituale seria, pedante e conformista venne a spegnere l’allegria di festa che per secoli aveva segnato l’incontro con dio».
Dopo la sconfitta del 1945, nel Giappone tornò a rivivere l’umile ritualità di un tempo e si tornò a ridere, ma con una situazione religiosa molto diversa, perché intanto si era affermato lo shintō, una corrente religiosa molto forte, nata in contrapposizione al Buddhismo introdotto nel corso del XIX secolo, e non priva di elementi molto arcaici come l’animismo. Raveri, dopo aver illustrato ampiamente questa nuova situazione, si occupa di una festa contadina dedicata a Ta no kami, il dio della risaia, raffigurato da una statua che posteriormente prende l’aspetto di un enorme fallo.
La sua celebrazione avviene durante un banchetto, tra risate e battute umoristiche basate sulla sessualità e sull’oscenità:
«L’atmosfera è rilassata, molto libera, allegra, grazie anche alle abbondanti bevute. Si ride con dio perché i semi sono stati piantati, o perché il raccolto è nei granai».
Siamo qui di fronte ad uno dei più classici riti della fertilità, uno di quelli che James Frazer sarebbe stato lieto di accogliere nel suo Ramo d’oro: stessa allegria, stesse scene di euforia, stesso linguaggio licenzioso e soprattutto stessa assenza delle donne, alle quali è negata ogni possibilità di ridere. Nello shintō, infatti, le donne sono escluse dalla festa, perché la festa è la manifestazione della potenza sessuale che appartiene solo agli uomini; agli uomini è permesso di ridere, di scherzare anche pesantemente sul dio e sulla sua statua, mentre le donne non possono ridere del fallo che viene portato in processione. La sessualità femminile libera è sentita come forza di distruzione. In fondo si ha paura della donna, quindi si cerca di limitarne la potenza. Così Raveri commenta uno dei momenti della festa:
«Sono risate di un’allegria beffarda, hanno poco a che fare con l’umorismo. Al fondo si percepisce una carica di aggressività che sottolinea un dominio del genere maschile sul genere femminile. Perché, mentre per gli uomini è quasi obbligatorio, per le donne è considerato riprovevole ridere al passaggio del dio del fallo».
Questa festa, secondo Raveri, è da classificare tra quell’insieme di pratiche che prende il nome di “riso teologico”, espressione presente nel titolo del volume e illustrata nell’Introduzione da Remotti e successivamente nel contributo di Bettini. Si tratta di una concezione della divinità che abbiamo già trovato esemplificata a proposito della religione greco-romana: gli dèi e gli uomini hanno la stessa origine e la stessa natura, quindi è possibile ridere insieme, prendersi in giro reciprocamente. Nella festa, oltre agli scherzi e alle battute basati sulla licenziosità e sulla sessualità, la risata è sentita come segno di liberazione, come strumento per eliminare eventuali tensioni tra i membri della comunità, per ricreare quell’armonia necessaria ad affrontare insieme una nuova annata.
Successivamente Raveri spinge lo sguardo fino all’India dove rintraccia elementi del “riso teologico”. Nel libro del Brahamasutra, si parla della creazione del mondo come di un momento di leggera allegria che non disdegna la risata e la celia: il mondo, infatti, è stato creato da Visnu per un suo momentaneo capriccio e la stessa creazione viene definita līlā, che significa “gioco”, capriccio, appunto, gioco di fantasia. Restando sempre in India, Raveri ci parla infine dell’eccentricità dei maestri taoisti e della risata dei maestri zen.
Remotti e le religioni senza nome
Il saggio di Remotti, Umorismo e comicità nelle religioni senza nome, svolto con l’aiuto dei risultati delle ricerche sul campo proprie ed altrui, affronta il tema del rapporto fra divinità e mondo umano nelle etnie che hanno costruito sistemi religiosi meno rigorosi e complessi rispetto a quelli monoteistici, e che, invece di condannarli, accolgono gli scherzi e il riso come componenti e, insieme, come strumenti di interpretazione della loro visione religiosa dell’universo.
Il suo punto di partenza è il seguente:
«La teoria verso cui ci spinge l’analisi dell’umorismo teologico è dunque la seguente: ogni cultura richiede di essere anche una metacultura e il riso consente di uscire periodicamente dalla gabbia che ogni cultura costruisce per coloro che ne sono i portatori. La desacralizzazione – orale o rituale che sia – è una boccata di ossigeno assolutamente vitale, e il riso accompagna sia la sacralizzazione, impedendole di trasformarsi in un assoluto, sia la desacralizzazione, evitando che si trasformi in uno sterminio brutale di uomini, di idee, di culture».
Strumento di questa operazione metaculturale, secondo Remotti, è il trickster, il “dio briccone” che è da ritenersi il motore del comico e dell’umorismo nelle “religioni senza nome”. Per dimostrare ciò, Remotti ripercorre molte narrazioni mitiche dove agisce il trickster. Si tratta di racconti comici, ma sempre sacri, in cui si leggono episodi di azioni paradossali (scimmie, per esempio, che si circoncidono), basati spesso su assurdità logiche che forse servono per segnare le distanze tra l’umano e il divino. Gli africani ridono a sentire raccontare queste vicende paradossali che accettano senza discuterle. Ma forse hanno ragione loro, l’illogicità e le assurdità rappresentano, sia pure metaforicamente, per i politeisti e per i monoteisti, l’incapacità della mente umana a penetrare i misteri della mente divina.
Il risultato delle illustrazioni di tutte queste narrazioni mitiche dovrebbe essere la verifica della teoria del riso teologico, ma non sempre le argomentazioni di Remotti sono convincenti, talora sembra che la testimonianza non sia del tutto coerente, ma è piegata a favore della spiegazione teorica. A leggere certi racconti si ride poco o non si ride affatto, ma molto probabilmente ciò dipende a causa di quel fattore bene individuato da Bettini, e cioè che è impossibile calarci completamente nella cultura e nella psicologia di popoli lontani da noi nel tempo e nello spazio.
Nel paragrafo 7 del suo saggio lo stesso Remotti, per avere una maggiore credibilità analitica, dice che occorre riportare racconti tratti «dal pensiero mitologico tradizionale, dove si incontrano figure e personaggi che, per così dire, istituzionalizzano l’umorismo sia in ambito teologico sia in ambito antropologico»; quindi passa in rassegna altri miti in cui appare un trickster diverso da quelli precedenti, che più coerentemente esemplifica la categoria da lui teorizzata.
Trova suggerimenti di analisi negli studi di Pelton che parla di questi trickster come un universale «modello di umorismo in azione», che trasforma il riso episodico in un riso strutturale e permanente; e poi sono gli studi di Silvana Miceli, che ha applicato le teorie semiologiche per capire la funzione del trickster, a confortare la sua teoria di “riso teologico”. Per la Miceli, infatti, i racconti delle azioni di questo “briccone divino” provocano tra gli ascoltatori un “riso forte, profondo”, carico di significati, dato che attraverso le avventure del trickster gli indigeni «possono ridere del mondo intero e di sé stessi», nonché degli stessi creatori del mondo.
Prima di esporre altre testimonianze sulla funzione del trickster, Remotti chiarisce lo scopo delle sue riflessioni e che è lo stesso che ha ispirato i saggi contenuti nel volume:
«Avanziamo cioè l’ipotesi che il trickster – così diffuso nel mondo – sia la figura mitologica che ha consentito alle più diverse culture di immettere il riso nelle loro teologie: e non come un episodio saltuario o come un evento unico e transitorio, ma come una dimensione strutturale, permanente e persino indispensabile».
Remotti si mostra convinto dell’universalità del “briccone divino”, ma le testimonianze che abbiamo non sembra riguardino anche le cosiddette società “evolute”, tranne che si voglia individuare come una sorta di “tricksterismo” la presenza di personaggi “incongrui”, per dirla con Bettini, in alcuni settori della cultura popolare. Mi riferisco al folklore italiano, dove rintracciamo il personaggio del diavolo in alcune Sacre rappresentazione e in alcune azioni sceniche della settimana santa che avvengono per le strade e le piazze dei paesi (per esempio, il ballo dei diavoli di Prizzi, provincia di Palermo); nel caso della forma teatrale il diavolo cerca di boicottare la rappresentazione, e, nell’altro caso, di impedire l’incontro tra la Madonna e Gesù resuscitato. Ma in entrambe le situazioni forse la presenza del diavolo funge da rappresentazione del male che si può vincere solo mediante la santità.
Un’altra figura del patrimonio folklorico italiano che ricorda il trickster potrebbe essere quella del buffone nei Maggi drammatici, i cui personaggi adombrano temi metafisici come quelli del Bene e del Male. Durante la rappresentazione il buffone, può agire senza alcuna regola, può passare dal gruppo dei buoni a quello dei malvagi, può uscire dalla processione per far capriole sul prato o arrampicarsi su di un albero, può permettersi di disturbare gli attori e soprattutto di tormentare il diavolo, quando il copione ne prevede la presenza. Esso non svolge la stessa funzione creativa del trickster e soprattutto non ha natura divina, ma come lui desacralizza, rende più vicini agli uomini i personaggi e le vicende rappresentati. Anche se nel folklore che noi conosciamo sembrano avere assunto ruoli diversi, questi diavoli e questi buffoni possono essere considerati come sopravvivenze dei trickster ben presenti nelle religioni politeiste e senza nome?
Le analisi e le considerazioni che i tre Autori hanno svolto indagando religioni del passato e del presente, sparse per tutti i cinque Continenti, politeiste e monoteiste, ci hanno spiegato i comportamenti che gli uomini hanno nei confronti delle divinità ma, pur se articolate, ampie e dotte, non hanno chiarito i motivi per cui in alcune società c’è comunanza o almeno vicinanza tra dèi e uomini, mentre in altre viene venerato un dio lontano, spesso autoritario, a volte spietato nei confronti di chi non ha osservato i suoi comandamenti.
Le religioni monoteiste non ammettono lo scherzo, la beffa, la risata che rende gli uomini e gli dèi uguali e li accomuna; né tollerano che la stessa divinità possa esserne protagonista, attiva o passiva. «Non nominare il nome di Dio invano» è tra i più importanti comandamenti del Giudaismo e del Cristianesimo; la geenna è la fine che tocca ai bestemmiatori; e la presa in giro, lo scherno, pur non essendo considerati al pari della bestemmia, non sono tollerati se rivolti alla divinità. C’è quasi, in queste religioni assolutiste, un rinchiudersi in se stesse, una difesa aprioristica della propria identità religiosa. Gli antichi Romani, come scrive Remotti, molto facilmente “traducevano” le divinità altrui e le facevano diventare proprie; la loro era una religione che non temeva la concorrenza; anzi, l’accoglimento di culti non autoctoni dava ai Romani una maggiore forza e una grande credibilità presso le popolazioni via via da loro prima assoggettate e poi integrate. Viceversa, le grandi religioni monoteiste hanno nei confronti delle altre religioni un sentimento di antagonismo che a volte si manifesta con estrema violenza: Mosè distrugge la statua del toro dopo essere sceso dal Sinai; la Chiesa cattolica, oltre a promuovere le Crociate, ha usato l’Inquisizione, i roghi e le scomuniche contro gli eretici, e poi, dopo il Concilio tridentino, ha condotto quasi una guerra contro il cosiddetto paganesimo delle campagne. Da parte sua l’Islam si serve di un’interpretazione aggressiva della jihād da rivolgere contro i suoi nemici, veri o presunti, dando origine ad una intolleranza radicale che ha prodotto in Europa sanguinosi atti di terrorismo e terribili vicende belliche nel Medio Oriente.
Forse una profonda indagine storica su come si sono formate le religioni monoteiste potrebbe darci una qualche risposta. Tra l’altro, c’è da vedere perché il popolo Ebraico ha scelto questo tipo di religione; e perché Cristianesimo e Islamismo l’hanno preso a modello. A leggere, con l’esperienza “politica” dell’oggi, i vari sistemi religiosi, sembrerebbe che in quelli senza nome e politeistici i rapporti fra le divinità e gli uomini rispondano a criteri che potremmo definire più “democratici”, mentre più assolutistici e autoritari ci appaiono quelli delle religioni monoteistiche. Sia nelle une che nelle altre, c’è tuttavia un fattore che non mi pare sia stato tenuto di conto nelle analisi dei tre studiosi relative alle religioni senza nome: si tratta della presenza di un dio che rimane del tutto sconosciuto, il cui disegno generale è imperscrutabile all’uomo e che nessuna celia, nessuna storiella comica riesce a mettere sullo stesso piano dell’umanità. Anche nel culto del chihamba, con la cui analisi Remotti chiude il suo saggio, c’è una divinità suprema di cui gli indigeni sanno solo che dipendono da lui, come dice Muchona, il collaboratore preferito da Turner che ha studiato il culto presso una popolazione del Dahomey:
«… Nzambi, il Dio Supremo … che fa crescere le piante che coltiviamo, che dà salute e benessere a uomini e donne, e che fa sì che gli animali si moltiplichino».
D’altra parte, anche presso gli antichi Greci e Romani c’era al di sopra di tutte le divinità il Fato, cui anche lo stesso Giove era sottoposto. Non mi pare che Bettini abbia trovato burle rivolte a questa misteriosa entità.
Rimane il problema del trickster. Che è sempre un personaggio creato da una mente umana per spiegarsi il mondo, per alleggerire le pene dovute alle imperfezioni della condizione umana, per evitare, perfino, la noia di un Eden eterno. Che le azioni e il comportamento del trickster suscitino le risate è vero, ma non mi pare che la sua comicità possa essere accostata a quella delle scene di Aristofane e di Plauto ricordate da Bettini e nemmeno a quella del rito giapponese Ta no kami, dove l’ilarità si scatena davanti alla statua del dio, la cui presenza autorizza ed impone il riso, come imposte sono tutte le azioni che compongono tutti i riti e che si fanno “perché si devono fare”. Nelle commedie greco-latine sono gli uomini che prendono in giro gli dèi non per mezzo di un qualche rito, ma attraverso le parodistiche e grottesche rappresentazioni teatrali, come in Giappone sono gli uomini che ridono del dio-fallo. Nei racconti mitici riportati da Remotti, è il trickster che prende in giro gli dèi, gli uomini ridono delle azioni bricconesche del trickster ed eventualmente del fatto che questi, riuscendo a smascherare alcune loro debolezze, riportano le divinità allo stesso livello degli uomini.
Oltre a far ridere o sorridere, nelle storielle umoristiche del trickster, secondo il mio parere (e secondo quello molto più autorevole del Lanternari, ma non secondo quello della Miceli che invece è accettato da Remotti), c’è un sottofondo pedagogico: in sostanza il briccone divino è anche un esempio di comportamento negativo, come se si volesse dire: “non fate come il trickster, accontentatevi delle cose come stanno”; si tratta, però, di una pedagogia non autoritaria, non severa, perché alleviata dal registro comico dello stile narrativo.
In definitiva, in questi racconti mitici delle religioni senza nome, resta il fatto che non sono gli uomini a vedere e a criticare il lato ridicolo della divinità, com’è in Aristofane e Plauto, ma un trickster che, pur avendo comportamenti umani, appartiene alla divinità; al massimo egli si può considerare un essere, inventato dalla mente umana, che serve come mediatore fra dio e uomo. Se così è, nonostante i trickster e gli angeli custodi, quella comunanza auspicata fra le divinità e l’umanità è solo un atto di fede.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] È notorio che i devoti si rivolgono a san Gennaro chiamandolo “faccia gialla”, cioè insultandolo, se il sangue ritarda a sciogliersi.
[2] Sant’Antonio allu diserte / cucinava gli spaghette / Satanasse pe’ dispiette / glie freghette le furchette / Sant’Antonio nun se lagna / cun le mani se le magna (Sant’Antonio nel deserto cucinava gli spaghetti / il demonio per dispetto gli rubò la forchetta; / sant’Antonio non si lagna con le mani se li mangia).
Sant’Antonio allu diserte / se diceva le oraziune / Satanasse pe’ dispiette / gli fa il verso dellu trumbune/ Sant’Antonio col curtellone / gli corre appresso e lo fa cappone (S. Antonio nel deserto recitava l’orazione / il diavolo per dispetto gli fece una pernacchia; / sant’Antonio con un grosso coltello / lo insegne e lo fa diventare cappone).
[3] San Giuseppi quann’era nicu / sinn’annau a rubari ficu / e di quantu nn’avia mangiatu / si sinteva disturbatu (San Giuseppe quando era piccolo / se ne andava a rubare fichi / e di quanti ne aveva mangiati / aveva disturbi d’intestino).
San Giuseppi quann’era ranni / si cangiava li mutanni / ppi lu granni friddu c’avia / mutanni longhi si mittiva (San Giuseppe quando era grande / faceva il cambio delle mutande / e poiché soffriva il freddo / usava mettere quelle lunghe).
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.
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