il centro in periferia
di Mauro Van Aken
Il lockdown, il distanziamento “sociale” (ma che giusta traduzione da social distancing vorrebbe distanziamento “fisico”) e la vita sociale nella pandemia covid19 sono state la prima esperienza traumatica e collettiva dell’Antropocene, non sul pianeta, ma qui “a casa nostra”: lo scandalo è che abbia colpito anche e soprattutto, attraverso i gangli e le reti dell’economia globale, i centri della modernità neoliberale. Avevano dimenticato da tempo le fragilità e le interdipendenze delle relazioni ambientali, le contraddizioni implicite da decenni delle forme di crescita estrattivista come se fossimo fuori dal mondo o dall’ambiente; ciò che pervade già da decenni (in forme virali ma anche atmosferiche o di disponibilità di acqua, ad esempio) i sud e nord del mondo, si è manifestato platealmente da noi, che lo pensavamo lontano.
Ciò ha riportato un’attenzione civile, e accademica, alle questioni ambientali e alle risposte sociali e politiche a questi “eventi estremi” o forme di cambiamento ambientale accelerato, da sempre connessi alle dinamiche di cambiamento climatico anche nelle emersioni, ed emergenze, virali. La crisi si manifesta innanzitutto come ecologica, e molteplici rappresentazioni di ambiente tornano nello spazio pubblico, nelle narrative politiche e del policy making, spesso in un “rinverdimento” delle retoriche e meno delle pratiche.
Sono un antropologo che 25 anni fa ha scelto di vivere nel rurale italiano, in Oltrepò Pavese; ma son stato anche un vignaiolo che ha imparato da apprendista nei sistemi vitivinicoli semi-tradizionali, in sabbatico dalle vigne da più di un decennio per il lavoro accademico: braccia tolte all’agricoltura. La prospettiva quindi, nel guardare al rurale oggi è di chi ha fatto scelte di uscita dalle dimensioni metropolitane per ripensare, a partire dal proprio modo di abitare, di “costruire casa”, di consumare e dai legami familiari e collettivi nei territori, la centralità delle relazioni ambientali nei propri “stili di vita”, in sperimentazioni personali e collettivi.
Qui alcuni spunti quindi di ciò che è “emerso” nell’emergenza a partire dai contesti rurali e peri-urbani, che riassumo subito in una polarizzazione e drammatizzazione di credenze, stereotipi, strutture simboliche delle visioni urbane di natura che da decenni si sono già imposte anche nei contesti rurali.
Innanzitutto, per rurale, “campagna”, non intendo un opposto all’urbano, ma un misto di realtà di urbanizzazione della campagna (nei modelli di sviluppo, nelle forme di abitare e consumo, anche nell’inquinamento industriale dell’agricoltura), accanto allo spopolamento e abbandono decennale ormai delle aree interne: una campagna, frazioni e piccoli comuni abbandonati con la perdita di legami sociali o crescita della sfiducia sociale; ma assieme a questo contrasto, son presenti tante sperimentazioni individuali e collettive di costruzione comunitarie, faticose e spesso anche fallimentari, nel contesto più ampio della marginalizzazione di queste aree, un tempo centri portanti e vie logistiche tipiche dell’Appenino italiano (l’Italia è innanzitutto, anche nella sua storia, un Paese montano e collinare, culturalmente). Oggi sono il centro del dissesto idro-geologico, ma anche dello slittamento dei legami di fiducia sociale: prima è scivolata la popolazione nel dopoguerra, per diventare operai e impiegati nella modernità piatta della pianura padana, poi è iniziata a scivolare la terra e la tenuta del territorio.
Il lockdown ha polarizzato una dicotomia già esistente, tutta urbana nel modo di pensare la natura, tra dentro casa/fuori casa: tutta l’idea di natura per come si è costruita come cosmologia urbana (Van Aken, 2020) è pensata come campo distante, altro, potenzialmente minaccioso, e la casa borghese come un dentro che “filtra” e securizza le risorse ambientali che entrano come reti (acqua, aria, elettricità, merci cibo, etc..). Il fuori, nelle città, ma paradossalmente ancor più negli spazi della suburbia rurale, sono diventati off-limits nel lockdown all’italiana (guardare la comparazione con altri lockdown europei sull’utilizzo dell’ambiente, del “fuori” regolamentato ma incentivato, sul sito di Giap di wuming).
Alcuni esempi attorno a me: la multa al mio vicino ottantenne perché si recava al suo orto di produzione, appena fuori comune (tutto è fuori comune nel rurale); i neo-sceriffi del west italiani a controllare e vietare l’accesso alle carese, gli sterrati ormai poco frequentati nei decenni, per vagare nei boschi o tra vigneti da soli; il terrore sociale nei piccoli comuni con altoparlanti mattutini a ricordare di stare non a casa, ma blindati in casa, dove il fuori ambientale, meno facile in metropoli ma risorsa sociale (ed economica) in campagna, è stato criminalizzato in una chiara espressione degli attori politici incapaci di gestire le dimensioni di panico personale; io che ho rischiato una multa nel primo giorno di uscita legittima di fase 2 (quindi permesso ad uscire oltre i 200m. da casa), perché i miei abiti da camminata nei boschi non coincidevano con quelli di un corridore (i famosi jogger), ormai introiettata dai pubblici ufficiali, insieme agli accompagnatori di cani, come unica forma legittima e veritiera di spostamento comprovato (in un ribaltamento del jogger da untore massimo e menefreghista a divisa dello spostamento nel “fuori”); il “fuori” censurato ai bambini e famiglie, anche nel rurale, tanto che lo stesso piccolo comune ha riaperto il parchetto giochi solo il 4 Giugno per essere più realista del Re (mentre a Milano il parco Nord era tornato ad accogliere ritrovi e giochi, seppur distanziati); gli orti, pratica domestica e di intima conoscenza ambientale sono diventati illegali, lo scambio dei semi e di piantine (introvabili in Lombardia perché bandite al commercio) si è fatto sedizioso, ma risorsa cruciale nelle reti sociali locali (so di Comuni sulle Alpi che riprendendo un po’ di buon senso e autorevolezza, hanno semplicemente regolarizzato e normato la via per l’orto, tanto più per agricoltori anziani a primavera).
Questo fuori/dentro è alla base già del nostro modo fallimentare di pensare i rapporti ambientali, dove viviamo come se fossimo distanti, separati dall’ambiente come “fuori” e ci spaventiamo ogni volta nello scoprire che così non è, anzi, ne siamo sempre più interconnessi ma in forme distruttive. E non abbiamo più parole, cornici, metafore, come tutte le culture e le nostre storie locali hanno testimoniato, per definire le nostre relazioni con non-umani, che siano boschi, mammiferi, venti, montagne, e virus; perciò quando si ripresentano, questi terrorizzano perché arrivano come “disastro”, in-comprensibili e la gestione politica, soprattutto in Italia e anche nel rurale, ha amplificato questo terrore.
A ciò si è aggiunto un elemento nuovo, il nemico virale ma invisibile, aereo (ma quanto?), innominabile e indefinibile e quindi potenzialmente ubiquo, tanto che campagna e boschi pieni di vita non-umana, sono diventati off-limits per gli umani. Ma ciò ha fatto emergere il nostro rapporto dissociato con ciò che sta in aria, ciò che non si vede, che è il grande tema dell’impensabile dei cambiamenti climatici da un punto di vista sociale: le nostre credenze, sostituite nell’ultimo secolo su di una recente dissociazione tra ciò che sta a terra (più seria e tangibile) e ciò che sta nel cielo o per aria (irrazionale, secolarizzata e distaccata), una dissociazione particolare rispetto all’intimità e relazionalità che tante culture hanno mostrato vis-a-vis l’ambiente atmosferico da cui ogni comunità dipende.
Oggi la crisi arriva dal cielo, come dinamica macro del cambiamento climatico, ma anche micro via aria del virus. Non sappiamo più leggere il cielo, anche rispetto alle nostre emissioni climalteranti, ma non sappiamo più leggere gli attori non-umani a cui siamo interdipendenti, e che riemergono però come minacciosi a spaventarci (eppur, abbiamo tutti riscoperto che il 99% dei virus sono inermi o ci sono anche indispensabili, ci co-costruiscono assieme a batteri, microflora, etc..). Anche qui la “natura” fuori” si ripresenta come minaccia impensabile, ubiqua, da reprimere, mentre i saperi locali hanno sempre elaborato forme simboliche e rituali per definire ciò che non si vede, per delimitarlo, per comprenderlo e conferire significati anche ai limiti, e quindi risposte anche sociali ai rischi. I saperi esperti epidemiologici, e le letture terrorizzanti del politico e dell’amministrativo nei piccoli borghi, hanno sorvolato il senso comune dei saperi locali, nel fare una passeggiata in solitaria, nell’importanza di stare nell’ambiente a primavera, tanto più per il proprio sistema immunitario di bambini e anziani.
Un terzo e ultimo elemento emerso era già presente pre-covid: la perdita di spazi pubblici, di senso comunitario in legame con il luogo nel rurale, se non individualizzato nei confini-muri siepati delle residenze, e la loro traduzione in luoghi e rituali del consumo. I mercati all’aperto, le filiere corte, la vendita diretta, tutte esperienze che hanno mobilitato il locale nell’ultimo ventennio, sono stati vietati (non normati subito all’aria aperta) secondo la logica del fuori minaccioso-contagioso. Mentre la filiera lunga, intensiva e industriale della grande distribuzione non solo è stata promossa, ma è diventato l’unico spazio legittimo, forzato, “normale” e normato di assembramento. E se i rituali base dei momenti di passaggio, tra cui anche i funerali sono stati vietati (ma si sa che in Italia tanti preti hanno ufficiato lo stesso, illegalmente ma coscienziosamente, “in fede” e nel rispetto del distanziamento fisico), l’unico rituale collettivo che ha tenuto, ed è stato imposto è stato quello dei templi del consumo e delle merci. L’emergenza ha fatto emergere il rituale unico, legittimo e contraddittorio dell’uomo come consumatore deterritorializzato. Risulta evidente invece come tutte le filiere di mercati locali, di scambio alimentare, di gruppi di acquisto, di innovazione e ri-territorializzazione dell’economia solidale, come scambio anche comunitario e sociale, potevano facilmente essere normate sul locale, riconoscendo responsabilità e fiducia ai cittadini nelle dimensioni locali, ma invece son state le prime a saltare. Anche qui, è risaltata in modo lampante e drammatizzato, in un momento di emergenza, la lontananza dei modelli amministrativi attuali nel pensare e progettare le relazioni ambientali sul locale, oltre ad un generale greenwashing delle retoriche che ora si fa anche più forte; ma che sempre e troppo facilmente censurano e ostacolano, anche nei tempi ordinari, i saperi, le reti, il fare comunità nell’ambiente a partire dal locale nei contesti rurali.
In conclusione, l’emergenza covid ha fatto emergere, in una messa in scena drammatica e quindi anche generativa perché ne esalta le contraddizioni e può portare a discernere ciò che rimane in genere nascosto, un aspetto fondamentale, di cui le scienze e i saperi ci raccontano nel capire questi tempi di cambiamenti climatici: la drammatica mancanza di metafore, modelli, cornici, per comprendere la relazionalità, l’interdipendenza, la fragilità, l’intimità nelle nostre relazioni ambientali, tanto più nel rurale; un rurale già profondamente urbanizzato nelle dimensioni spaziali, ma soprattutto nei modelli di gestione e pianificazione (e abbandono) amministrativa e politica e nell’idea di “natura” che è stata imposta (come “magazzino”, “discarica”, o “spettacolo”, ma sempre un “fuori” distante). E ha mostrato come le forme di cambiamento sostenibile, basate sulla costruzione di reti sociali tra nativi o nuovi abitanti e migranti, sian state le più facilmente censurabili; ma queste hanno reagito seppur con fatica e sbaraglio, proprio a partire dagli spazi di autonomia che il rurale ancora offre, come legame meno mediato con le dinamiche ambientali, come consapevolezza dell’interconnessione con altri esseri viventi anche solo a partire dal microcosmo di un orto.
Tutto ciò mostra come il rurale, urbanizzato o in abbandono, offra ancora risorse centrali per pensare e attivare cambiamento sociale, in un’epoca dove è l’ambiente a cambiare più velocemente; permetta di rimettere al centro l’interdipendenza tra comunità locali e comunità ambientali (perché sì, come anche e non solo l’antropologia e altre popolazioni ci hanno mostrato, un bosco “pensa”, l’acqua agisce e disegna il territorio, i nostri vicinati son composti di uccelli migratori sempre più in difficoltà o api da cui dipendiamo), tessere economie circolari a partire dalla propria abitazione, dai vicinati reinventati. E queste restano le vere opzioni da sostenere l’economia locale, un’agricoltura ecosostenibile, un territorio e ambiente in crisi e in forte cambiamento, e anche, legami sociali di fiducia così cruciali, come insegnava Ernesto De Martino, per affrontare le dinamiche di “crisi di presenza”, che il covid19, ma anche i cambiamenti climatici, ci hanno ora ricordato.
La natura non è quel campo separato “fuori”, né quella dinamica caotica e matta del cambiamento oggi nel surriscaldamento climatico causato dai nostri gas climalteranti terra terra, ma è l’insieme di forze, processi, soggetti che ci co-costruiscono, nel locale, a cui siamo interdipendenti e come questo periodo stra-ordinario ha ben mostrato, chiedono finalmente un tempo di cura, e relazioni di cura reciproca. A ripartire anche dal rurale contemporaneo, poco idilliaco, molto sperimentale, certamente grande centro per ripensare il cambiamento sociale ed ambientale assieme in forme generative.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Riferimenti bibliografici
Ernesto De Martino, Il mondo magico, Einaudi, Torino 1948
Mauro Van Aken, Campati per aria, Eleuthera, Milano 2020
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Mauro Van Aken, vignaiolo per oltre un decennio, è professore associato in Antropologia Culturale presso l’Università Milano-Bicocca, dove si occupa principalmente di ricerca e didattica sulle culture dell’ambiente, sulle relazioni e i flussi di significati tra società, acqua e atmosfera, e sulle dinamiche culturali nella crisi climatica. Autore di numerosi saggi, ha tra l’altro pubblicato Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo (2008), La diversità dell’acqua (2012), con C. Fiamingo e L. Ciabarri, I conflitti per la terra. Tra accaparramento, consumo e accesso indisciplinato (2014), La natura come perturbante: relazioni e crisi tra uomo e ambiente (2017) e Coltivare cibo baladii in Palestina. Le politiche della natura, tra terra e aria (2018), Campati per aria (2020).
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