il centro in periferia
di Luigi Vitelli
Ancora insonne, in un’assolata mattinata di Marzo, ho attraversato le strade insolitamente deserte e distopiche di Roma per raggiungere la stazione degli autobus. Era l’inizio del famigerato lockdown, quando sono ritornato finalmente a casa, in Basilicata, dopo aver concluso un pericoloso coast to coast americano New York – San Francisco, per motivi lavorativi. Come in una sorta di quadro anamorfico, lentamente mi sono reso conto di quello che stava accadendo e giunto a casa, l’eccitazione del viaggio in Usa si è mescolata ad un senso sempre più forte di smarrimento, paura del contagio e preoccupazione per i miei familiari. Eppure in quei primi giorni di quarantena, ero ancora carico di energie per l’esperienza fatta e ho cercato di centellinarle e darle seguito per cibare le giornate di clausura con letture, ricerche e nuovi progetti di lavoro, per arricchire la dimensione quotidiana e comprendere come attraversare, a piedi nudi, il deserto pandemico, sul filo di quel tempo sospeso.
Faceva caldo, ma sembravano quelle giornate in cui ti svegli e trovi la neve spessa sui tetti e sulle strade del paese. Una superficie ovattata di quiete solo apparente, sotto la quale ardevano i tizzoni dell’emergenza. Mentre a Bergamo decine e decine di bare venivano trasportate ai camposanti dai mezzi dell’esercito, anche qui in Basilicata si iniziava a morire per il virus, seppur con dimensioni molto ridotte, e nel silenzio assordante, ho pensato a tutta l’inadeguatezza del sistema sanitario regionale per i numerosi tagli fatti negli anni precedenti e inerme, ho sperato che tutto potesse andare per il meglio. Mi sono stretto attorno agli affetti, che in quel momento non avevano più nulla di stabile di fronte al disorientamento che stavamo vivendo e ho iniziato a tracciare le rotte nella mia mappa emotiva per raggiungere persone care, amici sparsi per il mondo.
Munito della bussola e del compasso dei mezzi digitali, ero solito recarmi sul mio terrazzo da cui, come un marinaio sul bastimento, tra i comignoli dei tetti e i campanili delle chiese medievali, ho avuto modo di salpare a Milano, Bologna, Berlino, Londra, New York e sentirmi parte di quella comunità effimera e sodale di amicizie, il mio conclave della dispersione, colpita da quell’atto di sovversione ad ogni latitudine. La curva dei contagi continuava a crescere, dicevano al bollettino delle 18 i dirigenti della sanità nazionale e della protezione civile: dovete restare a casa e tutto andrà bene.
Ma cosa significa restare a casa in un piccolo paese? Da quasi due lustri, sono tornato a vivere in un territorio marginale rispetto alle grandi enclave dell’economia nazionale. Luoghi plasmati dalle braccia contadine e artigiane prestate all’industria degli anni 60, ormai fallita da decenni, e di gambe usate per emigrare. Territori di dolente bellezza e di geologia esistenziale – citando Carlo Levi – dissanguati demograficamente e privati di molti servizi basilari. Spazi in cui sembra ormai impossibile imbavagliare la carriera delle rovine, dove devi adottare forme di misantropia prima ancora del distanziamento fisico per sopravvivere all’asfissia corale, all’anoressia collettiva che spesso sembra prevalere.
Restare a casa, in questi luoghi, significa sentirsi inevitabilmente straniero nella tua comunità, vuol dire fuggire dall’adattamento allo status quo. Inventarsi un terzo luogo fisico e mentale in cui diventare una sorta di flaneur delle rovine e delle macerie, cercare e produrre senso nelle crepe della disuguaglianza. E allora ho deciso di ripartire da lì, dal restare a casa, non come atto di rassegnazione ma come atteggiamento di emancipazione.
Mentre contemporaneamente ai numerosi e continui lutti, senza un prefica a lenire il dolore, le acque di Venezia tornavano cristalline, i cervi e le volpi si riprendevano i centri storici degli appennini, dal mio osservatorio/bastimento ho visto nascere nuove storie provenienti dagli interstizi di quei piccoli mondi esplosi dalla storia e oggi colpiti dal virus, che sono i paesi della Basilicata.
In alcuni luoghi, i più “attrezzati”, come alcuni professionisti della cultura regionale, hanno reagito alla chiusura temporanea con edizioni smart e appuntamenti di discussione digitale con grandi artisti, cineasti, poeti, musicisti ed operatori, o facendo interagire la propria comunità, realizzando ricette culinarie e simulando convivialità online come nel caso degli amici del “Lucania film festival” e di “Wonder Grottole”. Mentre da Lauria, un amico professore di filosofia, proponeva sui social, ai suoi studenti delusi dall’annullamento del viaggio d’istruzione a Berlino, di sostituirlo non appena fosse stato possibile, con un cammino interno alla propria regione, anche per colmare alcune lacune di conoscenza locale, spesso sottovalute dagli stessi curriculum scolastici.
Una comunità improvvisata di volontari di Pisticci, il paese dove vivo, ha prodotto mascherine di stoffa riciclata e le ha distribuite agli abitanti con l’aiuto della protezione civile, mentre un’impresa dello stesso territorio le ha realizzate su scala nazionale con un innovativo materiale eco-sostenibile. A San Paolo Albanese, il paese più piccolo della Basilicata, ai piedi del Parco Nazionale del Pollino, da circa 15 anni non esisteva più il panificio. Lì ci vivono 250 abitanti sulla carta e non nasce un bambino da molti anni. Allora per fronteggiare l’emergenza che aveva acuito la difficoltà di percorrere chilometri alla ricerca di pane, hanno deciso di riprendere un’antica tradizione, ovvero quella che in arberesh chiamano Buka tek Gjitunia: un vero e proprio forno di vicinato che, con le misure di sicurezza adeguate, ha potuto soddisfare finalmente le esigenze dell’intera comunità. Ma forse, la storia più inaudita di tutte, riguarda la signora Maria di Aliano. Una donna di 77 anni che, alla metà del mese di Marzo, ha chiamato i carabinieri, chiedendo soccorso per un malore al cuore. I carabinieri recatisi sul posto con la guardia medica, scoprono non solo che la donna era in buona salute fisica, ma che in realtà aveva simulato il malore perché aveva semplicemente bisogno di compagnia nel giorno del suo compleanno, in quanto vedova e senza figli.
Oggi siamo nella fase delicata in cui le ripercussioni economiche e sociali di questo evento, se da una parte ci obbligano a non tornare indietro, alla normalità precedente, dall’altra disegnano un futuro incerto che sarà complesso da gestire. Ma sicuramente la pandemia ci ha consegnato nuove narrazioni e ritualità antropologiche officiate sull’altare profanato delle libertà individuali e delle diseguaglianze strutturali, che sono nate nei piccoli paesi nel tempo sospeso dell’isolamento. Storie che ci danno indicazioni su quali sono i nuovi “attrezzi” (analogici e digitali) che dovremmo avere a disposizione nella cassetta del pronto soccorso dell’anima per fronteggiare la crisi della presenza contemporanea – citando De Martino –, e che ci raccontano di comunità fragili che continuano a resistere. Comunità da cui è necessario ripartire per inventare un nuovo welfare sociale e culturale. Che ci sbattono in faccia l’urgenza di ricominciare proprio da quelle rovine, da quei luoghi tralasciati dal neoliberismo, dai piccoli paesi degli appennini e delle montagne. Che ci mettono di fronte alla necessità di aprire un nuovo cantiere di immaginazione per guidare la transizione ecologica e umana e rifondare, non solo simbolicamente, i luoghi del margine attraverso una nuova cultura della cura.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Luigi Vitelli, laureato in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo archeologico, si occupa di project design e management nei settori della valorizzazione e promozione del patrimonio culturale, del turismo sostenibile e dell’innovazione sociale presso l’organizzazione Euro-Net. È ricercatore, autore e direttore artistico di diversi progetti nell’ambito di programmi internazionali, nazionali e regionali tra i quali: Erasmus Plus, Visioni Urbani, Nuovi Fermenti, Matera 2019, Capitale Europea della cultura. È specializzato in medotodologie narrative per la progettazione di allestimenti e servizi museali, per l’educazione non formale e lo sviluppo locale a base culturale.
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