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Il destino climatico di Roma e la fine dell’Antropocene: memorie antiche delle pandemie

 

copertinadialoghi oltre il virus

di Pietro Li Causi

Il freddo e la pioggia: la Roma ostile delle origini. Una radura rigogliosa. Un uomo ricoperto da una pelle di capra incide dei segni sopra un ceppo con una scheggia bianca appuntita che tiene nella mano sporca di fango.

Piove a dirotto. L’uomo sta pregando. In un latino pre-classico e gutturale invoca la dea dai tre volti – Gaia? Ecate?

Le chiede di fare cessare la pioggia, che dura da giorni, o forse da mesi.

Un secondo uomo, ricoperto anche lui da una pelle di capra, cammina alle spalle del primo battendo il terreno con un bastone. Guarda le pecore. Scruta il cielo. Oltre la fitta tela verde degli alberi, un improvviso volo di uccelli.

Il secondo uomo ha capito tutto. Bisogna fuggire.

Il fiume in piena – il Tevere – travolge entrambi, Romolo e Remo, assieme ai loro animali. 

Inizia così Il primo Re di Matteo Rovere, del 2019.

Il giudizio degli antichisti su questa pellicola – che stravolge molti dei luoghi comuni del genere peplum – non è stato concorde. Una delle critiche più dure è venuta da Maurizio Bettini:

«Nelle loro peregrinazioni Romolo e Remo attraversano un Lazio irlandese, o finnico, dove non smette mai di piovere e dove una palude segue l’altra. Si aggiungano gli scoppi di urla selvagge, le maschere d’orso (quelle che indossavano i famigerati berserkr del settentrione), l’ambientazione boschiva, le interminabili lotte nel fango. Primitivo uguale nordico, è lo spirito dei tempi»[1].

Per diretta ammissione del regista, l’intento – criticato da Bettini – era proprio quello di sostituire all’immaginario imperiale e togato di film come il Satyricon un mondo selvatico e rude, che ammiccasse, appunto, a serie televisive come Viking o Game of Thrones, ma che – nello stesso tempo – tenesse conto degli apporti più recenti della ricerca archeologica, e che soprattutto si affidasse a una ricostruzione filologicamente corretta di quella lingua delle origini, così lontana dal latino ciceroniano [2].

locandinaAl di là degli intenti, Bettini coglie nel segno quando mette in evidenza una serie di inesattezze storiche e antropologiche (una su tutte, la maledizione finale di Romolo contro gli stranieri, che così poco si adatta alla logica inclusiva dell’Asylum); tuttavia, da come emerge dalle più recenti ricerche archeobiologiche sulla storia dell’ambiente, sembra avere torto su una sola cosa. L’analisi degli strati di ghiaccio della Groenlandia e i rilievi con il metodo del radiocarbonio sembrano incontrovertibilmente convergere su un dato di fatto: quella fra l’850 e il 600 a. C. è stata, anche per l’area laziale, un’epoca incredibilmente fredda e umida [3]. Roma, la Roma delle origini, era qualcosa di molto diverso dalla Saturnia Tellus immaginata da Virgilio [4]. Era un ambiente terribile e inospitale, proprio come quello in cui i due fratelli del film di Rovere devono lottare per sopravvivere e imporsi.

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La peste di Azoth, Nicolas Poussin, 1630/1631

Il destino di Roma: una storia climatica

Che il clima sia un grande co-protagonista nella storia dell’ascesa e del declino di Roma lo ribadisce con forza, nella sua fortunata monografia del 2019, Il destino di Roma (Einaudi), lo storico Kyle Harper. Questo, in estrema sintesi, il succo della sua ricostruzione: dopo il periodo rigido delle origini, a partire dal III secolo a. C. interviene un radicale cambiamento che trasforma il Mediterraneo «in una gigantesca serra», dando luogo all’Optimum Climatico Romano, un periodo di tempo stabile, caldo e umido, che si protrarrà almeno fino al 150 d. C e che, favorendo l’agricoltura e l’espansione militare dei Romani, donerà loro un progressivo miglioramento delle condizioni di salute e una grande prosperità economica [5].

L’Optimum Climatico Romano finirà nel 160 d. C, quando la ‘peste Antonina’ (probabilmente un’epidemia di vaiolo) comincerà a decimare la popolazione del mondo allora conosciuto e a mettere in crisi l’organizzazione di un impero che si era immaginato solido ed eterno.

Dal 160 d. C. in poi, la storia di Roma, lentamente ma inesorabilmente, muta: il clima diventa più secco, le piene del Nilo sono sempre più scarse e irregolari, e quello che era stato il granaio dell’impero comincia a non garantire più il solito apporto di derrate. La fame, la carestia, le eruzioni, i terremoti, l’emergere di nuove malattie mettono definitivamente in ginocchio una struttura che si era appena incrinata con la peste Antonina, e che non riesce più a reggere il suo peso: in un mondo che ha investito tutto sulla militarizzazione, non ci sono più le risorse sufficienti per pagare gli eserciti, i confini rimangono indifesi, la burocrazia è al collasso e il popolo comincia a chiedersi come mai gli dèi dell’Olimpo non siano intervenuti a raddrizzare le sorti del cosmo.  

Il III d. C. è il secolo della peste detta “di Cipriano”, così denominata dal vescovo di Cartagine che l’ha descritta nelle sue cronache. Poi, nel 540, è la volta della peste bubbonica, preceduta di soli quattro anni dal terribile ‘anno senza estate’, in cui il sole – a seguito di una serie di eruzioni vulcaniche e di una drastica diminuzione della sua attività – sarà velato per più di 300 giorni, causando una vera e propria ‘piccola glaciazione’. Nel frattempo, gli antichi culti pagani sono caduti in disuso, il rancore sordo nei confronti degli dèi, che non sono riusciti a scongiurare la devastazione e la morte, si è trasformato in senso di disillusione e insofferenza: le masse, non potendo più confidare nei culti tradizionali, hanno cominciato a credere, sempre di più, al messaggio di una religione esotica che era rimasta marginale fino al III secolo d. C. Il dio di quella religione – si diceva – non poteva salvare gli uomini dal loro tremendo destino terreno, ma almeno garantiva loro la vita dopo la morte.

La tesi di Harper non è deterministica. A più riprese viene ribadito che non sono stati soltanto gli eventi climatici e pandemici che hanno portato al crollo dell’impero: ci sono state le scelte politiche dei singoli imperatori, l’inerzia, la tendenza a replicare i medesimi modelli del passato, la sofferenza di intere popolazioni, le disuguaglianze sociali, lo stile di vita che si è imposto con l’allargarsi dell’impero. L’agricoltura aveva portato gli abitanti delle città a stretto contatto con gli animali, lo stoccaggio di sempre maggiori quantità di grano aveva attirato i ratti – che sono il principale veicolo della peste –; la deforestazione e il clima caldo e umido dell’Optimum Climatico Romano sono stati alla base del dissesto idrogeologico e dell’incremento delle zone paludose, dove allignano le zanzare, che hanno reso endemica, nel Mediterraneo, la malaria; la sempre maggiore densità di popolazione dei centri urbani dell’impero aveva favorito la circolazione dei germi e l’espansione delle reti commerciali, conducendo alla convergenza di bacini patogeni sempre più aggressivi, era sempre più diventata veicolo di infezione e contagio.

In quel vasto tessuto interconnesso e globalizzato che era diventato l’impero romano, le pestilenze e le pandemie avevano così trovato terreno fertile: si erano diffuse seguendo le rotte dei commerci e degli approvvigionamenti, avevano colpito per prima le zone portuali, ma si erano diffuse, a poco a poco, anche nei più sperduti villaggi dell’Europa centrale; avevano spostato in massa popoli interi che tentavano di sfuggire alla morte certa, e avevano bloccato, talvolta, le avanzate dei conquistatori – è quello che era accaduto ad Attila, fermato dalla malaria, rispetto alla quale i suoi guerrieri e i suoi cavalli non avevano sviluppato le dovute difese immunitarie.

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Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016 / © Edward Burtynsky

Fine dell’Antropocene: una possibile riflessione sugli agenti ‘non-umani’ della storia

Nel grande affresco storico regalatoci da Harper un dato emerge in tutta la sua inquietante verità. Abbiamo avuto la presunzione di denominare un’era a partire dalla nostra specie. Abbiamo cioè creduto di essere i signori indiscussi dell’Antropocene e di poter determinare, con le nostre azioni, il corso della natura [6]. Un libro come Il destino di Roma può invece servirci da memento per ricordare che «la natura è astuta e capricciosa. Le forze profonde dell’evoluzione sono in grado di cambiare il mondo in un attimo», perché «sorpresa e paradosso si annidano nel cuore del progresso»[7].

Sulla scia di quanto teorizzato in Bandura, in psicologia ci si è comunemente riferiti all’agentività come alla capacità di fare accadere gli eventi e di intervenire su una realtà percepita come effetto di strutture causali interdipendenti. In questa accezione, l’agentività (che contribuisce a determinare il funzionamento psicosociale) è stata spesso intesa, nel mondo occidentale, come prerogativa unicamente umana [8]. Un utile antidoto, in questo senso, sono state le discussioni aperte dal post-modernismo e dagli Animal studies. Lo zooantropologo Roberto Marchesini, ad esempio, ha parlato di ‘soggettività animale’, mentre Martha Nussbaum ha ipotizzato un’etica inter-specifica basata sul riconoscimento delle effettive ‘capacità’ dei non-umani e sull’estensione del diritto alla ‘vita buona’ a tutti gli esseri viventi. Il filosofo tedesco Hans-Johann Glock (2013: 900 ss.) ha infine ipotizzato la possibilità del riconoscimento di una agentività animale che non sia basata su forme ‘linguistiche’ di ragionamento [9].

Nel pensare simili aperture, è però vero che alcuni filosofi non sono esenti – chi più, chi meno – dal proiettare potenzialità umane (come per esempio la stessa possibilità di godere di ‘diritti’) sugli animali; cosa che, mentre li porta a smascherare e denunciare le derive cognitive e morali dello specismo, non li fa uscire del tutto dal circolo di un antropocentrismo epistemologico.

Un simile errore prospettico è stato compiuto, ad avviso di chi scrive, anche nell’ambito del recente dibattito ecologico che ha occupato i media del nostro Paese, intensificatosi con l’emergere del movimento giovanile dei Fridays for Future. Da un lato, ci sono stati i cosiddetti Cornucopians, i cantori del progresso delle scienze e delle tecniche, che hanno attribuito all’homo oeconomicus del XXI secolo la capacità di rimediare, grazie alla stessa economia di mercato e ai ritrovati della modernità, ai guasti che lui stesso ha creato; dall’altro lato, c’è la visione ‘pastorale’ di un uomo che si astiene, che cessa, che smette di inquinare, o che comunque ‘guida’ e ‘tutela’ la natura, come se il destino dell’universo dipendesse unicamente dalle sue opzioni e dalle sue pratiche, quando invece l’impatto con la recente pandemia – che ci affratella in qualche modo ai Romani falcidiati dalla peste antonina, dalla peste di Cipriano, dall’anno senza estate – dovrebbe averci insegnato che il pianeta in cui viviamo potrebbe anche salvarsi da solo, nonostante la – o forse, secondo alcuni, proprio a causa della – estinzione della specie umana [10].

Ci siamo pensati – nel bene o nel male – come gli unici responsabili del disastro climatico in corso così come della possibile inversione di rotta, quando invece potrebbe darsi il caso che siano ben altri agenti, i batteri, i germi, i virus – e non gli esseri umani – ad arrestare un processo che, come se fossimo un nuovo Prometeo collettivo, nella nostra follia antropocentrica ci siamo abituati a pensare come plasmato da noi e su di noi [11].

Anche in questo, una sintesi come quella di Harper può essere utile: la retorica divulgativa dell’ecologismo di massa insiste sull’argomento del rispetto della Natura e dell’equilibrio. Raccontare il destino cui è andata incontro Roma, invece – unitamente a quanto del resto tentano di insegnarci l’ecocritica e le scienze contemporanee – può aiutare a sgomberare definitivamente il campo dall’idea naïve di una possibile armonia fra l’uomo e la natura.

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Davide Michielin / Immagine: Pablo Blazquez Dominguez/Getty Images

Uscire dalla prospettiva asfittica del presentismo (e del ‘prometeismo’ umano) per guardare il lento procedere del passato, il complesso sedimentarsi dei cambiamenti e delle loro concause, ci può aiutare a ricordare che la natura non è mai qualcosa di statico; è un processo e un insieme di organismi e ambienti in continua evoluzione e mutamento: non è possibile ritornare allo stato primigenio perché di fatto uno stato primigenio non è mai esistito: l’utopia pastorale è di fatto un mezzo utile a nascondere – ad esempio negli spot televisivi che pubblicizzano i prodotti dell’indotto agro-alimentare – la fatica del lavoro nei campi, lo sfruttamento, le difficoltà, gli stenti di generazioni di uomini (e animali) che lottano per la sopravvivenza, e per proiettare in un passato immaginario i sogni fiabeschi e kitsch della società dei consumi.

Uno degli obiettivi del movimento dei Fridays for Future è quello di arrestare i guasti del cambiamento climatico e di ridurre il devastante impatto umano sulla natura. A questo obiettivo, il movimento – che nonostante tutto riscuote sempre le mie simpatie – dovrebbe forse aggiungere anche quello di combattere l’immaginario semplicistico di una natura statica e bucolica. Conoscere la storia delle pandemie che hanno investito Roma, così come ce le racconta Harper, in questo senso, può aiutare.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Note
[1] Cfr. Bettini (2019: 21). Ma cfr. anche Andreotti (2019: 16 ss.).
[2] È stato il glottologo Luca Alfieri a tradurre nel latino pre-classico il copione di Rovere: cfr. Alfieri (2019, 7 ss.).
[3] Cfr. Thommen (2014: 26).
[4] Cfr. ad es. Virgilio, Ecloga IV 5 ss. 
[5] Harper (2019, pos. 1215 Kindle).
[6] La dizione di ‘Antropocene’ è stata introdotta a partire dagli anni ’60 nell’ambito della biologia sovietica. È sorto un ampio dibattito sulla periodizzazione. Secondo alcuni l’Antropocene avrebbe il suo inizio poco dopo la Rivoluzione industriale del XIX secolo. Per altri il punto di svolta è da individuare nell’uso massiccio, nella produzione industriale, delle plastiche, che ha i suoi primi picchi a partire della seconda metà del XX secolo. Cfr. Cordovana – Chiai (2017: 11).
[7] Cfr. Harper (2019, pos. 131 ss. Kindle).
[8] Cfr. ad es. Bandura (1997).
[9] Cfr. Marchesini (2016: 23 ss.); Nussbaum (2007); Glock (2013: 900 ss.).
[10] Per il Cornucopianism, che vede appunto nella tecno-scienza e nell’economia di mercato le ‘cornucopie’ da cui deriva ogni sorta di bene per gli esseri umani, cfr. Garrard (2012: 18 s.). La visione ‘pastorale’ dell’umanità è quella proposta, per esempio, nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Per questo atteggiamento, cfr. anche Garrard (2012: 37 ss.). L’idea dell’estinzione di massa degli esseri umani come obiettivo da raggiungere al fine di salvaguardare, in un’ottica eco-centrica, il pianeta è tipica di alcune delle frange più estreme della Deep Ecology, per cui cfr. Garrard (2012: 23 ss. e 199 s.).
[11] Si rimanda, a tale proposito, alle riflessioni espresse in Li Causi (2020: 67 ss., spec. 100 ss.).
 Riferimenti bibliografici
Alfieri 2019
L. Alfieri, La lingua de Il primo re, in «ClassicoContemporaneo», 5: 7-12.
 Andreotti 2019
R. Andreotti, Come sono anticlassiche le origini di Roma, in «ClassicoContemporaneo», 5: 16-20.
Bandura 1997
A. Bandura, Self-efficacy, tr. it., Autoefficacia: teoria e applicazioni, Edizioni Erickson, Trento.
Bettini 2019
M. Bettini, Un primo re pieno di contraddizioni, in «ClassicoContemporaneo», 5: 21-23.
Cordovana – Chiai 2017
O. D. Cordovana, G. F. Chiai, Introduction. The Griffin and the Hunting, in Idd. (eds.), Pollution and Environment in Ancient Life and Thought, Steiner, Stuttgart: 11-24.
Garrard 2012
G. Garrard, Ecocriticism, Routledge, London, New York 2012.
Glock 2013
H.-J. Glock, Animals: Agency, Reasons and Reasoning, in J. Nida-Rümelin, E. Özmen (eds.), Welt der Gründe: XXII. Deutscher Kongress für Philosophie. 11.-15. September 2011 an der Ludwig-Maximilians-Universität München. Kolloquienbeiträge, Felix Meiner Verlag, München: 900-913.
Harper 2019
K. Harper, The Fate of Rome: Climate, Disease and the Fall of an Empire, tr. it., Il destino di Roma: clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino.
Li Causi 2020
P. Li Causi, La ‘guerra’ contro il virus e il topos della guerra giusta contro gli animali: una riflessione eco-critica attraverso il pensiero filosofico dei Greci, in «ClassicoContemporaneo» 6: 67-114.
 Marchesini 2016
R. Marchesini, Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale, Mimesis, Milano.
Nussbaum 2007
M. Nussbaum, Frontiers of Justice, tr. it., Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna.
Thommen 2014
L. Thommen, Umweltgeschichte der Antike, tr. it., L’ambiente nel mondo antico, Il Mulino, Bologna.

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Pietro Li Causi, dottore di ricerca in Filologia e cultura greco-latina, assegnista e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Palermo, dove ha insegnato Cultura latina e Lingua e letteratura latina. Attualmente insegna materie letterarie presso il Liceo Scientifico “S. Cannizzaro” di Palermo e fa parte, in quanto responsabile di unità di ricerca, del network IRN Zoomathia (Transmission culturelle des savoirs zoologiques-Antiquité-Moyen Âge). Autore di numerosi contributi sulla storia della letteratura e sull’antropologia del mondo antico, si è occupato di Aristotele, Plutarco, Ovidio, Plinio il Vecchio, Seneca, dell’etno-zoologia e della paradossografia dei Greci e dei Romani e di antropologia del dono nel mondo romano. Ha recentemente pubblicato Gli animali nel mondo antico (Il Mulino 2018) e ha curato, assieme a Roberto Pomelli, L’anima degli animali (Einaudi 2015). Per i tipi della Palumbo, ha pubblicato Sulle tracce del manticora (2003), Generare in comune (2008) e Il riconoscimento e il ricordo (2012).

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