Un cavaliere, reduce dalle giostre annuali bandite annualmente dal re d’Inghilterra, dove ha vinto tutti i diciotto duelli, e che imprevedibilmente cambia campo di battaglia entrando nel Mediterraneo, è decisamente un fatto singolare nella storia della cavalleria e della letteratura che la glorifica. E non solo: un cavaliere che entra in mare senza esperienza alcuna di navigazione e che in brevissimo tempo diventa un ammiraglio che restaura un impero in decadenza è un evento ancora più singolare che marca il nascere di un tipo nuovo di eroe e annuncia un’epoca nuova nel modo di scriverne la storia. Alludiamo ad un personaggio romanzesco della metà del Quattrocento il cui nome è Tirant lo Blanc, l’eroe eponimo del romanzo catalano scritto da Joanot Martorell.
L’opera, quasi dimenticata per secoli, è tornata alla ribalta nell’ultimo cinquantennio, grazie in parte all’interesse di alcuni filologi ma anche all’apprezzamento espresso da Mario Vargas Llosa che colloca Tirant lo Blanc al livello dei grandi romanzi di tutti i tempi. I lettori di Cervantes forse lo ricordano perché venne risparmiato dal rogo della biblioteca di Don Chisciotte. In quest’ultimo cinquantennio l’opera, celebrata perfino nello schermo, ha visto anche due traduzioni italiane: una che in realtà è la ristampa di una traduzione cinquecentesca (1538), e un’altra apparsa recentemente ne “I millenni” di Einaudi, tradotta e commentata dall’autore di queste pagine (2013). Vargas Llosa definì il Tirant una «novela total» perché abbraccia tutti i generi, ma per l’occasione e per i fini della rivista che ospita questo scritto non sarebbe sbagliato definirla come una “novela mediterranea” per la presenza e il ruolo che il Mare nostrum vi occupa e vi svolge, fino al punto da costituirne l’ideale che regge tutta l’impresa dell’indimenticabile cavaliere.
Per dare un’idea del modo in cui la presenza del mare s’intrecci nella storia di amore e di armi può essere utile un succinto riassunto del voluminosissimo romanzo la cui azione-trama si scandisce in varie parti. Nella prima di queste vediamo Tirante, un cavaliere Bretone, che partecipa alle giostre indette dal re d’Inghilterra. Istruito preventivamente all’arte della cavalleria da un “Eremita” – un vecchio e valorosissimo uomo d’armi ritiratosi a vita solitaria — Tirante partecipa alle giostre ed entra in lizza in numerosi combattimenti dai quali esce sempre vincitore, e, carico di gloria, ritorna al suo luogo nativo.
Qui comincia una nuova fase della sua vita perché sente parlare di una richiesta d’aiuto lanciata dal gran maestro dell’Ordine Ospitalieri l’isola di Rodi dove risiede ed è sotto l’assalto del “califfo di Babilonia”, cioè del Cairo, il quale intende impossessarsi dell’isola avvalendosi dell’aiuto della flotta genovese. Allestisce una nave e, partito dalla Bretagna, costeggia il Portogallo e attraversa lo stretto di Gibilterra ed entrato nel Mediterraneo, si scontra subito con dei pirati nordafricani: è il suo battesimo che lo inizia alle battaglie navali. Fa scalo in Sicilia e fa rifornimento di viveri da portare agli assediati di Rodi. Partito alla volta di Rodi, sfonda il cerchio della flotta assediante e attracca entrando di prua con la massima velocità. È una mossa insolita che sconcerta gli assedianti. Sconfigge la flotta genovese e riporta alla normalità la vita dell’isola, devastata da anni di assedio, e non accetta alcun compenso che i rodiensi gli offrono. Ritorna in Sicilia dove passa un certo periodo alla corte del reale. Qui arriva il re di Francia che si trova in una spedizione contro le forze musulmane che occupano la Terra Santa, e Tirante si associa alle sue forze e si distingue per azioni eroiche sia in terra che in mare. Il periodo che passa alla corte di Sicilia raffina la sua educazione da “uomo di corte”, ed è un apprendistato che lo prepara per la tappa successiva. Questa viene presto quando risponde all’invito di soccorso da parte dell’Imperatore di Bisanzio che vede il suo impero assediato dalle forze musulmane.
Si apre così la terza tappa del romanzo, in cui Tirante arriva a Costantinopoli, viene eletto “Gran capitano” della città e gli viene offerto anche il comando dell’esercito. Tirante si innamora di Carmesina, figlia dell’Imperatore, e ne è ricambiato. In questo periodo si alternano la vita di corte e la vita nel campo militare, le feste reali e gli scontri navali, le scene d’amore e le regate sul mare nel golfo di Costantinopoli. Nella corte imperiale gli episodi di gelosia si intrecciano con gli intrighi suscitati in parte dall’invidia che la vecchia aristocrazia sente per il nuovo arrivato che ha il cuore dell’Imperatore e della figlia. Nella capitale “dell’Impero greco” vediamo le feste celebrate con grandi parate e le fastose cene all’aperto e le processioni per le grandi feste, e sono questi i momenti di tregua che si alternano con gli episodi di scontri militari violentissimi poiché Costantinopoli è costantemente ambita da avversari nemici del cristianesimo.
Tirante rifulge come uomo d’armi, sia in terra che in mare, e si batte strenuamente anche nel campo amoroso benché qui i successi siano meno clamorosi in quanto Carmesina è molto timida e casta. La parte “costantinopolitana” è certamente la più movimentata e varia del romanzo, ma anche quella che sembra prolungarsi nel tempo senza raggiungere conclusioni di alcun tipo, militari o amorose che siano. Ad un certo punto, in preda ad uno stato di gelosia delirante dovuto ad una tresca orditagli da un’amante non corrisposta, Tirante riparte da Costantinopoli per tornare ad unirsi all’esercito accampato a poche miglia dalla città, sempre sotto l’assedio tenace da una coalizione di eserciti mediorientali e nordafricani. Al momento di salpare, una tempesta violenta strappa la nave dal porto e dopo sei giorni di navigazione cieca e del tutto affidata alle forze naturali, Tirante naufraga in una terra che non conosce.
E comincia qui una nuova fase del romanzo, la quarta, che chiamiamo “africana”. Tirante è nel Nord Africa, fra uomini che ha combattuto da capo dell’esercito bizantino. Ora, per sopravvivere, cambia nome, si guadagna la fiducia e la simpatia dei suoi nuovi signori sostenendoli con la sua expertise militare, e con il tempo riesce a crearsi un potere su vasti territori ed eserciti. Nel giro di vari anni conquista gran parte del Nord Africa e converte al cristianesimo tutti quelli che assoggetta. Per tutto il tempo che trascorre lontano da Costantinopoli, Tirante non ricorda più Carmesina, la corte, gli amici: sembra che una coltre d’oblio totale sia calata nella sua mente. Le sue attenzioni vanno ora alle genti che aveva ritenuto nemiche e che ora impara a conoscere e a capire.
Ma ad un certo punto incontra Piacerdimiavita, l’ancella della sua Carmesina che era naufragata con lui sulle coste d’Africa ma di cui aveva perso le tracce nel momento stesso del naufragio. L’incontro promuove in Tirante ricordi e nostalgie e da quel momento non pensa ad altro che a tornare a Costantinopoli. Organizza una flotta con marinai africani, ma convertiti al cristianesimo, e s’imbarca per Costantinopoli dove fa un ingresso trionfale con la numerosa flotta, e viene accolto come il salvatore. Ritrova la sua Carmesina che nel frattempo si era rinchiusa in un monastero, si sposano, viene eletto Cesare — titolo che gli assicura l’ascesa al trono nel momento in cui sarà vacante — e si imbarca per una breve spedizione di riconquista dei territori balcanici che le forze musulmane erano riuscite a sottrarre all’impero.
Durante il ritorno alla sede imperiale Tirante muore di polmonite, e Carmesina muore di dolore, e con lei muore anche il padre, l’Imperatore. L’ultima parte del romanzo racconta come l’Imperatrice regga il regno che poi passa al suo giovanissimo marito. La morte del protagonista ha una spiegazione che abbiamo proposto altrove e che qui non importa ricordare: notiamo soltanto che non ci troviamo davanti ad un romanzo a “un lieto fine” come erano di solito i libri dei cavalieri della corte arturiana. Possiamo però dire almeno che i personaggi principali si sono realizzati e ad essi non rimane più alcuna grande impresa da svolgere: la loro “vita” significativa da protagonisti si è conclusa con la realizzazione dei fini che si erano proposti, ossia la pace e l’unione matrimoniale. Anche Don Chisciotte muore non appena rinsavisce perché non ha più motivo di essere quello che era, cioè quel pazzo che stupiva tutti e che tutti amavano per la sua follia venata di saggezza.
Come si vede da questo scheletrico resoconto della trama, il Mediterraneo entra a sprazzi in questo grande romanzo, e vi entra come spazio percorso da un polo all’altro (Gibilterra e Costantinopoli sono gli estremi opposti) e da una latitudine settentrionale ad una meridionale (la Spagna e la Francia e la Sicilia al Nord, e tutto il continente africano e il Medio Oriente al Sud costituiscono le sponde del gran mare). Fin dal momento in cui Tirante entra nello stretto di Gibilterra si capisce che l’Occidente marcia alla riconquista dell’Oriente invertendo il vettore tradizionale della translatio imperii, e si intuisce che l’eroe bretone dovrà unificare il Mare nostrum, riportando Costantinopoli nella “nostra” sfera cristiana, ne “la mer à nous”. È un’intuizione mai resa esplicita, ma che diventerà sempre più chiara nel corso del romanzo fino a costituirne una delle tesi ideologiche portanti. Torneremo presto su questo argomento.
Per ora rileviamo la sorpresa di trovare tanto mare nella storia di un cavaliere dichiarato vincitore delle giostre londinesi, e che ora deve apprendere l’arte di navigare, di combattere in mare, di comandare a ciurme e di affrontare flotte avversarie. Fin dal primo incontro con i pirati marocchini apprende da un marinaio come proteggersi dai colpi di “bombarda” che lanciano pietre sul pontone della nave, e arrivato a Rodi apprende da un marinaio greco come atterrire gli avversari: costui, infatti, gli insegna un modo di incendiare la nave ammiraglia della flotta avversaria con una gomena intrisa di una pece incendiaria, e questa azione imprevista convince i nemici a togliere l’assedio e a scappare. Tirante apprende con grande facilità. Ad esempio escogita il modo di ingannare una flotta nemica mettendo a poppa e a prua delle sue navi dei fanali che di notte danno l’impressione di un numero di imbarcazioni molto più alto di quello reale, e ciò convince gli avversari ad abbandonare l’inseguimento.
Tirante ricorrerà spesso a stratagemmi per conseguire la vittoria, e sarà in questo un capitano moderno che alla forza del leone aggiunge l’astuzia volpina. Tirante è un maestro di stratagemmi, e vale la pena sottolineare che nella letteratura stratagemmatica (da quella antica dei Polieno, dei Frontino e dei Vegezio) raramente figurano contesti marittimi, e il nostro eroe è originale anche in questo. Memorabili nel romanzo sono alcune battaglie navali, e grande è la vittoria navale che l’ammiraglio Tirante riporta contro il Gran Caramany che conduce prigioniero a Costantinopoli. Queste battaglie aprono grandi squarci sulle tecniche di combattimento che di solito erano sconosciute nel mondo della letteratura perché il mare era di solito lo spazio che si doveva attraversare per raggiungere terre straniere e remote, e dove tutt’al più avvenivano azioni di stupri e di preghiera e di terrore davanti alla furia degli elementi.
Nel romanzo di Martorell il mondo dei marinai e delle navi ha una presenza concreta e straordinariamente ricca. Intanto il lessico tecnico è un fattore realistico nuovo, tanto e spesso richiede la guida di un commentatore provetto per capire il significato e la funzione di alcuni termini. Ad esempio, chi saprebbe cosa sono gli “scolatoi” e che funzione avevano nelle navi da guerra? Servivano a scaricare in mare il sangue dei feriti o dei morti in combattimento sui pontoni. In quale altro romanzo si legge di un assalto navale e di uno scontro d’armi a bordo? La ricchezza lessicale è un aspetto nuovo e sicuramente di grande rilevanza linguistica, ma il motivo per cui lo evidenziamo è perché la sua frequenza crea un registro “tecnico” che non aveva luogo nella letteratura cavalleresca tradizionale, dove anche la descrizione delle armi era limitata ad alcuni elementi comuni. I combattimenti escono anch’essi dal generico e creano l’impressione del “vissuto” con dettagli che in seguito sarebbero stati etichettati come “realistici”. Si tratta, insomma, di un fatto di poetica, che si avvale di questo realismo linguistico e descrittivo per dare alla storia un sapore di veracità che i vecchi romanzi di cavalleria non avevano poiché consideravano “il vero” come un freno per il “fantasioso”. Dietro questo nuovo modo di narrare c’è una ragione profonda che, come presto vedremo, era legata ad una radicale innovazione del romanzo di cavalleria.
Ora, tale realismo non si limita solo alle descrizioni delle navi, ma coinvolge anche i mondi contigui dove le navi toccano la terra, ossia i porti. Questi segnano i traguardi e le tappe della navigazione. Gli spostamenti di flotte e di eserciti avvengono in un Mediterraneo che ad ogni spostamento si mostra sempre diverso ma anche molto uniforme, perché se le genti che vediamo nei porti hanno lingua e costumi diversi, esse svolgono funzioni che sono simili in quel mare così diversificato. In ogni porto troviamo quegli elementi da suburra e di affluenza che vanno con i traffici tra nazioni e con gli scambi di naviganti che vogliono sentirsi a casa quanto più diversi appaiono i porti che li accolgono.
I porti nel Tirant non sono luoghi di fantasia, bensì precise località geografiche registrate nei portulani, e sono vive nell’immaginario collettivo come luoghi di commercio e di traffici umani, di mescolanze di etnie e di avventurieri. Ad esempio, nel porto della capitale di Rodi una prostituta rivela ad un cavaliere dell’ordine degli Ospitalieri uno stratagemma ordito dai marinai genovesi consistente nella sostituzione delle palle delle balestre con pezzi di formaggio o di sapone, ed è un’informazione che sventa una vittoria sicura; tuttavia ciò che rende la storia “piccante” e pan-mediterranea è la presenza del lupanare accanto ai fondachi commerciali, siano essi rodiensi o palermitani. Nel porto di Palermo arriva un santone che valuta le capacità fisiche e mentali di un potenziale fidanzato della figlia del re: sono quelle indimenticabili presenze che spuntano in luoghi dove vite e destini e culture si incrociano e hanno la durata di eventi forti ma evanescenti.
In un porto del Medio Oriente Tirante (in questo caso al seguito del re di Francia) libera degli schiavi cristiani e li rimette in libertà. Un porto è anche quello di Costantinopoli, dove si celebrano spettacoli grandiosi, come quello dell’entrata di Tirante dopo gli anni passati in Africa. Qui i fuochi d’artificio, lo scampanìo delle chiese della capitale, i suoni di trombe e timpani e altri strumenti da fiato che accolgono Tirante sono la celebrazione della salvezza che arriva dal mare. E dal mare arriva anche il pericolo, con le flotte che assediano le città perché il mare è un confine fluido oltre il quale c’è la terra ferma di cui ogni forza in espansione cerca di impossessarsi.
I porti sono anche aperture al mondo dei sogni e del mistero, perché sono il limite fra le terre conosciute e il mare che si conosce solo fino al punto in cui arriva la vista, e oltre a quell’orizzonte esiste una realtà che si può solo immaginare. Per questo i porti come quello di Costantinopoli sono gli scenari in cui hanno luogo le regate e i giochi nautici che tutti i gli abitanti della sede imperiale, dall’imperatore al popolo minuto, corrono ad osservare dalla spiaggia perché sono lievi spettacoli di gioco che invitano al sogno di realtà distanti e misteriose. E questi giochi nautici sono anche una sorta di rivalsa o di esorcismo contro un mare irto di pericoli, un mare quello di Tirant attraversato da flotte arabe, genovesi, veneziane che si contendono il potere o che offrono i loro noleggi a chi li paga meglio. È il Mediterraneo delle opportunità commerciali e militari, formicolante di trafficanti che si muovono alla ricerca di ricchezze e di alleanze, di porti sicuri e di capisaldi costieri.
Martorell ritrae quel mare senza doverlo arricchire di immagini di fantasia o privarlo di ciò che lo rendeva essenziale per la vita dei popoli che si affacciavano sulle sue acque. Lungo le coste del Mediterraneo sono presenti i fonducs catalani, specie di posti di ristoro, forniti di viveri e di un prete e che svolgevano funzioni diplomatiche e commerciali con depositi di merci. Era anche un Mediterraneo dove non mancavano isole misteriose come quella visitata da Espercio il quale vi trova un serpente che, baciato da un cavaliere intrepido diventa una bella donna, cioè una storia molto simile a quella del fier baiser narrata da Boiardo e da vari romanzi medievali. Insomma un mondo ricchissimo e vario quello del Mediterraneo presente nel romanzo di Martorell, un Mediterraneo vitalissimo nel quale e attorno al quale si svolge la storia e si montano le tensioni fra i popoli costieri.
E a proposito di quest’ultimo punto, osserviamo che nella sponda meridionale del Mare nostrum non troviamo porti e non vi si svolge alcuna azione importante. Perché? Con questa domanda torniamo ad una considerazione fatta poco sopra: per tutto il periodo che Tirante passa nel mondo del Nord Africa, il mare non è mai presente, e il mondo di Costantinopoli e perfino Carmesina vengono rimossi. La storia però non si ferma, e Tirante lentamente ma inesorabilmente sale ai gradini sommi del comando, conquista territori vastissimi, fa alleanze, crea legami matrimoniali tra i popoli nordafricani, e, soprattutto, fa una politica da civilizzatore e converte popolazioni intere al cristianesimo. Quando questa missione è compiuta e l’incontro con Piacerdimiavita riporta nella vita di Tirante il mondo costantinopolitano, egli arma una flotta e ritorna alla corte dell’Imperatore al quale porta in dono l’Africa pacificata e cristianizzata. Ora questa può far parte dell’Impero perché, ormai cristianizzata, non ha più ragione di portargli guerra.
Ora capiamo che il periodo trascorso nel mondo nordafricano è stato un periodo di formazione che prepara Tirante ad essere un imperatore saggio e di tutti i popoli. Egli trascorre quegli anni tra vecchi nemici che però impara a conoscere e che riesce a conquistare con il suo carisma di condottiero di grandi virtù umane. Nel lungo soggiorno africano egli impara che i nemici non si vincono ma si conquistano con l’esempio e con la forza del carattere e con la “vera” religione. Tirante trascina i generali e regnanti che gli erano avversi nel momento in cui capiscono che vivere in pace nel mutuo rispetto è un bene per tutti. Lontano da Costantinopoli egli apprende il modo di vincere le guerre, e questo non può essere altro che l’unione dei popoli, e in questo caso la condivisione pacifica del grande mare salato.
Questa è la tesi che emerge dal romanzo, dal modo come è costruito e strutturato e da come il Mediterraneo vi è strumentalizzato. Il mondo vivrà in pace quando il Mare nostrum sarà unificato sotto un’unica bandiera che non può esser che la “nostra”, cioè quella cristiana. Purtroppo non è una tesi realistica, anzi è piuttosto un sogno pieno di nostalgia e di pathos. Quando Martorell scrisse il suo romanzo negli anni attorno al 1460, Costantinopoli era già caduta in mano agli Ottomani e l’Occidente invano avrebbe cercato di riportarla nella sfera della Cristianità. Perché mai, allora, Martorell avrebbe scritto un romanzo in cui ventilava l’ideale di un Mediterraneo unificato ma che tutti i lettori avrebbero considerato anacronistico? Forse la caduta di Costantinopoli o Bisanzio era tanto recente da far pensare ad una possibile riscossa, magari ad una crociata di riconquista.
Comunque stessero le cose, è vero che i sogni danno vita a grandi opere letterarie: anche Dante sognava di restaurare l’Impero quando la cultura comunale dei suoi giorni si muoveva in una direzione opposta. E forse anche Martorell era un sognatore. Però i sogni a volte rivelano delle verità che sfuggono alle persone deste; e dal Tirant si evince che il Mediterraneo potrà essere un mare pacifico, sicuro per chi lo attraversa solo se sarà unificato sotto un potere e una religione unica. E coglieva un’idea che ebbe lunga vita, come poi ha dimostrato la storia con la battaglia di Lepanto che, evidentemente, si veniva preparando da più un secolo.
E se Martorell scriveva immaginando un Mediterraneo unito, non per questo cessava di essere uno scrittore realista rispetto agli autori di tanti altri romanzi cavallereschi che lentamente diventavano desueti. Il Tirant appartiene, anzi in parte fonda un genere nuovo di romanzo che è stato chiamato “cavalleresco” e non semplicemente “di cavalleria”. La definizione viene dal grande filologo Martín de Riquer che è stato anche il primo editore moderno del romanzo di Martorell. Nuovo, infatti, è il tipo di cavaliere impersonato da Tirante. Questi, come diceva il curato che fa lo scrutinio della biblioteca di Don Chisciotte, è un cavaliere che dorme a letto e che mangia a tavola in quanto è per molti versi una persona normale e come tale può vivere solo in un nuovo genere di “romanzo cavalleresco”. In effetti questo nuovo genere si sviluppa insieme alle “biografie” e agli studi genealogici di “condottieri” quattrocenteschi che formano eserciti, conquistano Stati e instaurano dinastie signorili. L’archetipo del genere è la Histoire et pleasant chronique de Jean de Saintrè et des belles cousine, il romanzo di Antoine de La Sale (1456), che non è un’opera di pura invenzione, ma una sorta di biografia romanzata di un personaggio storico vero e distinto per virtù militari o civili.
Tirante è un personaggio immaginario, ma si muove in un mondo storico che Martorell dipinge con un certo scrupolo di fedeltà storica. Il Mediterraneo in cui ambienta la storia del cavaliere bretone ha innumerevoli dati corrispondenti alla realtà, e storici sono molti dei personaggi che vi compaiono, e veri sono tanti altri particolari del quotidiano che danno alla storia un’innegabile qualità documentaria, dalle descrizioni degli abiti, a quella dell’etichetta di mensa, dell’organizzazione delle processioni, per non dire delle armi e della vita marinara in genere. Per questo se ne consiglia la lettura a quanti si occupano di studi mediterranei perché dal romanzo catalano apprenderanno dati infiniti sul tenore e sui modi di vita sia in terra che in mare di chi viveva nel Quattrocento nella Catalogna protesa ad espandere il suo potere sul mare, su tutto il Mediterraneo, entrando in concorrenza con le altre grandi potenze marittime. Ho indicato molti di questi particolari in un recente studio, Ammiraglio Tirante. Studi sul Tirant lo Blanc (Modena, Mucchi, 2019), ma moltissimo ancora vi potranno trovare gli esperti di studi mediterranei.
Il Tirant procurerà ore piacevolissime ai suoi lettori grazie all’arte di un narratore notevolissimo che lascerà immagini e impressioni indimenticabili in chi si lascia trasportare da una voce narrativa avvincente. Lo studioso che invece si interessa ai mores e alla vita quotidiana quale si svolgeva nelle coste del Mediterraneo, ne ricaverà i frutti che un turista curioso sa trarre da una visita in paesi lontani. Nel Tirante vedrà come funzionava un mercato di prigionieri di guerra venduti come schiavi; vedrà come si vivevano le tensioni razziali; come si allestiva un banchetto in un giardino imperiale o in un giardino privato; apprenderà che tipo di portate si servivano e che tipo di musica veniva eseguita; come si intrattenevano i signori della corte stimolandosi magari con la proposta di indovinelli o di questioni di morale cortese; apprenderà qualcosa sulla vita che facevano i marinai nelle sentine; su come si confessavano l’uno con l’altro nei momenti in cui una tempesta marina li metteva davanti all’imminenza della morte; ricaverà informazioni su come avveniva la corrispondenza fra amanti e anche come facevano l’amore; su come ci si comportava durante le cerimonie religiose … Insomma un affresco meraviglioso di un modo di vivere sia nel quotidiano, sia nelle situazioni di guerra e di lutto e di festa. E per giunta l’autore riesce convincente, perché la veracità con cui rappresenta ambienti e situazioni umane gli derivava dal nuovo genere di letteratura e dalla poetica che abbracciava. Era la poetica del “romanzo cavalleresco” o delle biografie romanzate.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019). Di imminente pubblicazione è Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500=1750) [Ferrara, libreriauniversitaria.it.edizioni]. Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.
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