dialoghi oltre il virus
di Rosario Lentini
Tra il 1347 e il 1351 una pandemia di peste, originata dal microbo oggi conosciuto col nome scientifico di Yersinia pestis, portò alla morte trenta milioni di abitanti sui circa 100 che si stima popolassero lʼintera Europa. «Ma la tragedia ‒ scriveva lo storico dellʼeconomia Carlo Maria Cipolla ‒, per quanto grave, non finì lì. Con la pandemia, la peste si stabilì in Europa in forma endemica, assumendo di tanto in tanto, a intervalli più o meno lunghi, proporzioni epidemiche su scala locale o regionale o nazionale»[1]. Si trattò indubbiamente della prima esperienza sanitaria globale vissuta nel continente la cui gravità e capillarità di penetrazione sarebbero diventate tristemente memorabili, pur se le fonti storiche permettono di individuare anche in un passato più remoto eventi pestilenziali. Come noto, non sarebbe stato lʼunico nemico invisibile a insidiare lʼumanità: lebbra, colera, sifilide, vaiolo, tifo, malaria, fino alle “influenze” novecentesche (Spagnola e Asiatica) e ai più recenti virus contro i quali non è ancora possibile difendersi con vaccini specifici, sono diventati sgraditi compagni di strada con cui fare i conti ciclicamente.
La vicenda che, in atto, sta riguardando la popolazione del pianeta con intensità geograficamente differenziata ‒ per alcuni versi simile, ma non sovrapponibile a quella medievale, né per la sua eziologia (allora era un microbo, oggi un virus), né per numero di vittime ‒, ha generato una reviviscenza di tutte le epidemie del passato, quasi a volerci rassicurare sulla non novità dellʼevento e a ridimensionare e tenere a freno il delirio di onnipotenza di alcune élite umane, non più abituate a riflettere sulla proprie vulnerabilità fisica, economica e sociale.
Tuttavia, al di là delle differenze fattuali e spazio-temporali, almeno un paio di aspetti accomunano la peste trecentesca allʼodierna pandemia: il primo attiene al concetto di “nemico esterno”, cioè della contaminazione di cui “altri” sono responsabili, come già rilevato da Restifo con riferimento agli eventi del passato: «[…] per quanto cambino i modi e i passaggi, lʼesperienza e la comune osservazione insegnano che la malattia si diffonde col movimento delle persone e delle cose: che in ogni caso essa arriva dallʼesterno, da fuori»[2].
I mercanti stranieri che dal Levante o dalla Berberia introducevano in Sicilia spezie, lana grezza, tabacco, seta ottomana, uva passa, tinture vegetali, alle prime notizie dellʼinsorgere di una pestilenza, a Costantinopoli, a Ragusa (odierna Dubrovnik), a Tunisi o altrove, diventavano improvvisamente untori potenziali da sottoporre a quarantena insieme alle loro merci. A ruota, seguiva il crollo dei commerci marittimi ‒ ma non del contrabbando ‒ e lʼapprontamento di norme specifiche che limitavano ogni attività, incluse quelle di pesca. Così avvenne, per esempio, in occasione delle prime informazioni giunte in Sicilia nel 1835 dello sviluppo del colera in altri Stati, a seguito delle quali il Supremo Magistrato di Salute pubblica ‒ allora era presidente il marchese Arezzo e deputato il marchese Merlo ‒ emanò tempestivamente un regolamento nel quale si prevedeva la numerazione e lʼapposita registrazione di tutte le imbarcazioni, nonché lʼobbligo di rientro a terra dei pescatori entro le 24 ore [3].
Nel Regno di Napoli e nella sua capitale, fin dal primo ventennio del Cinquecento cominciarono ad adottarsi misure di protezione dalle epidemie, affidando a un “guardiano del porto” e alle guardie da lui dipendenti il compito di selezionare e filtrare le richieste di sbarco in relazione ai luoghi di provenienza; a lui spettava disporre chi destinare nei lazzaretti di mare (Nisida) e di terra (ospedale di San Gennaro extra-moenia), per la quarantena e per la spurga delle merci [4].
Analogamente, nella Repubblica di Genova, il cui commercio marittimo era da sempre rilevantissimo, accanto alle misure restrittive nei porti liguri si procedette allʼacquisizione di dati e notizie, tramite una rete capillare di informatori: «[…] lʼemergenza sanitaria ‒ scrive Paolo Calcagno ‒ rappresenta senzʼaltro un incentivo a conoscere più a fondo il territorio (interno ed esterno allo Stato). La paura determina un affinamento dei meccanismi di controllo, che poi possono essere sfruttati in unʼottica prettamente amministrativa»[5].
Come ci ricorda Rita Profeta, durante la peste che colpì Messina nel 1743, venne creato «[…] uno stringente apparato di controllo degli uomini e delle merci» con grande spiegamento di guardie lungo il litorale e «analogamente, il territorio venne anchʼesso parcellizzato in piccole unità “militarmente” controllate», per impedire a chiunque non fosse autorizzato di valicare i cordoni sanitari [6]. Singolare, tuttavia, che un bando emanato dallʼautorità lʼ8 luglio 1743 negasse il passaggio da una città allʼaltra, in particolare, a «zingari, cirauli, ciarlatani, romiti, pezzenti e vagabondi. […] Lʼemergenza epidemica è senza dubbio uno dei momenti in cui per i vertici politici si fanno più urgenti la necessità di sorvegliare da vicino la società e lʼinteresse a disciplinare i comportamenti degli individui»[7].
Nulla di nuovo, quindi, in ciò che è stato messo in atto dalla maggior parte dei governi al dilagare del Covid-19 e, paradossalmente, in alcuni casi con esiti persino peggiori che in passato. Quella del pericolo esterno, ha scritto Umberto Santino, «È una visione insieme falsa e rassicurante, razzista e codina, che consente di assolvere graziosamente se stessi, in primo luogo chi ha responsabilità pubbliche, e di condannare inappellabilmente gli altri. È lʼaltra faccia della peste-flagello-di-Dio, che richiede penitenze collettive (siamo tutti peccatori e quindi nessuno è responsabile) e invoca un salvatore, più spesso una salvatrice, dallʼalto. E passata lʼultima peste tutto ricomincia come prima, semmai con qualche festa in più (nel caso di Palermo, il festino)»[8].
Il secondo aspetto sembrerebbe essere ancora una volta lo squilibrio ecologico determinato dalla asimmetria tra sviluppo demografico, economico, tecnologico da una parte e condizioni igienico-sanitarie dallʼaltra, allʼinterno di uno stesso Stato, regione o megalopoli: «Gatti, cani, capre, galline e topi ‒ precisava Cipolla analizzando il mondo trecentesco ‒ vivevano mischiati insieme agli uomini in una comunanza che faceva di ogni casa non solo rurale ma anche cittadina una piccola arca di Noè. Le immondizie e i rifiuti degli uomini e degli animali si ammucchiavano nelle strade e nei cortili»[9].
Si dirà: ma quello era il Medioevo! Verissimo, ma sotto questo profilo, a distanza di secoli, anche nelle capitali e grandi città europee post rivoluzione industriale, il dislivello di condizioni igieniche da un quartiere allʼaltro risultava ancora macroscopico. Il medico ed economista Louis-René Villermé, un pioniere della medicina sociale, con i suoi studi compiuti tra gli anni Venti e Quaranta dellʼOttocento, rilevò con rigore scientifico le differenze di mortalità per colera tra i quartieri ricchi e quelli poveri di Parigi [10]. In una relazione sulle condizioni sanitarie di Londra del 1854 si evidenziava come nei quartieri centrali e orientali della città (East End) non fossero rare le coabitazioni da tre a cinque famiglie in un monovano di una decina di metri quadri, «in unʼintimità promiscua come quella di una mandria» [11]. Bisognerà attendere il 1862, con il piano dellʼarchitetto James Hobrecht, per porre fine alla grave situazione igienico-sanitaria della città di Berlino con lʼavvio dei lavori di realizzazione della rete fognaria [12]. E non andava molto meglio nella “felicissima” Palermo tra Otto e Novecento dove i quartieri della città vecchia erano disseminati di tuguri privi di luce e aria, tra viottoli con liquami a cielo aperto, soprattutto nel rione dellʼAlbergheria [13].
In occasione dellʼennesima epidemia di colera sviluppatasi nel 1885, la rabbia popolare diede corpo anche alla caccia allʼuntore:
«Se da una parte ‒ notava il professor Salvatore Rao ‒ dobbiamo deplorare quella stampa esagerata che volle far credere al mondo, che per un momento la Sicilia, e specialmente Palermo, furono in preda all’anarchia prodotta dai pregiudizi popolari, non possiamo disconoscere il fatto gravissimo, che il nostro popolino, ritiene il Colera un veleno gettato da una mano prezzolata dal governo. […] Laonde questo Comitato non potea sfuggire al principale argomento per combattere l’inoltrarsi della malattia nefasta. L’Igiene. Nella sua prima visita dovette convincersi che le immondizie nei vicoli nei cortili e i letamai adiacenti alle case, erano il principal fomite [causa] d’infezione e un pericolo perenne per la pubblica salute, quindi s’affrettò ad ordinare uno sgombro di tutti i depositi di concime in vicinanza dell’abitato e a domandare una squadra di spazzini per ottenere una pulizia stradale adeguata alla circostanza»[14].
Quando nel 1912 tre autorevoli e prestigiosi professionisti ‒ lʼingegnere Achille Albanese, il medico fisiologo e farmacologo professor Vincenzo Cervello e il medico patologo professor Giovanni Argento ‒ ebbero incarico dal comune di Palermo di redigere una relazione sulle borgate cittadine, osservarono nelle considerazioni conclusive:
«[…] ci si permetta di mettere in rilievo, da nostra parte, il doloroso spettacolo di lesa igiene, e di qualificare con una parola sintetica o scultorea il come si trovano ridotte queste amene contrade, e cioè una vera fogna. Ovunque rigagnoli di acque melmose; stagni più o meno estesi di materie di rifiuto; canali luridi pieni di sporcizie e dove si versano liberamente, in pieno secolo ventesimo, i vasi pieni di orine e di feci; condotti di acqua scoperchiati, dove liberamente si usa, e dove si lavano biancherie sporche; fetore intenso da gas aromatici, specialmente nocivi ai poveri commoranti [abitanti] presso questi serbatoi stagni immondi, sporchi melmosi, pestilenziali. E di contro implorazioni vive dei borghigiani, oppressi dall’avvilente fetore e preoccupati di ammalare e di morire anzitempo, e disillusi per l’insuccesso dei reclami, per ritenersi abbandonati dal Municipio nella cura della nettezza delle vie, della conveniente alimentazione idrica, della viabilità, della indefessa e stabile assistenza medico-chirurgica»[15].
Sarebbe, quindi, facile trovare delle analogie con i 3.600 mercati popolari di Wuhan o ai tanti altri assai diffusi nellʼarea asiatica, nei quali vige una commistione di popolazione e animali vivi ‒ selvatici e non ‒ carni macellate, insetti, pesci, cibi crudi o fritti, in spazi talvolta angusti, dove si creano le condizioni ideali per la propagazione di agenti patogeni. Peraltro, più gli scienziati procedono nella ricerca delle origini del Covid-19 e più si aggroviglia la questione. Ma non occorre colpevolizzare più del dovuto quei luoghi di una cultura del cibo “diversa” dalla nostra, per intercettare gli squilibri di cui dobbiamo preoccuparci veramente, che sono principalmente due.
In primo luogo, la questione ambientale: faremmo bene a riflettere sul fatto che prima della comparsa degli esseri umani, i batteri e i virus erano già residenti della Terra e, conseguentemente, dal loro punto di vista, siamo noi gli ospiti divenuti sempre più ingombranti e modificatori dellʼhabitat comune. I virus possono uccidere, ma lʼimprevidenza e gli errori umani precostituiscono le stragi di massa. Da anni i climatologi denunciano i rischi crescenti e sollecitano lʼadozione più rapida di politiche industriali e ambientali profondamente diverse, se si vogliono risparmiare catastrofi apocalittiche alle prossime generazioni, e sottolineano come non sia a rischio la vita del pianeta ma la nostra specie. È bastato il blocco forzato dellʼapparato produttivo per avere conferma di quanto sia tutta umana la responsabilità dellʼinquinamento atmosferico, acustico e delle acque e di quanto sia criminale incenerire la foresta amazzonica per favorire gli industriali della soia, continuare a depauperare le risorse del continente africano per produrre miliardi di smartphone e avere riattivato le miniere di carbone americane. È stato il test più inaspettato e indesiderato che si potesse organizzare per cogliere le differenze rispetto a “prima”.
In secondo luogo, la questione sociale. Probabilmente le periferie e i quartieri ghetto di alcune capitali europee e africane vincono ai punti la gara della salubrità con i mercati cinesi; ma gli accampamenti improvvisati di cartone e lamiera dove in Italia e nel mondo sopravvivono, tra batteri, blatte e topi, milioni di migranti, di nuovi schiavi e di senzatetto costretti a dormire ai confini di nuovi muri, di chilometriche barriere di filo spinato, per strada, nelle panchine o nei sottopassaggi, non sono forse la prova evidente di una patologia economica divenuta ormai endemica? Diciamo allora che ad alcune tragedie sociali ci si è fatto il callo, fino a rimanere indifferenti, anche se mietono milioni di vittime; per quelle originate da virus ignoti (HIV, Ebola, Coronavirus ecc.), invece, che colpiscono preliminarmente e in modo diretto la sfera profonda del nostro subconscio, dove alberga la paura di morire ‒ senza neppure essere stati infettati ‒ non cʼè assuefazione e, nei Paesi opulenti, ci si protegge, per esempio, facendo ricorso agli psicofarmaci o allʼalimentazione compulsiva o, più grossolanamente, negando lʼesistenza del problema tout court e teorizzando complotti. Chiedere della luna e guardare il dito di chi la indica non denota intelligenza.
Lasciamo che siano gli infettivologi, gli epidemiologi e i servizi di Intelligence a dipanare il mistero se il virus sia passato da un pipistrello a un uomo, se sia “evaso” da un laboratorio segreto o se sia stato mandato in giro appositamente da qualche scienziato folle. Puntiamo, invece, la nostra attenzione sulla voragine delle disuguaglianze sociali estreme che si registrano in tutti i continenti, generate da una concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta cerchia di soggetti e su come le democrazie occidentali ‒ sottoposte a questo severo test di credibilità e di tenuta del consenso popolare ‒ pensino di sopravvivere senza porvi rimedio. La pandemia non deve essere utilizzata come arma di distrazione di massa. Sono in gioco le democrazie che rischiano di collassare per deficit di diritti e di libertà.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Carlo Maria Cipolla, Storia economica dellʼEuropa pre-industriale, il Mulino, Bologna 1974: 208.
[2] Giuseppe Restifo, Le ultime piaghe. Le pesti nel Mediterraneo (1720-1820), Selene, Milano 1994: 54.
[3] Istruzioni per la pesca, Gabinetto Tipografico all’insegna di Meli, Palermo 1835, pp. non numerate, artt. 1 e 3.
[4] Raffaella Salvemini, A tutela della salute e del commercio nel Mediterraneo: la Sanità marittima nel Mezzogiorno pre-unitario, in Istituzioni e traffici nel Mediterraneo tra età antica e crescita moderna, a cura di Raffaella Salvemini, Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo, Napoli 2009: 261-262.
[5] Paolo Calcagno, Pestilenze e controllo nel territorio della Repubblica di Genova, in M. Berruti, La peste a Finale (1631-1632). Diffusione e incidenza di una epidemia nella Liguria di antico regime, Philobiblon, Ventimiglia 2012: 132.
[6] Rita Profeta, Messina, 1743: alcuni strumenti di controllo della circolazione degli uomini durante unʼepidemia di peste, www.lidentitadiclio.com, 8 marzo 2018.
[7] Ibidem.
[8] Umberto Santino, I giorni della peste. Il festino di Santa Rosalia tra mito e spettacolo, Di Girolamo, Trapani 2006: 42; si veda anche Rita Profeta, La lotta alla peste tra fede e scienza: la devozione a Santa Rosalia durante lʼepidemia messinese del 1743, www.lidentitadiclio.com, 26 luglio 2018.
[9] Carlo Maria Cipolla, Storia economica cit.: 207.
[10] Maurizio Esposito, Salute, malattie croniche e disuguaglianze sociali. Riflessioni sociologiche a partire dalle teorie della Social Selection e della Social Causation, in Disuguaglianze sociali in Sanità, a cura di Costantino Cipolla, FrancoAngeli, Milano 2013: 182.
[11] John Simon, Relazione sulle condizioni sanitarie della città di Londra del 1854, cit. in A. Briggs, Storia sociale dellʼInghilterra. Dalla Preistoria ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1993: 303-304.
[12] Maria Lodovica Delendi, Il progetto di paesaggio come dispositivo terapeutico, Gangemi, Roma 2015: 67.
[13] Orazio Cancila, Palermo, Laterza, Roma-Bari 1988: 297-312.
[14] Comitato d’assistenza pubblica in Acquasanta durante l’epidemia colerica del 1885. Relazione del Prof. S. Rao Segretario, Municipio di Palermo, Tip. S. Bizzarrilli, Palermo 1885: 3-7.
[15] Relazione della Commissione Speciale Sanitaria all’On. Sindaco di Palermo, Stabilimento d’Arti Grafiche A. Giannitrapani, Palermo 1912: 61-62.
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: La rivoluzione di latta. Breve storia della pesca e dell’industria del tonno nella Favignana dei Florio (Torri del vento 2013); L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800 (Torri del vento 2015); Sicilia del vino nell’800 (Palermo University Press 2019).
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