dialoghi oltre il virus
di Dario Inglese
Il 17 ottobre 2019 sono tornato a scuola, a quasi vent’anni dalla maturità. In maniera piuttosto inaspettata avevo ricevuto una convocazione per una supplenza d’Italiano e Storia in un istituto secondario di secondo grado che, senza pensarci due volte, accettai di buon grado. Il primo giorno lo ricordo nitidamente: la firma del contratto e la presa di servizio presso la sede centrale, il tragitto in autobus per raggiungere il lontanissimo plesso cui ero stato assegnato, l’ingresso immediato in aula, gli sguardi curiosi e penetranti degli alunni. Tutto talmente rapido da inibire qualsiasi riflessione e, cosa in fondo positiva, qualsiasi tensione. Quella sarebbe arrivata subito dopo aver varcato il cancello all’uscita.
Estrema periferia ovest di Milano. Istituto Professionale. Impiegai le prime settimane a cucirmi addosso una nuova identità da docente. Le mie precedenti esperienze lavorative mi furono parecchio utili perché avevano sollecitato le mie capacità relazionali (propensione al lavoro di squadra, gestione e supervisione di gruppi di lavoro), ma adesso ciò che mi veniva richiesto implicava un grado leggermente diverso di interazione: il piano didattico. Quattro classi – una prima, due seconde, una terza – l’impatto non fu affatto semplice e, soprattutto all’inizio della mia nuova esperienza, tornavo a casa ogni giorno con la fastidiosa sensazione di essere sballottato dagli eventi, più che guidarli. Il sistema-classe mi appariva come una bestia indisciplinata che andava dove voleva, indifferente ai miei goffi tentativi di governarla. Sperimentai immediatamente, infatti, cosa significasse perturbare un organismo in equilibrio: gli alunni avevano ormai assimilato le ore di italiano e storia a un tempo sospeso di “supplenza” e buona parte del mio lavoro iniziale rese necessario un certosino lavoro di ristrutturazione dello spazio in cui mi stavo intrufolando.
Gli approcci più disparati sembravano non funzionare. Così procedevo a tentoni, come chi si muove al buio e disegna una mappa dell’ambiente circostante grazie agli urti e agli scossoni: il dialogo, la durezza di fronte alle insubordinazioni più palesi, l’ascolto, le note sul registro, le lezioni frontali, quelle partecipate, l’abbattimento delle distanze (presi fin da subito l’abitudine di girare fra i banchi o di prendere posto accanto agli alunni più turbolenti), la costruzione (sovente inconscia e fonte di frustrazione a posteriori) di muri d’incomunicabilità, l’uso a mio vantaggio di smartphone e dispositivi digitali per catturare l’attenzione. La disperata ricerca di empatia.
Più andavo avanti con i miei esperimenti però, più mi rendevo conto che, per superare le difficoltà e sintonizzarmi sulle opportune lunghezze d’onde, ricorrevo a un approccio etnografico in bilico fra osservazione delle dinamiche interne alla classe (cui io stesso ero imbricato) e partecipazione mediata dal mio ruolo. Spesi così il primo periodo a notare comportamenti, pratiche e poetiche all’interno dell’aula: atti linguistici, interazioni, ruoli acquisiti ma quotidianamente (ri)negoziati, performance, ritualità, capitali sociali, giochi creativi e informali con le regole di buona condotta e tattiche di resistenza più o meno ostentate.
Insomma, parafrasando Fabio Dei (2001), portavo Bourdieu, Goffman e de Certeau in classe con me. Immaginare l’aula come un «campo» – con le sue idiosincrasie e le diverse agencies in azione – e me stesso come un intruso professionale alla ricerca del suo posto mi serviva allora a cogliere l’emersione dei significati in vista dell’istituzione di una relazione (umana e didattica) efficace. Ripensavo alle parole di Tim Ingold (2018) sull’apprendere ad apprendere e sul ruolo privilegiato dell’antropologia in questo processo, una disciplina in cui è difficile tracciare una netta distinzione fra soggetto ed oggetto della ricerca e che si situa lì dove i significati sono continuamente generati attraverso interazioni sociali. Un sapere immerso nel flusso della vita, cioè, dove i confini fra epistemologia ed ontologia sfumano fino ad annullarsi e dove non c’è più differenza fra osservazione e partecipazione perché ognuno dei due termini implica necessariamente l’altro.
La mia formazione, insomma, mi forniva tanti strumenti utili a dare un senso alla complessità del nuovo ambiente, anche se – come si suol dire – tra il dire e il fare c’era di mezzo tanto mare. Per quanto gli approcci pedagogici più innovativi e illuminati tendano a rivalutare la natura del rapporto docente-discente sottolineando opportunamente il reciproco scambio d’informazioni, esperienze e competenze, l’asimmetria costitutiva fra questi due poli li coinvolge giocoforza in un rapporto faticoso (e sempre sul punto di rompersi) che passa necessariamente dalla distinzione – inesauribile fonte di problemi epistemologici, pedagogici e relazionali – fra chi sta davanti e chi sta dietro la cattedra. Tutto ciò per dire che, come sempre accade all’interno di una comunità (e la classe è un particolare tipo di comunità), ciò che all’inizio sembrava anarchico e ingovernabile con il tempo finì col mostrare (anche) costanti e invarianti che mi aiutarono non poco, con tutte le difficoltà del caso e gli innumerevoli errori da parte mia, a calibrare gli sforzi rispetto alle diverse soggettività della classe.
Adesso ho una sensazione di déjà-vu. La cogliete anche voi? Quanto ho appena detto sembra proprio ricalcare (parodiare?) il classico processo di conoscenza antropologica, così come raccontato nei testi etnografici: dalla rappresentazione di un’alterità incomprensibile, all’ordine che l’antropologo-scienziato riesce ad impartire ad una materia apparentemente bruta. In effetti devo confessare di aver sempre adorato gli incipit delle monografie etnografiche: quelle vibranti pagine iniziali in cui l’antropologo, per dimostrare di essere stato veramente là, racconta il proprio esordio tra gli indigeni presentando un mondo lontano che si schiude lentamente al suo sguardo di straniero.
Spesso lo stile di queste affascinanti introduzioni è indistinguibile da quello di passi analoghi della letteratura di viaggio; esse, con la loro tensione e i loro artifici retorici, mostrano il gravoso compito toccato agli etnografi: produrre resoconti scientifici a partire da esperienze biografiche (Geertz 1990: 17). Come dimenticare l’arrivo di Malinowski fra i Trobriandesi, il viaggio in nave di Firth verso i Tikopia, il combattimento di galli clandestino che permise a Geertz di guadagnarsi la fiducia dei Balinesi, l’adozione di Lila Abu-Lughod tra i beduini egiziani che le aprì il mondo segreto delle donne locali? Proprio come in un romanzo, queste pagine dall’indubbio valore letterario conducono per mano il lettore alla scoperta di un universo nuovo: dapprima lo turbano sbattendogli in faccia l’esotismo più spinto (riuscirà mai Firth a studiare indigeni così turbolenti?); poi lo rassicurano (sì che ci riuscirà!) lasciando intendere quello che succederà nei capitoli successivi: la lenta, ma implacabile, comunicazione dei risultati della ricerca.
E invece non è questo il caso. Non solo perché a scuola, ovviamente, non conducevo alcuna ricerca. E nemmeno perché nell’indagine antropologica, come nella vita, ogni punto fermo è uno stop arbitrario, contingente e inevitabilmente momentaneo imposto al flusso degli eventi. Bensì perché a un certo punto mi sono ritrovato, come sessanta milioni di connazionali, in quarantena. Proprio così: quella che inizialmente sembrava una minaccia lontana, confinata all’estremo Oriente e troppo grande anche solo da immaginare, nel giro di un paio di settimane si era trasformata in una pandemia che rendeva necessarie forme estreme di profilassi e l’instaurazione di un rigido lockdown. Una serrata che stravolgeva le consolidate abitudini della gente e che costringeva buona parte del tessuto nazionale (almeno i più fortunati al suo interno) a improvvisare dal nulla, e con scarsa (sovente nulla) esperienza pregressa, strategie di smart working.
Anche la scuola italiana, ovviamente, figurava tra i settori più impattati dall’emergenza e, all’impossibilità di svolgere fisicamente le quotidiane attività nei giorni convulsi dell’arrivo di Covid-19, rispondeva approntando strumenti ad hoc riassumibili per comodità nell’acronimo DAD – “didattica a distanza”. Non un pacchetto di procedure standardizzate e calate dall’alto, bensì una quotidiana costruzione di pratiche che dall’avvio di marzo ha visto protagonisti diversi attori – docenti, discenti, dirigenti scolastici, genitori, ministri, sottosegretari e funzionari pubblici – alle prese con la necessità di non lasciare indietro nessuno e, al contempo, andare avanti con i programmi. Nonostante tutto.
A Milano, la città dove vivo da ormai dieci anni, la sospensione delle attività didattiche scattava in via precauzionale lunedì 24 febbraio 2020, immediatamente dopo le prime preoccupanti notizie in arrivo dai focolai lodigiani e veneti. La decisione, al di là dell’agitazione crescente, era motivata dall’imminenza del carnevale ambrosiano che avrebbe comunque interrotto le lezioni un paio di giorni dopo. La prima settimana di chiusura, quindi, coincidendo sostanzialmente con un periodo di vacanza, passava in relativa tranquillità: gli studenti avevano già ricevuto le consegne per il rientro e non c’era ancora ragione di temere uno stop particolarmente lungo. Ricordo, e adesso ci penso con un sorriso, di aver fissato un compito in classe per il primo lunedì di marzo e di averlo posticipato almeno tre volte man mano che il quadro sanitario locale e nazionale si faceva più fosco.
Le prime due settimane di quarantena passarono così, nell’incertezza e nell’affannosa ricerca di notizie affidabili. Come buona parte degli italiani, attendevo il bollettino serale della Protezione Civile per avere un’idea della curva dei contagi e ascoltavo il Primo Ministro in TV annunciare nuove misure di contenimento. I contatti con la scuola, ancora piuttosto sporadici, avvenivano tramite le circolari caricate sul sito web dell’istituto e le dichiarazioni ministeriali; il rapporto con gli alunni, invece, attraverso l’utilizzo di una piattaforma digitale (Google Classroom) che avevo già sperimentato nei mesi precedenti. In questo modo mi sinceravo del loro stato di salute e indicavo letture e attività da svolgere a casa per ingannare il tempo.
Con l’escalation dell’emergenza, quando era ormai chiaro che le lezioni in presenza non sarebbero ripartite a breve, si registrò un deciso cambio di passo: ognuno dei consigli di cui facevo parte si organizzava per raggiungere tutti gli alunni e ricreare un clima di eccezionale normalità mettendo in campo strumenti atti a ripristinare la comunicazione interrotta. Si convenne che l’interazione tramite registro elettronico e piattaforme digitali per il solo caricamento d’informazioni e contenuti non bastava più, anzi rischiava di lasciare indietro molti ragazzi (specialmente quelli con bisogni speciali), e si decise di predisporre momenti d’incontro dal vivo. Sorsero gruppi di mutuo aiuto fra i professori in cui i più esperti con l’informatica mettevano a disposizione le proprie competenze e si organizzarono formazioni agli studenti sui software più efficaci (Google Classroom, WeSchool, Google Meet, Hangouts, Zoom, etc.).
Erano giorni pioneristici quelli – video-lezioni, telefonate, email, messaggi su WhatsApp e assistenza tecnica a qualunque ora del giorno – in cui più dell’avanzamento del programma contava il ristabilimento di un clima scolastico: nuove routine, nuove ritualità, nuovi orari alla ricerca del giusto compromesso fra trasmissione di contenuti ed esposizione misurata ai device elettronici. Parallelamente all’impegno dei singoli, infine, l’istituto dotava docenti e discenti di una piattaforma ufficiale: un modo per non confondere gli studenti uniformando le proposte didattiche.
Col passare delle settimane si procedeva così a una vera e propria ristrutturazione dello spazio-tempo scolastico mediato dallo strumento digitale. Per un docente alle prime armi come il sottoscritto si trattava essenzialmente di ricominciare da capo: riprendere le fila di un discorso interrottosi bruscamente a fine febbraio e ripristinare una relazione educativa in una difficile contingenza segnata da distanza, mancanza di mezzi, paura e disorientamento. La prima necessità riposava allora nella ricostruzione della classe-comunità grazie al pieno coinvolgimento di tutte le parti. Un compito difficile, lungo più di tre mesi e segnato da entusiasmo, impegno, errori, buona dose d’improvvisazione. E tanta creatività.
Più volte, durante la DAD, ho pensato alle riflessioni di Erving Goffman (1969; 2003) sulla natura delle interazioni sociali all’interno delle cosiddette “istituzioni totali”. Sulla scia dei lavori del sociologo canadese, l’etnografia ha indagato l’opaco rapporto ivi esistente tra direttive e pratiche: non opposizione diretta, bensì adattamento retroattivo e performativo. Se le considerazioni di Goffman possono essere molto utili per leggere le ordinarie attività scolastiche (quelle pre-pandemiche cioè), a mio avviso esse tornano buone anche per interpretare le relazioni virtuali instauratesi con l’avvio della didattica a distanza.
Partita dalla necessità di garantire due capisaldi – la continuità dell’azione pedagogica e la necessità che i soggetti coinvolti (specialmente gli studenti) non spendessero troppo tempo davanti ai terminali – la DAD ha evidenziato il rapporto dialettico che intercorre fra norme e comportamenti. Se assumiamo la scuola come un’istituzione nel senso goffmaniano del termine, si può osservare come la didattica da remoto sia stata il frutto di un creativo gioco di retroazioni fra più poli. Una dinamica in cui, fatte salve le circolari governative e i limiti imposti dallo strumento informatico, docenti, discenti, dirigenti scolastici e genitori hanno sperimentato sul campo formule nuove in mezzo a mille difficoltà: frantumazione del sistema-classe e risignificazione della relazione pedagogica dovute alla distanza fisica, scarsa dimestichezza con la tecnologia digitale e difficoltà di accesso a dispositivi tecnici adeguati (condizione valida tanto per i discenti quanto per i docenti). Un vero e proprio lavoro congiunto il cui fine è stato essenzialmente uno: ricostruire uno spazio di comunicazione.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati sulla DAD, sulle sue potenzialità e i suoi limiti: esaltata per aver salvato la didattica durante l’emergenza e criticata per l’immagine sclerotizzata del processo educativo che ha trasmesso; benedetta per la ventata di novità che ha portato e biasimata a causa della sostanziale arretratezza informatica italiana. In questa sede non seguirò lo sviluppo di questo dibattito – il quale, va detto, ha anche assunto pieghe caricaturali (Agamben 2020). Cercherò, piuttosto, di mostrare quanto di significativo, per la pratica pedagogica, questa fase ha lasciato.
Demonizzare la tecnologia è un esercizio sterile: senza la DAD l’anno scolastico non avrebbe potuto concludersi e tanti studenti (specialmente quelli più fragili) sarebbero stati privati di un punto di riferimento fondamentale [1]. E d’altra parte non bisogna cadere nell’errore opposto: esaltarla incondizionatamente o considerarla come materia neutra su cui imporre significati [2]. I veri temi, a mio avviso, vanno ben oltre il peso della digitalizzazione in pedagogia: in gioco, infatti, c’è il senso della relazione didattica stessa. Se c’è del buono nel periodo liminale appena terminato, infatti, questo va rintracciato nella chiarezza con cui la dimensione disincarnata della rete ha mostrato, grazie alla difficoltà di tradurli nel suo linguaggio, i tratti caratterizzanti del processo educativo. L’obiettivo nel prossimo futuro consisterà allora nel rendere più autentica la didattica comprendendone e valorizzandone i presupposti.
La ripresa delle attività scolastiche è andata di pari passo con la necessaria riformulazione di un ambiente atto a praticarle. Oltre a raggiungere gli studenti tramite messaggistica e prove in itinere, per tre mesi ho impiegato le mie mattine dedicandomi completamente al rito della video-lezione. Molto si è scritto sul carattere intrusivo delle video-conferenze e sull’occhio indiscreto della webcam che abbatte il muro fra pubblico e privato. Come docente, in effetti, ho potuto penetrare spazi che mi sarebbero stati normalmente interdetti – camerette, saloni, cucine, balconi, terrazzi – e contemporaneamente ho dovuto subire lo stesso tipo d’invasione (quante volte il mio gatto è saltato sulla scrivania occupando l’inquadratura e suscitando l’ilarità degli studenti? Quanti commenti ho ricevuto sullo sfondo giallo o rosso, a seconda del setting predisposto, delle mie pareti?). Mi sono inevitabilmente fatto delle idee sulla condizione socio-economica dei miei alunni, e loro avranno fatto altrettanto con me.
Ho visto sullo schermo genitori fermarsi incuriositi alle spalle dei figli e salutare a favore di camera, ho sentito studenti discutere e litigare con i fratelli impegnati in altre lezioni, ho assistito a brandelli di dialoghi che non mi riguardavano. Ne avevo il diritto? E loro avevano il diritto di fare altrettanto con me? Le tecnologie informatiche hanno così favorito un sostanziale abbattimento delle distanze fra me e i miei studenti e il reciproco influenzarsi dei nostri tempi. La possibilità di comunicare da lontano – tramite video, posta elettronica, messaggi privati sulle piattaforme scelte per la consegna delle attività o su WhatsApp – ha dilatato a dismisura i confini dello spazio scolastico sincronizzando i nostri tempi: non soltanto contribuendo a rendere più sfumata e problematica la distinzione fra dentro e fuori, bensì allungandone l’ombra alle ore pomeridiane, serali e persino festive (sovente spese a rispondere a dubbi e/o richieste di chiarimento, ad organizzare recuperi, a fare revisione in vista degli esami, a inviare e correggere i compiti, a ricevere le notifiche che segnalavano, anche a tarda notte, la consegna degli stessi da parte degli alunni).
All’inverso, ho fatto i conti con la negazione radicale dell’immagine e dell’illusione di controllo quando ho affrontato la reticenza o l’impossibilità di non pochi alunni a mostrarsi in video. Ho speso energie per richiamarli all’uso della webcam scontrandomi con timidezze, problemi tecnici, assenza di mezzi, (legittime) resistenze rispetto a un’intrusione (la possibilità di guardarli negli occhi) cui attribuivo grande importanza per svolgere al meglio il mio compito, ma che allo stesso tempo mi appariva violenta e, date le circostanze, sostanzialmente inopportuna.
E cosa dire del “silenzio”? Questa chimera avidamente inseguita nelle classi più irrequiete, con la didattica online era lì a portata di clic. Così facile da raggiungere, grazie alla mediazione degli strumenti digitali (schermo, camera e microfono) attivabili a piacimento, da apparire sospetta. Ecco allora la tranquillità tanto agognata in classe mostrare il suo volto oscuro – quello dell’apatia, del disinteresse e del bisogno d’aiuto incomunicato e incomunicabile – da esorcizzare con l’ossessivo ricorso alla funzione fàtica del linguaggio (mi sentite? Vero? Giusto? Ci siete? Avete capito? Tutto ok? Chiaro? Sì? No? Beh?) e con il continuo coinvolgimento di interlocutori invisibili e muti – avatar immateriali caratterizzati solo dall’iniziale del cognome. Ed ecco, con la fastidiosa sensazione di essere ridotto a mero trasmettitore di informazioni, emergere l’importanza del brusìo che rende viva una classe-comunità, in cui ognuno contribuisce – favorendola, resistendole, deviandola – all’esito della lezione.
Con la sua ambiguità – a volte segnata da iper-visibilità, altre dominata da totale cecità – la costruzione dell’ambiente didattico virtuale ha richiesto un certosino lavoro di bricolage. E tuttavia lo spazio faticosamente edificato si è palesato, nella sua precarietà e nel rischio di crollare da un momento all’altro (anche solo per un calo di connessione), per ciò che uno “spazio praticato” è sempre: il frutto di discorsi, pratiche, negoziazioni e performance in cui in gioco ci sono parole, gesti, prossemiche che lo rendono realmente rilevante. La routine di quest’ultimo periodo, giocando involontariamente a parodiare la didattica in presenza, ne ha fatto risaltare caratteristiche, non detti e finzioni.
I continui tentativi di normalizzare la relazione didattica online, implementando codici tipici del linguaggio scolastico ordinario (l’orario settimanale, l’appello, l’annotazione delle presenze, le spiegazioni, i compiti, le interrogazioni, i pagellini, i consigli di classe, le udienze con i genitori, gli scrutini), hanno dunque evidenziato quanto fosse culturale – frutto di costante lavoro – anche la normalità cui mi ero abituato durante i mesi in classe. Le restrizioni causate dall’emergenza sanitaria hanno così mostrato, registrandone l’evaporazione, come la classe non sia un luogo fisico che preesiste all’azione degli individui, ma uno “spazio praticato” reso autentico da coloro che vi si muovono e, soprattutto, v’intrattengono relazioni. Esattamente, scriveva magistralmente Michel de Certeau (1990: 176), come «la strada geograficamente definita da un urbanista è trasformata in spazio dai camminatori». La costruzione dell’aula virtuale, insomma, ha fatto risaltare, per difetto, gli ingredienti (dialogo, apertura, partecipazione) che rendono sempre viva una collettività e che spesso si danno per scontati. Una lezione – per chi scrive la migliore erogata dalla DAD – da non dimenticare.
Si potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma i limiti di spazio e l’inevitabile parzialità del punto di vista scelto mi trattengono dal dilungarmi. Oltretutto in questa comunicazione condotta dalla parte dell’insegnante-antropologo, gli studenti sono rimasti sullo sfondo e mi dispiace, perché tante delle loro suggestioni si sono rivelate di notevole interesse e hanno dato, più o meno direttamente, linfa alle mie considerazioni. Molti di loro ad esempio, al di là dell’ovvio gioco delle parti che li vuole povere vittime oberate dai compiti, hanno più volte espresso un legittimo disagio rispetto ai ritmi serrati di un calendario fitto di lezioni e recuperi pomeridiani e una sorprendente (ma non più di tanto) nostalgia della scuola, vista non come noiosa parentesi rispetto alla vita vera, ma come spazio autentico dove scambiare esperienze. E ciononostante, pur disorientati dalle intempestive comunicazioni ministeriali sull’esito dell’anno scolastico, hanno partecipato attivamente (almeno la quasi totalità di essi) alla costruzione di un nuovo ambiente.
Dubito che i miei alunni conoscano Etienne Wenger ma grazie al loro gioco di sponda, alle critiche, alle resistenze e anche ai loro silenzi hanno dato corpo alle sue parole: «l’insegnamento non produce l’apprendimento», bensì «crea un contesto nel quale avviene l’apprendimento» (Wenger 2006: 297). Considerazione saggia e tanto più importante oggi, in una congiuntura che ha causato una radicale destrutturazione degli spazi classicamente preposti all’istruzione. Ricostruirli, in termini autenticamente liberi e inclusivi (anche grazie all’ausilio del digitale), richiederà la partecipazione di tutti.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Uno sforzo ammirevole e necessario, purtroppo rimasto incompiuto: come hanno mostrato le statistiche nazionali (cfr. il report ISTAT del 6 aprile 2020), non tutti gli studenti italiani sono riusciti ad accedere alla DAD e a dare continuità al proprio percorso scolastico durante il lockdown. Le cause sono molteplici: fisiologica dispersione, disorientamento rispetto a una formula educativa nuova, scarsa competenza informatica, mancanza di mezzi elettronici adeguati e/o di connessioni alla rete internet affidabili, sovraffollamento abitativo.
[2] Chi esalta incondizionatamente il carattere democratico ed egalitario del digitale spesso dimentica che ogni software necessita di un hardware e che la distribuzione di questi mezzi tra la popolazione non è affatto omogenea. In virtù delle incertezze legate al corso della pandemia, uno dei grandi problemi da affrontare per il futuro riguarderà allora la necessità di colmare il gap informatico in buona parte del paese. A lungo andare, infatti, il mancato accesso a tecnologie digitali adeguate non potrà che rappresentare – e lo si è visto in piena emergenza, nonostante gli sforzi del MIUR e delle realtà territoriali – una ulteriore causa di dispersione scolastica.
Riferimenti bBibliografici
Agamben G. 2020, Requiem per gli studenti, in Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 22 maggio 2020, https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/giorgio-agamben-requiem-per-gli-studenti.html
de Certeau M. 1990, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma (ed. or. 1980);
Dei F. 2011, A cose serve l’etnografia in una scuola, in Simonicca A. (a cura di), Antropologia dei mondi della scuola. Questioni di metodo ed esperienze etnografiche, CISU, Roma;
Geertz C. 1990, Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna.
Goffman E. 1969, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna (ed. or. 1959);
Goffman E. 2003, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino (ed. or. 1961);
Ingold T. 2018, Anthropology. Why it Matters, Polity Press, Cambridge;
ISTAT (a cura di) 2020, Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi, report del 6 aprile, https://www.istat.it/it/files/2020/04/Spazi-casa-disponibilita-computer-ragazzi.pdf
Wenger E. 2006, Comunità di pratica. Apprendimento, significato, identità, Raffaello Cortina Editore, Milano (ed. or. 1998).
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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