dialoghi oltre il virus
di Nino Giaramidaro
Ai margini della foresta della memoria si aggirano gli spettri dei giorni perduti. Irrimediabilmente. Cosparsi, riempiti di gesti futili, pescati nel sonnambulismo di una quotidianità già futile. Passi inutili, senza il ritmo della strada, forzati per combattere su un corridoio l’immobilità della carcerazione, esasperati dalla ripetitività di una lunghezza misurata dal compasso dell’afflizione.
Con soste inconsulte davanti a una scansìa di libri che assumono il vestito dell’estraneità, della lontananza, della totale assenza di interesse. Sembra che nemmeno essi sopportino una qualche attrazione come nelle illusioni più menzognere si dice spesso accada.
Soste fugaci davanti allo specchio di fondo che provoca il miraggio di un più lungo percorso e si vendica di questa sua generosità spoglia di volontà mostrando una somatica stremata dalla clausura con la paura appollaiata sulle alture casalinghe.
Va e vieni robotico, disturbato dal fascino delle porte che varcate non sveleranno nessuna sorpresa: lo sguardo circolare percorre una rosa dei venti della speranza. Scoperte forzate fra ninnoli mai visti dietro vetrinette che immagino pure esse carcerarie dell’inanimato, oppure posati per un abbellimento che non riesco più a vedere, a sentire: cose senza emozioni che attendono sempre un futuro privo di ansie, inquietudini, senza niente, assediate da sottili pareti che rendono piccolo lo spazio e smentiscono le parole surreali di Gino Paoli. La solitudine.
La solitudine degli eroi, dei cavalieri erranti, dei geni e dei precursori, ma anche quella dei costretti, dei mal-viventi, dei malati e dei vecchi. Mi viene in mente dopo una cinquantina di passi del mio notturno vagare rettilineo, abbellita dalla forma di verso: “la solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore”.
Pensiero: sempre l’arte, la poesia il libro e lo spartito hanno cercato di nobilitare la solitudine come un sentimento alto, ma in questi interminabili giorni claustrofobici io riesco solo a soffrirne la valenza peggiore, quella prostrante e tormentosa dell’essere solo, senza parole che viaggiano da un bocca all’altra, valorizzando anche la parte sciocca di sé che ognuno custodisce con abnegazione. “Era la nera, nera solitudine delle isole” che forse per Neruda popolavano gli arcipelaghi umani.
C’è il sorriso di lei, soccorritore da cinquant’anni, carico delle ombre del timore velate dal coraggio, dalla forza d’animo che illumina ore che sembrano giorni, i momenti più pesanti della notte che incombe con le sue presenze senza speranza. Una gratitudine incontenibile, distanziata dalla prudenza e da un senso nuovo della discrezione.
La partita del secolo, il gol urlato di Tardelli, la furbizia di Paolo Rossi e Totò Schillaci: potrò essere interrogato anche a saltare: so tutto, minuto per minuto, Rai Sport non ha vergogna. Oggi ho visto Jacques Anquetil che surclassa sulla Cima Coppi: ha vinto cinque Giri d’Italia in cinque giorni e io sono rimasto irretito dalla pedalata francese ripetuta iterata moltiplicata. Mi sto sentendo quasi parente di questi protagonisti del mondo antico e rinnovo il mio disappunto per Facchetti che non riesce a saltare più in alto di Pelé. Marco Pantani vince e rivince la tappa in salita, staccando anche il caparbio ex ufficiale russo Pavel nel corso delle albe insonni; e l’Italia sconfigge a ripetizione il Brasile di Falcao, Zico, Cerezo, Socrates e Valdir Perez: è incredibile come si muove Paolo Rossi, sempre insospettabile sul campo e per decenni odiatissimo in tutto il Brasile.
Mi soccorrono anche i western con i volti riesumati di Randolph e Zachary Scott, il reazionario John Wayne che sculaccia davanti a tutto il paese la moglie bisbetica. Le chiamavamo “americanate” e c’era un mio amico che tifava per Cochise anziché per il Settimo Cavalleria. Senza saperlo Mimmo Ferro aveva ragione in questa sua ammirazione senza ideologia.
Si può perdere la certezza del tempo con questo ripasso di gesta, così come ricordare le emozioni dei film con Audie Murphy, il milite più decorato d’America, sbarcato a Licata il 10 luglio ’43, angelo sterminatore con sulla coscienza alcune centinaia di soldati tedeschi, diventato un hollywoodiano Billy the Kid. Ma non è riuscito nella sua quarantina di film a rendere credibile la finzione così come aveva fatto sui fronti europei.
Giorni e notti di quel che fu su canali che non tengono conto del presente e nemmeno del futuro, sia pure auspicato. Mi distrae il garrito del gabbiano mattiniero. Chiama dai tetti storici dell’Albergo delle Povere. A volte sembra voler ululare con il collo teso verso l’alto e il becco vibrante e intasato di suoni. La voce dell’avvisatore marittimo si distende in un saliscendi di toni, “gracidii” lunghi, ripetuti con monotona insistenza come un racconto di contastorie.
Forse vuole consegnarmi messaggi dal mare, delle anime di annegati che ha incontrato, particolari dei destini morti che ha dimenticato di riferire alle vedove sorvolate sulle banchine dagli echi falsati dai venti. E io non ho parole da affidargli: la sua lingua mi è oramai straniera perché ho tradito il mare soffrendo un’emigrazione di piccolo cabotaggio. Non possiamo più intenderci io e i gabbiani, che possiedono la luce, le ali della libertà, la leggerezza e sono capaci di vivere la bellezza anche sopra i più indecenti tetti.
La pietà del gatto la indago in quel suo mite sguardo, credo compassionevole, senza la vanagloria di chi può andare e ritornare esente da inciampi, ostentata a chi fruisce di un fantasma della libertà: chiuso in casa contro la ferocia di un invisibile nemico, con deboli lenimenti alla paura domiciliare che rende gesti e pensieri ondulatori, tic convulsi che costringono a distrazioni coatte – nei libri, nell’economia domestica, nei passatempi, nelle conversazioni familiari le più inutili e superflue – per ostacolare la resa all’abbandono.
L’altro gatto vagabondo, altero fiero combattivo, anch’esso doverosamente in visita sulle finestre del lato opposto della casa, pure lui con uno sguardo senza diffidenze e incurante della ciotola raggiungibile. Non so se vergognarmi di queste mie interpretazioni delle presenze dei gatti che vanno e vengono come sempre hanno fatto, ma è un modo per dirmi che il mondo è migliore di quanto abbiamo creduto.
E i colombi. Una coppia dal petto rilucente di colori fra il blu oltremare, l’indaco chiaro spruzzato di un rossore che si contrae e si espande ad ogni breve volo fra il tettuccio di uno sgabuzzino e il piattino dei gatti oltre il cancelletto che protegge la porta della veranda abbandonata. Tubano, si baciano ci ripensano e ritornano a beccare sfoggiando una padronanza dei luoghi che la mia presenza dietro le sbarre non riesce ad intimidire. Anche loro partecipano di questa animalesca visitazione che posso interpretare come volontaria e solidale. Ci sono queste sbarre che inficiano le loro presenze e le mie percezioni.
Le avevo sempre guardate come una legittima, anche se pessimistica, installazione protettiva, a difesa della casa dalle cattive intenzioni, ora le vedo come un limite, un connotato carcerario che si illumina e si proietta sin dove i primi raggi di sole possono giungere. E il computer diventa un oggetto coercitivo con il suo schermo, la sua tastiera soverchiati dall’ombra delle barriere che hanno perduto l’amicizia. Anche stanze, pareti corridoi domestici si impossessano di qualcosa di astioso che minaccia la loro antonomastica sicurezza.
Che giorno siamo oggi? Noi siamo tutti i giorni, suggerisce il “poeta delle sartine” Prévert. Questo perdere i nomi dei giorni nelle cattività anche minime più che di deriva nella smemoratezza sa di onirica libertà, affrancamento da un obbligo immutabile, autarchico sentire che si manifesta nella solitudine, nell’attesa di riconquista di una libertà convenzionale, sociale. Dimenticare, ricorrere all’oblìo circoscritto come per negare l’umiliazione della costrizione, l’inutilità di giorni e giorni che avrebbero potuto riempirsi di abitudini, esplorazioni di quartiere, idee materiali da affidare al piccolo viaggio nella città, fare e disfare con necessarie complicità.
Passato e presente che si accumulano nell’incertezza di un tempo costretto, che ha pure perduto il ritmo di giorno e notte in una confusione traboccante stanchezza e abbandono: ricordi corrosi, proponimenti appannati, desideri differiti. Accontentarsi del possibile: computer, televisione, macchina fotografica, libri. Poche pagine lette, poi la distrazione incontenibile, che si sposta sulle altre risorse della reclusione in un errare spossante e ripetitivo.
Un’abitudine appannata quella di attraversare l’uscio di casa. Sono passati millanta giorni di cattività e inizio l’avventura del quarto d’ora d’aria: passi barcollanti come quelli all’uscita da una lunga cella d’isolamento. Costeggiando il parcheggio delle auto, venti metri e poi il muro. Sulla destra in alto scopro un reticolato, un domestico cavallo di Frisia al quale si è intrecciato un rampicante verdissimo come la speranza, il mio sperare. Con i suoi bei fiori gialli, esortazione alla luce, all’energia della mente e del corpo.
Dall’altro lato giungo alla frontiera del cancello carraio e mi fermo, ma trovo il coraggio di attraversare la terra di nessuno del marciapiede e conquisto il deserto del corso, sino a dove l’occhio vede. Attonito nel silenzio malato: mai accaduto di starci dentro, sembra camminare sott’acqua, galleggiarvi come nelle scene dei film muti. Un silenzio spaventoso che mi suggerisce il ritorno svelto e sicuro, la fuga dal silenzio. Sì, “lu Signuri fici li mura picchì ognunu si stassi a la so’ casa”.
“As time goes by” cantava Sam. E il tempo è passato; forse però bisogna considerare un altro verso: “You must remember this”: devi ricordarti di questo. Di questo accaduto e non ancora finito, con le “paure timide” di Erri De Luca, che si vergognano a palesarsi.
Dopo giorni di tentativi riesco a convincere la paura e sedermi al bar, ma caffè nel bicchierino di plastica con la sua bacchettina e l’acqua pure nel bicchiere bianco. Sono gesti estranei questi fra le plastiche, impacciati, forse preveggenti, ma senza futuro: non si può sorbire a lungo un caffè in questo modo e nemmeno continuare a non salutare i conoscenti travisati dalla mascherina. Gli amici tutti ancora affollati dietro l’angolo. Il sole sorgerà ancora.
Riflessioni sul tempo perduto, nella distanza regolamentare dagli altri. In questa mia disagiata fase di rieducazione si fanno largo le parole di una mia nuova amica di Castelvetrano: “Nni l’ammasso di l’anni, unu cchiù unu menu ‘un è chi cunta”.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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