il centro in periferia
di Carlotta Colombatto
Le postazioni svuotate, le porte chiuse e l’interruzione delle chiacchiere allegre con i visitatori. Il telefono muto, i laboratori didattici rimandati, il silenzio delle voci dei collaboratori nelle sale. Il Museo Regionale dell’Emigrazione, come tutti i musei italiani, durante i mesi di quarantena ha chiuso al pubblico. L’emergenza sanitaria legata alla pandemia da Coronavirus e i conseguenti provvedimenti governativi ci hanno costretto a rivedere scadenze, attività, anche luogo di lavoro.
L’operatività dell’équipe, tuttavia, non si è fermata. Abbiamo preso i nostri effetti personali, ci siamo salutati (mantenendo il metro di distanza) e trasferiti a casa, che per un po’ di tempo è diventata il nostro ufficio. Dalle abitazioni private abbiamo continuato a portare avanti i progetti di divulgazione culturale che rientrano all’interno della nostra mission, provando a reinventarli per tararli sulla situazione contingente.
Preoccupati e sgomenti abbiamo assistito, come tutti, non solo alla fragilità del nostro sistema sanitario e alle criticità del modello di sviluppo neoliberista, ma anche al collasso del comparto culturale e turistico nel quale operiamo. La paura per il futuro si intreccia con il dramma del lutto per coloro che non sono sopravvissuti. Il contesto in cui siamo inseriti è tale da sottolineare una fragilità non solo individuale e collettiva, queste ultime rimosse dai nostri immaginari, ma anche propria di una “comunità di mestiere”. La risposta che abbiamo provato a dare, come équipe di lavoro, è stato un percorso resiliente e inclusivo, volto a interrogarsi sul ruolo del museo come ente proattivo sul territorio e vicino ai bisogni contemporanei della comunità di riferimento. Si tratta di progetti aperti e in fieri, situati all’interno di un comparto produttivo molto provato, dei quali chi scrive prova a fornire una serie di coordinate nel presente contributo.
Enzala
Alcune letture antropologiche contemporanee suggeriscono di pensare al momento contingente, al diffondersi della pandemia causata dal Coronavirus, non tanto, non solo come a un’emergenza o a uno stato di eccezione. Si tratta di termini, questi, che indicano un periodo, possibilmente breve e circoscritto, concluso il quale si spera di tornare alla normalità, di ripristinare la situazione precedente.
Se molti si interrogano su quanto sia effettivamente possibile o proficua la riproposizione delle nostre abitudini del recente passato, per tentare di riguadagnarle con una consapevolezza maggiore si potrebbe interpretare il periodo che stiamo vivendo attraverso il concetto di “sospensione”. Si tratta di un atteggiamento che ritroviamo in molte culture Altre quando, a seguito di disastri ambientali, il diffondersi di malattie, la morte di un capo politico, si autoimpongono momenti più o meno lunghi di arresto di gran parte delle attività produttive e sociali.
I popoli polinesiani, ad esempio, sono dei sostenitori di questi periodi di sospensione. Una delle parole delle lingue locali che è filtrata anche in Occidente è “tapu”, da noi pronunciata “tabù”, che ha un significato collegato a un elemento proibito, sacro, vietato. In Polinesia il termine ha una forte connotazione ecologica ed è strettamente connesso alle persone dei capi e ai limiti che essi impongono sulle coltivazioni e il disboscamento, più in generale sull’utilizzo di alcuni mezzi di sostentamento. Per queste comunità insulari, infatti, il rapporto tra presenza umana e risorse ambientali è una dimensione molto chiara, presente nelle forme di ritualità e resa tangibile dai cicloni che di quando in quando si abbattono sui territori (Favole, Remotti, 2020).
Anche tra i BaNande del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, esistevano periodi di sospensione rituale delle attività produttive e sociali. Considerati grandi disboscatori di foresta e coltivatori, i BaNande rivendicano con orgoglio questa dimensione economica, che considerano come caratteristica della loro comunità in opposizione alle popolazioni confinanti. Una forma di antropizzazione del territorio che è vista anche come una sorta di “progresso”. Prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, tuttavia, i BaNande mettevano in pratica periodi di sospensione di qualsiasi tipo di attività, comprese quelle agricole e di taglio degli alberi considerate così rilevanti, alla morte dei capi, coloro cioè che dirigevano, incitavano e controllavano le dimensioni socio-produttive. Una sorta di arresto forzato che era considerato come un periodo terribile, buio, nel quale era forte il timore che si manifestasse la paura più grande dei BaNande, ovvero la carestia, l’Enzala (Remotti, 2011).
Enzala, quindi, la fame, una parola dal sapore esotico che tuttavia ha la capacità di avvicinare questa comunità all’esperienza che stiamo vivendo in Italia. “Fame”, infatti, è un termine presente anche nei discorsi di molti nostri politici contemporanei quando sottolineando i risvolti economici dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19. Somiglianze e differenze, dunque, tra le “sospensioni” degli Altri e questa nostra “sospensione” non voluta portata dal Coronavirus, un’analisi delle quali potrebbe forse esserci utile nella congiuntura presente. Tanto per cominciare, popoli Altri utilizzano la marginalità e la liminarità delle sospensioni per porre in essere riflessioni di ampio respiro sul contesto sociale nel quale operano. Un suggerimento da cogliere e sul quale ritorno più avanti, per tentare di guardare in modo critico la direzione nella quale stavamo avanzando, anche nel comparto della cultura.
Se di valutazioni si può, dunque, e si deve parlare, una delle prime comparse sui mezzi di informazione ha riguardato l’economia del nostro Paese. Per gli specialisti del settore la pandemia ha assunto i contorni di una guerra per la sua capacità di arrestare non solo la domanda di consumo, ma anche l’offerta nella produzione e nei servizi: il blocco del lavoro che ha lasciato attivi solo coloro che erano indispensabili per la sopravvivenza dei vivi, le prospettive di disoccupazione e di crisi economica eccezionale che ci minacciano. Il mondo della cultura e del turismo ben si colloca all’interno di questo triste scenario. I dati di Confcommercio prevedono un crollo verticale di presenze, pernottamenti, visite ai luoghi di cultura, con una perdita nel settore del 60% degli introiti rispetto al 2019. Anche il “bonus vacanze” appare come un modo per correre ai ripari e arginare il tracollo di un settore che rappresenta il 13% del PIL nazionale (Canavesi 2020).
Chiaramente i musei sono strettamente interconnessi con la dimensione turistica europea e globale, dunque appaiono duramente colpiti dalla crisi del comparto. Sono numerose le statistiche promosse da Enti diversi che fanno il punto su questa situazione. A livello europeo i dati raccolti sottolineano come, se quattro turisti su dieci scelgono la propria destinazione sulla base dell’offerta culturale, la diminuzione degli introiti dei musei derivanti dai biglietti, gli shop e i caffè interni rischia di essere a lungo termine. I due mesi di chiusura forzata per alcuni hanno significato perdite di diverse centinaia di migliaia di euro, per un totale che si aggira intorno al 75-80% del totale del periodo. Se per la grande maggioranza dei musei europei l’arresto forzato delle aperture non ha comportato il licenziamento del personale, tre realtà su dieci hanno dovuto interrompere i contratti con i lavoratori freelance e tre su cinque hanno completamente bloccato i programmi di volontariato [1].
Se, al fine di fare un focus più preciso sul territorio nel quale opera il Museo dell’Emigrazione, teniamo in considerazione il Piemonte, il quadro non si discosta da quello precedentemente delineato. Diverse analisi hanno sottolineato la débâcle del settore turismo durante i mesi di forzata reclusione domestica e arresto delle attività. Per il periodo compreso tra il 2 marzo e il 3 aprile, l’Osservatorio Culturale del Piemonte ha messo in luce il rinvio o l’annullamento definitivo di quasi 7 mila spettacoli ed eventi e di circa 8500 attività con le scuole, più di 600 mila sono stati i mancati ingressi ai musei, le perdite economiche si aggirano intorno ai 15,5 milioni di euro. Se per il 30% queste ultime si riferiscono ai musei e ai beni culturali, non si limitano ai mancati incassi della biglietteria, ma comprendono le stime del crollo delle entrate dovute ad affitti, caffetteria e bookshop, eventi extra, contratti di fornitura. Dalla medesima indagine è emerso anche come solo il 33% delle realtà del comparto culturale che hanno risposto al sondaggio ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e alle misure di sostegno al reddito, circa il 15% dei lavoratori ne è rimasto completamente escluso [2].
Il Museo Regionale dell’Emigrazione di Frossasco (TO) si allinea allo scenario rimarcato. Tutti gli eventi previsti nei mesi di marzo, aprile, maggio e giugno sono stati rimandati a data da destinarsi, in attesa di comprendere quali e se vi saranno nuove modalità con cui accogliere il pubblico. La progettazione culturale è in fase di ridefinizione, nell’ottica di promuoverne una parte online e alcuni eventi e mostre temporanee negli spazi esterni adiacenti alla struttura. La didattica museale, i laboratori con le scolaresche sono, per il momento, congelati. Anche in questo caso l’équipe è impegnata in un’ottica di riproposizione delle attività con le scuole online o all’aperto, secondo modalità che sono attualmente in fase di analisi. Tuttavia, la collaborazione con il gruppo di mediatori culturali con cui si gestiscono e curano questo tipo di attività è sospesa. In relazione al personale interno, allo stato attuale nessuno ha perso il lavoro e sono stati portati avanti sia i tirocini curricolari, sia la collaborazione con il Servizio Civile. Per evitare assembramenti all’interno degli spazi e salvaguardare la fruizione e il lavoro in sicurezza, sono però stati interrotti i progetti con i numerosi volontari che frequentavano la struttura.
Emerge, nella discussione pubblica e in quella mediatica, un’attenzione al sociale, sebbene articolata in forme diverse. Per effetto della pandemia globale sembra riapparire la centralità della classe sociale, ad esempio: la dimensione del lavoro – chi l’ha perduto, chi ha potuto svolgerlo comodamente da casa, chi ha dovuto andarci fisicamente – ha assunto un peso di non secondaria importanza nel dibattito pubblico. Il comparto del turismo e della cultura non fa eccezione e, in questi mesi di lockdown, la classe eterogenea dei lavoratori ha visto crescere le discrepanze tra coloro che hanno mantenuto i propri diritti e chi invece li ha visti disgregarsi. Le conseguenze economiche della pandemia sono materia quotidiana di dibattito ma, indipendentemente dai punti di vista, la miseria e le disuguaglianze prodotte non riescono a passare inosservate.
L’auspicio è che l’attuale centralità del lavoro nella discussione mediatica si mantenga tale anche nel prossimo futuro. Che diventi l’occasione per un ripensamento serio e globale delle condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici, strumento non di una ri-crescita, ma di una ri-nascita che rallenti la corsa e scriva nuove regole in grado di attenuare la vulnerabilità. Un augurio che ha tutte le caratteristiche di un imperativo morale, analogamente al rispetto delle regole.
Mauro M. e la riemersione del sociale
Assistiamo a una riemersione del sociale anche dal punto di vista tecnico-istituzionale – pensiamo agli interrogativi connessi allo smantellamento della sanità pubblica e alla produzione dello scarto di funzionamento tra i sistemi sanitari regionali – oppure, in una dimensione ecologico-politica, le forme di produzione capitalistica del cibo e la connessione presente tra questi e l’origine di nuove malattie è sottolineato da più parti (Palumbo, 2020).
I Musei sono stati rapidi e propositivi nel loro far fronte al dilagare della pandemia e alla forzata chiusura. Se di riemersione del sociale si può parlare, nel comparto della cultura molte realtà espositive europee hanno risposto modificando i loro progetti al fine di intercettare i bisogni della comunità di riferimento in relazione alla situazione contingente. Alcuni musei hanno fornito un contributo nell’acquisto di materiale medico, oppure hanno offerto agli ospedali mascherine e guanti. L’incremento della presenza online delle realtà culturali, resa possibile tramite un potenziamento dei progetti digitali da parte di quattro strutture su cinque, ha inteso concorrere alla riduzione dell’isolamento e della solitudine. A riguardo, un’attenzione marcata è stata rivolta nei confronti dei più piccoli, per i quali sono fioriti giochi e materiale didattico in rete. Molti musei, inoltre, hanno condotto progetti di ricerca e di raccolta sull’emergenza sanitaria da COVID-19, chiedendo al proprio pubblico di condividere oggetti e storie connesse alla vita quotidiana esperita durante la quarantena.
Il Museo Regionale dell’Emigrazione si situa all’interno di questo contesto, nonostante le piccole dimensioni e la collocazione in un’area considerata marginale. Durante i mesi di chiusura obbligatoria l’équipe ha lavorato per permettere al pubblico di interagire con il proprio patrimonio, materiale e immateriale, nonostante l’obbligo, la necessità di restare a casa. Oggetti e documenti conservati e valorizzati dalla struttura, beni che raccontano delle mobilità umane in vario modo legate al territorio, sono stati periodicamente messi in risalto sui canali social e sul sito internet. La comunicazione digitale è stata dunque implementata con progetti specifici connessi alla situazione contingente e volti non solo, non tanto a fornire un contributo alla necessità sentita da alcuni di riempire il tempo (forzatamente) a disposizione.
Le nuove proposte sono volte a potenziare l’orientamento inclusivo del Museo, in primo luogo al fine di allineare la funzione pubblica della struttura con le esigenze contemporanee dell’utenza. Le iniziative promosse si muovono nella direzione di includere e motivare i visitatori, tra i quali la comunità locale gioca un ruolo non secondario. Pensate come pratiche mirate alla collaborazione e alla partecipazione, le diverse progettualità intendono offrire agli interlocutori del Museo la possibilità di cooperare alle modalità espositive e comunicative realizzate. Si tratta dunque di processi aperti, che instaurando un rapporto dialogico e critico con i visitatori abituali e potenziali, hanno lo scopo di agevolare non solo lo sviluppo di dinamiche soggettive dell’apprendimento, ma anche la negoziazione di significati personali, utili a stabilire un rapporto di fiducia con il Museo e a offrire chiavi di accesso ad ulteriori proposte di natura culturale (Carrara, 2014).
In quest’ottica è nata la prima campagna di ricerca e di raccolta promossa dal Museo. Con “Storie di migrazione” abbiamo chiesto al nostro pubblico di inviare lettere e fotografie scannerizzate, brevi video, pagine scritte, insomma oggetti e documenti che raccontassero delle persone, delle loro famiglie, degli antenati. Il Museo era ed è alla ricerca di vicende migratorie che hanno interessato e interessano il Piemonte, memoria orale che confluirà nel patrimonio del Museo e sarà oggetto di mostre, pubblicazioni, conferenze. Durante quei momenti drammatici, nei quali il lutto per coloro che non sono sopravvissuti si accompagnava alla paura nei confronti del futuro, emergeva, anche per la stessa équipe del Museo, la volontà di riflettere su sé stessi e sulle cose che veramente contano all’interno di un percorso biografico, guardare in modo diverso lo spazio, approfittare del silenzio dell’ambiente esterno, rivalutare il tempo e custodire memorie per il futuro.
L’importanza del ricordo di momenti di vita considerati di particolare rilevanza, la volontà di creare un senso di comunità intorno al Museo e ai suoi progetti, sono stati il nesso che ha condotto alla maturazione della seconda proposta. Con “Confini. Ridisegniamo gli spazi al tempo del Coronavirus” il Museo dell’Emigrazione si propone di documentare la situazione contingente che stiamo vivendo, la pandemia da COVID-19, in quanto momento storico epocale, caratterizzato da risvolti sociali importanti. L’idea è quella di scattare una sorta di istantanea del momento presente, per capire come le persone e le comunità hanno affrontato la quarantena, quali provvedimenti sono stati presi anche a livello locale, qual è l’impatto sulle famiglie e le diverse generazioni.
La consapevolezza di stare vivendo uno dei momenti più drammatici che la nostra società si sia trovata ad affrontare dal secondo dopoguerra ad oggi è emersa, per molti, in modo graduale. All’inizio della quarantena, le informazioni veicolate dai media, incalzanti e per molti versi terrorizzanti, si mescolavano alle immagini fittizie e fantascientifiche esperite solo nei film o nella letteratura. All’inizio della quarantena il brusco e radicale mutamento delle nostre vite, la riformulazione delle abitudini quotidiane, era tale da creare una sorta di inaspettato e non voluto ibrido tra la quotidianità e un immaginario distopico (Rabbitto, 2020).
Per chi scrive, il momento di svolta nella direzione di una maggiore consapevolezza in tal senso è stato dettato dal confronto con Mauro M., una persona diversamente abile che ho in affido da parte dei Servizi Sociali. In un contesto di grandissimo timore per la propria salute, del resto già fragile per motivi pregressi, Mauro ha scelto di inquadrare la mascherina donatagli dal Comune. L’ “opera” è chiaramente visibile proprio all’ingresso di casa sua, il bianco dell’oggetto che si intona con la cornice e con la “didascalia”, un pezzo della lettera di accompagnamento opportunamente ritagliata, entrambe dello stesso colore. L’osservazione del manufatto e la scelta alla base del gesto hanno spinto chi scrive a mutuare l’iniziativa per inserirla all’interno della progettualità del Museo. Molto prima, confesso, che il confronto con la realtà museale internazionale mi facesse notare la proposizione di progetti analoghi.
Al fine di lavorare in stretta connessione con le tematiche proprie della mission del Museo, l’équipe ha scelto di documentare la pandemia a partire dal tema dei confini. Questi ultimi, soprattutto a livello nazionale, se erano attraversati durante il periodo della Grande Emigrazione e sono tuttora solcati dai migranti contemporanei, sono tracciati e rimarcati, reinventati anche, dal COVID-19. Il Coronavirus, in maniera analoga a tutte le altre malattie, ha mostrato di non conoscere confini: si è spostato attraversando oceani e ha azzerato qualsiasi tipo di appartenenza rendendoci tutti sue vittime potenziali. Allo stesso tempo, tuttavia, abbiamo vissuto in un contesto in cui il trattato di Schengen sembrava essere un lontano ricordo, le barriere tra i Paesi europei avevano assunto le medesime connotazioni di cinquant’anni fa. Senza andare così lontano, i confini regionali e comunali, che si attraversavano senza neanche essere oggetto di riflessione, sono apparsi per mesi come delle vere e proprie barriere. Tra queste, infine, ve n’erano di nuove, inusuali, come quelle della porta di casa o del nostro balcone.
Il Museo ha deciso di documentare la pandemia promuovendo il coinvolgimento dei cittadini, considerandoli non solo destinatari del progetto, ma anche e soprattutto protagonisti attivi. Abbiamo lanciato una campagna di comunicazione mirata per chiedere al nostro pubblico di mandarci una riflessione, una testimonianza, una foto, un video, finanche un oggetto, rispetto a come hanno vissuto la pandemia, dotando di senso il confinamento domestico e le restrizioni imposte. La campagna di ricerca e di raccolta ha previsto un breve sondaggio il cui scopo consisteva nel fornire una griglia grazie alla quale articolare riflessioni, pensieri, suggestioni.
Liminarità
Il Ministro dei Beni Culturali e del Turismo, in relazione alle iniziative portate avanti dai musei durante il lockdown, ha parlato di “esplosione di creatività”, in questo sottolineando il forte impulso presente nonostante lo stato di necessità. In effetti numerose sono state le sperimentazioni realizzate: dalle visite guidate on line ai tour virtuali, dalle mostre accessibili sui siti agli archivi aperti. Le forme di fruizione “a distanza” del patrimonio culturale hanno sicuramente assunto un significato diverso, interpretabile anche nei termini di una nuova domanda di consumo culturale slegata dall’epidemia. In quest’ottica, Dario Franceschini ha anche annunciato la creazione di una piattaforma volta a consentire la fruizione online dei luoghi della cultura italiani, dietro compenso. Una proposta che affonda le sue radici nella situazione contingente ma che intende anche guardare al futuro.
Certo nel presente si impone la necessità di ripensare il nostro modo di viaggiare e di fruire il patrimonio culturale e paesaggistico del Paese, guardando al multimediale ma anche considerandolo (solo) come una delle risorse possibili. Il distanziamento sociale obbliga alla programmazione di un nuovo approccio che metta fine a politiche di sfruttamento turistico del territorio improntate più alla quantità di persone e proposte, piuttosto che alla qualità dei percorsi e alla tutela delle destinazioni.
La pandemia da COVID-19 ha messo ulteriormente in risalto la marginalità delle nostre istituzioni culturali, già da tempo provate da una gestione improntata a un economicismo imperante. Parlare di ripartenza vuol dire dunque non già capitalizzare l’effimero, quanto investire sul lavoro, assicurando continuità alle istituzioni e protezione a chi deve garantirne il buon andamento. La progettazione dell’Italia che vorremmo non può non passare attraverso la proposizione di una serie di interrogativi legati alle criticità del sostentamento della cultura attraverso gli introiti di cassa, al valore del paesaggio come contenitore di memorie, alle nuove strade da intraprendere per la ricerca scientifica, tecnologica, umanistica (Settis, 2020).
Alcune recenti riflessioni hanno posto in relazione l’attuale dimensione di sospensione che stiamo vivendo con i rituali di iniziazione, diffusi (anche) nelle culture Altre di cui si sono occupati gli antropologi. Ciò che pare connettere le due esperienze è il comune carattere di liminarità, esperita spesso come privazione e sofferenza, ma anche e (forse) soprattutto come interruzione delle attività abituali e allontanamento dalla socialità ordinaria. Nei rituali di iniziazione, i soggetti liminali appaiono rimossi dalla loro precedente posizione sociale, costretti a mutare il loro abituale modo di agire e di pensare, in questo costretti a una profonda riflessione sul contesto sociale in cui sono inseriti. La fase di liminalità appare dunque come un importante momento di ragionamento [3].
La situazione di crisi in cui versa il comparto della cultura presenta l’occasione, rischiosa quanto straordinaria, di ripensare il settore. Una fase liminale, anche in questo caso, per progettare una ripartenza ponderata, forse con tempi lunghi, che metta a fuoco la centralità della cultura non solo nell’economia, ma anche nella vita sociale e nella salute delle comunità. Un nuovo linguaggio volto a sottolineare il servizio pubblico offerto da musei e luoghi della cultura, presidi territoriali e luoghi di contatto e confronto sulle problematiche della contemporaneità.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Si veda « Survey on the impact of the COVID-19 situation on museums in Europe. Final Report», Network of European Museum Organisation.
[2] Si vedano i dati dell’Osservatorio Culturale del Piemonte www.ocp.piemonte.it
[3] Si veda, ad esempio, il post di Paolo Apolito comparso sulla sua Pagina Facebook il 25 marzo e titolato “Iniziazione e coronavirus”.
Riferimenti bibliografici
Aa.Vv., Survey on the impact of the COVID-19 situation on museums in Europe. Final Report, Network of European Museum Organisation.
Bodo S., Cifarelli M.R., (a cura di), Quando la cultura fa la differenza. Patrimonio, arti e media nella società multiculturale, Roma, Meltemi, 2006.
Canavesi V., “Il turismo in Italia: quale futuro?”, Storie virali, 14 maggio 2020, www.treccani.it.
Carrara E., “Verso un museo inclusivo: presupposti e prospettive in risposta al cambiamento sociale”, Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, IX (2014): 169-188.
Palumbo B., “Ibridi”, Storie virali, 23 marzo 2020, www.treccani.it.
Rabbito A., “Le immagini, l’infodemia e l’incertezza”, Storie virali, 5 maggio 2020, www.treccani.it.
Remotti F., Favole A., “Una quaresima che ci mostra quanto sia folle la nostra corsa”, La Lettura n. 434, Corriere della sera, 22 marzo 2020.
Remotti F., Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Roma-Bari, Laterza, 2011.
Settis S., “Ripartire dalla cultura”, Storie virali, 26 aprile 2020, www.treccani.it.
www.ocp.piemonte.it
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Carlotta Colombatto, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Scienze Antropologiche presso l’Università degli Studi di Torino, dove ha svolto ricerche sui musei etnografici piemontesi. Attualmente è la conservatrice del Museo Regionale dell’Emigrazione, con sede a Frossasco (TO). Colombatto si è laureata con lode in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Torino. Successivamente ha conseguito il diploma presso la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici promossa dall’Università degli Studi di Perugia. Ha lavorato ad alcuni progetti di ricerca tra cui “Musei etnografici e beni DEA in Provincia di Cuneo. Dall’identità alla creatività”, dell’Università di Torino, e l’Interreg “E.CH.I. Etnografie italo-svizzere per la valorizzazione del patrimonio immateriale”, della Regione Piemonte.
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