dialoghi oltre il virus
di Valeria Dell’Orzo
Il dilagare di una pandemia, variamente discussa e affrontata, politicamente strumentalizzata nella sua esaltazione o sottovalutazione, sull’onda delle curvature mediatiche della propaganda, ha trascinato gran parte del mondo verso la necessità di riformulare le più diffuse regole e abitudini del vivere e del comunicare, del rapportarsi, scardinando convenzioni socio-relazionali cronicizzate nella postura e nell’azione culturale che ogni realtà costruisce e utilizza.
Oltre a una maggiore attenzione per l’igiene, personale e degli oggetti coi quali si entra in contatto, la prima regola largamente diffusa per limitare il propagarsi dell’epidemia è stata quella del distanziamento interpersonale: allontanarsi l’un l’altro, ridurre al minimo le condizioni di vicinanza, escludere dal proprio quotidiano il coesistere lavorativo, ricreativo, educativo.
Limitare la propria socialità entro le mura domestiche, estremizzando l’uso dei dispositivi multimediali per attutire la solitudine e consentire, spesso solo in parvenza, la continuità produttiva di interi settori, ha alterato il consueto e assodato rapporto tra l’uomo e la comunità che lo circonda, ha soffocato la molteplicità di forme comunicative che prendono vita dall’incontro con l’altro, ha privato soprattutto i più giovani, germogli di una futura socialità, delle infinite possibilità che la vicinanza con un altro noi ci offre nella costruzione dell’io sociale e personale.
Allontanati dalle classi, come era indispensabile fare per invertire la curva del contagio, gli alunni di ogni ordine sono stati strappati da quei luoghi nei quali, in forma soffusamente vigilata, sperimentano la propria socialità.
La funzione della scuola non si limita, come è evidente, a mettere a disposizione dei più giovani delle conoscenze didattiche, va oltre anche all’immediata possibilità, fondamentale, di sperimentare i paradigmi di base della condivisione e della convivenza. La scuola è quel primo luogo di emancipazione e di affermazione dell’io, scandito da regole, ruoli, confini spaziali di un dentro e un fuori che segnano visivamente la necessità di seguire un codice relazionale concordato e specifico; è il campo entro il quale si diventa un individuo che prescinde, sia pur solo in un gioco di fingimenti e sottaciute omissioni del pensiero, dalla sfera più strettamente familiare, da quello spazio umano, affettivo e culturale, che rappresenta l’iniziale involucro della vita, il primo di quella serie di esoscheletri che sorregge e forgia l’individuo e la società entro la quale si nuove e che lui stesso modella.
È evidente che, così come spiega Durkheim (2008), il giovane, l’allievo, non può giungere in classe, sia pure questa una delle prime che segneranno il suo percorso educativo, in uno stato di neutralità morale. I primi e basilari riferimenti del vivere, del dovere, di ciò che è lecito o meno fare e delle modalità possibili di attuazione del rapportarsi, vengono portate come un bagaglio iniziale da ciascun individuo che si approcci alla vita sociale, e occorre tenerne conto, prendendo atto anche dell’influenza che la pressione social-informatica esercita sulle dinamiche interpersonali.
«L’azione educativa, infatti, non si esercita su una tabula rasa» (Durkheim, 2008: 575), e quel vivido sostrato sul quale poggiano i vari interventi, sul quale è possibile far germogliare conoscenze, competenze, curiosità e abilità imprescindibili al vivere comune, va tenuto in considerazione durante tutto il percorso che si compie a scuola; occorre prendere atto delle specifiche realtà che compongono un generico gruppo classe, per permetterne uno sviluppo omogeneo, è necessario altresì prendere atto dell’importanza basilare delle relazioni che ogni allievo stabilisce fuori e dentro l’aula, per far sì che la crescita non si muova secondo parallelismi dissociati, ma che riesca in modo fluido a scivolare anche tra quei piani slegati, disgiunti, fragili e frammentari che costituiscono la trama della complessità e della socialità. «L’individualismo delle nostre società tende a porre uno spazio di riserva tra sé e l’altro al fine di consentire al sé di preservarsi in seno a società dove si vive sempre meno insieme e sempre più l’uno di fianco all’altro. Società in cui l’“io personalmente” ha la meglio sul “noialtri” e dove la civiltà diventa uno sforzo e non più un’evidenza collettiva» (Le Breton, 2014: 232); ma anche in uno scenario così strettamente individualizzante come quello prodotto dal vorticoso flusso della globalizzazione, la repentina privazione delle consuetudini d’incontro non può che essere stordente.
Trovarsi catapultati nell’impossibilità di gestire la propria quotidiana prossimità con gli altri ha stravolto le dinamiche abituali del coesistere e del reciproco relazionarsi nei differenti settori che partecipano a delineare la vita privata e pubblica di ciascuno di noi. «I gesti informali del lavoro mettono in relazione le persone e creano tra di esse un legame emotivo; il potere dei piccoli gesti è avvertito anche nei legami comunitari» sintetizza Sennet (2014: 242). Se per gli adulti uno dei maggiori ostacoli è stato rappresentato dal doversi adeguare, in brevissimo tempo, a un sistema tecnico di comunicazione filtrato da un supporto audiovisivo, che quindi ha estromesso o riformulato quei gesti che sorreggono e modellano i rapporti con gli altri noi, per i più giovani, maggiormente avvezzi all’uso delle tecnologie e già in gran parte capaci di gestire la propria vita sociale attraverso gli scambi in rete, la rivoluzione è consistita nel vedere estendere alla società tutta una forma di gestione delle relazioni umane che, fino al giorno del dilagare dello smart working da lockdown, era stata di loro quasi esclusivo dominio.
Una sorta di invasione ha travolto e intasato i canali comunicativi che i più giovani avevano ritagliato per sé, spesso criticati, osteggiati e incompresi, e li ha pressati nell’uso esclusivo di un filtro che, se imposto, si depaupera di significati, fino a divenire una mera costrizione avvilente, un contatto che si attua secondo dinamiche non più elette come dominio di una specifica fascia generazionale, ma come livellanti veicoli di dialogo intergenerazionali e professionalmente trasversali.
«A pensarci bene, automatismo e ottundimento, se da un lato attenuano il grado di arbitrarietà di un modello culturale, dall’altro ne riducono, per così dire, lo spessore: esso viene ripetuto in quanto tale, senza particolari motivazioni esplicative», riflette Remotti (2011: 230), e così l’uso imposto di un canale che prima rappresentava scelta e rifugio ha evidenziato l’importanza della vicinanza, della fisicità, dell’incontro non solo virtuale, ma fatto di tatto. «Toccare l’altro significa tenersi sull’orlo dell’abisso aperto della sua presenza» (Le Breton, 2014: 234), di odori, di prossemica in tempo reale. «L’odore si diffonde nello spazio: è un respiro trattenuto che avvolge gli oggetti, privo di estensione reale o di precisa localizzazione; un’atmosfera che si spande attorno a una zona insieme localizzata e indefinita. […] Determina l’atmosfera affettiva di un luogo o di un incontro perché è una morale lieve, aerea ma dagli effetti potenti, anche se si mescola sempre all’immaginario […]. L’odore è un marcatore di atmosfera» (ivi: 261), e la compresenza nello stesso spazio permette di condividere quel bagaglio di memorie proustiane e di suggestioni del ricordo che fanno parte dell’individuo e lo legano all’umanità circostante, nel presente e nel suo futuro in società.
L’emergenza sanitaria, la paura diffusa, i rischi effettivi della vicinanza hanno fatto sì che le relazioni interpersonali subissero una sospensione dalla fisicità e dalla prossimità e si traslassero in modo esclusivo sui monitor. I volti e le voci delle persone care, dei compagni di classe, degli amici, degli insegnanti sono rimasti a lungo solo luce fredda chiusa da una cornice plastica. Quei rifugi digitali della chiusura adolescenziale al mondo adulto al quale occorre opporsi per sancire se stessi come individui pronti a emanciparsi, sono stati invasi da orari, appuntamenti e lezioni. Il diritto a relazionarsi ha inglobato in sé lo sguardo offuscato da un click sulla cam, l’icona di un microfono da disattivare per ribellarsi al diritto di studiare.
Questa irruzione della società adulta all’interno di uno spazio che vede nei più giovani i suoi attori principali, creatori e fruitori di tendenze, traducibili in veri sistemi di comunicazione e aggregazione, ha fatto sì che quello spazio, virtuale ma presente nel concreto di tutti, si alterasse nel sentire diffuso, divenendo il principale luogo di transito comunicativo, non solo a uso mediatico, politico e economico, ma anche intergenerazionale e scolastico. «C’è uno stringente nesso logico tra i limiti e le potenzialità dello sviluppo», sottolinea Chomsky (2015: 257), e la scuola vi si è imbattuta nel tentativo di non arrestarsi di fronte all’impossibilità di proseguire in classe le proprie attività; ha così dovuto rinunciare, sia pure in forma momentanea, alla prima necessità della conoscenza e della crescita: l’incontro e la condivisione, sia questa spaziale, di codici e regole, di doveri e di diritti. «Gli stessi fattori che limitano lo sviluppo di un organismo garantiscono che esso acquisisca una struttura ricca, complessa e articolata» (ibidem), e così l’organismo complesso che il gruppo classe rappresenta nella micro-società scolastica, si è riformulato all’interno di uno spazio virtuale, privo della fisicità, della motilità, dell’interazione diretta tra i vari membri che ne compongono la realtà, traslando sul filtro di un monitor, di chat e email tutto il complesso insieme di scambi che creano e stringono i basilari rapporti interpersonali che sorreggono comunità e collettività.
Come è inevitabile notare, però, «lungi dall’essere degli ausiliari unicamente dediti alla sicurezza e al miglioramento delle condizioni di vita, la tecnologia e la scienza sono oggi portatrici di una pesante ambivalenza. In un mondo in cui tutto è collegato, nessun rifugio è più possibile » (Le Breton, 2017: 64); così il dilagare di un virus, e le strategie messe in atto per far sì che il vivere quotidiano non si arrestasse del tutto stagnando in una sterile attesa, hanno portato a galla con evidenza le disparità sociali che scorrono sotto traccia lungo il globo; le differenze economiche e, per stretta connessione, di sviluppo e accesso alle tecnologie più recenti, si sono palesate non solo nella maglia dei rapporti tra i vari Stati e le differenti realtà socio-geografiche, ma sono balzate agli occhi tutte quelle disuguaglianze e stratificazioni sociali che compongono e attraversano la complessità dei mondi abitati. «Non c’è collegamento diretto tra l’intensità di una catastrofe e il suo impatto distruttore, poiché l’ambiente sociale e culturale, là dove avvengono, può ammortizzare o moltiplicare i danni, così come la reazione delle popolazioni dopo la tragedia. Il grado di vulnerabilità sociale è un dato fondamentale per comprendere l’ampiezza delle conseguenze» (ivi: 67)
Mentre i media rimbalzavano dati, numeri, grafici e carte geografiche che sommariamente sancivano, con zone colorate, nuovi confini, recinti sempre più stretti e angusti, figli presuntuosi di una visione economica della vita governata dal Pil e dallo spread, la parte più giovane della società ha visto portarsi via il principale spazio del convivere e del crescere insieme.
Allontanati dalle classi, dai centri sportivi, dai giardini, dalle piazzette e dai gradini dove si elegge il punto di ritrovo di ogni gruppo, i giovani sono stati costretti a fare di quei canali di comunicazione, ai quali loro più di tutti erano avvezzi, spesso osteggiati dal mondo adulto e genitoriale, l’unico veicolo di socialità, di studio, di rispetto delle regole e delle convenzioni sociali, l’unico luogo di protezione e di comunicazione. Ma di fronte a un’inversione così repentina tra ciò per cui si è rimproverati e quella stessa dimensione fatta obbligo cui attenersi «intervengono la perplessità, la sofferenza e un senso di paradosso etico insolubile, che costituiscono altrettante sfide radicali alla comprensibilità della vita umana, e alla nostra capacità umana di orientarci, mediante la riflessione, in maniera efficace verso la vita» (Geertz, 1972: 26).
È riferendosi a Edward T. Hall che Ida Castiglioni (2008: 62) sottolinea quanto rilevante sia «l’importanza dell’uso dello spazio interpersonale e pubblico nella convivenza sociale e sottolinea come questo sia gestito diversamente a seconda della cultura di riferimento. Tutti noi abbiamo uno spazio di sicurezza all’interno delle relazioni personali, detto anche bolla o uovo prossemico, che ci consente un certo grado di prossimità fisica con i nostri interlocutori». Ma come gestire una comunicazione che si svolge e si sviluppa solo all’interno di una estremizzata bolla? Come costruire in dialogo che deve prescindere del tutto dalla prossimità tra interlocutori che spesso non afferiscono allo stesso sistema socio-generazionale e che quindi si muovono con un diverso approccio all’interno del campo dialogante del reale virtuale?
Le difficoltà riscontrate dal mondo che possiamo genericamente definire adulto, di certo sono state differenti rispetto a quelle che invece hanno coinvolto i più giovani, depauperati del contatto in una delle più delicate fasi evolutive della vita dell’essere umano in società e invasi da una massa di apprendisti del virtuale, di quello spazio del quale avevano un quasi esclusivo controllo, almeno per quel che concerne il campo delle relazioni interpersonali.
Come muoversi, dunque, lungo una maglia che non si avverte più come propria e rassicurante? Come non ridere dell’inesperienza dei più grandi che goffamente cercano di padroneggiare la mappa di un luogo che non appartiene loro? Come sentire ancora la rassicurazione del rifugio in quello spazio improvvisamente attraversato da coloro dai quali, per un necessario gioco delle parti, occorre differenziarsi?
Comprendere quanto importante sia per i più giovani condividere tra pari uno spazio di crescita non solo personale e culturale ma ancor più sociale e relazionale, ci permette di misurare la profondità della spaccatura che una socialità meramente informatica porta in sé. Invasi nei loro luoghi virtuali, stanati tra le tante piattaforme dei supporti digitali che li schermavano dal mondo adulto e trascinati nella regolarizzazione di un mondo che esulava dalla scuola, dai compiti, dagli insegnanti, dal dovere, i giovanissimi della società hanno dimostrato trasversalmente di sapersi adattare, plastici e fluidi, e ancor di più hanno mostrato quanto in realtà nella loro chiusura digitale non vi fosse un attutirsi delle relazioni ma solo la necessità di trovare un luogo riservato nel contesto indistinto dell’ibridazione intergenerazionale contemporanea. Uno spazio che sempre meno sancisce luoghi di specifica pertinenza tra il mondo adulto, spesso irrisolto e a caccia di una disperata giovinezza, e il mondo degli adolescenti, prorompenti di vita in divenire e alla ricerca di margini e ruoli sociali entro i quali riconoscersi ed affermarsi.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Riferimenti bibliografici
Ida Castiglioni, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Carocci, Roma 2008.
Noam Chomsky, Anarchia. Idee per l’umanità liberata, Ponte delle Grazie, Milano, 2015.
Émile Durkheim, L’educazione morale, in Il suicidio. L’educazione morale, UTET, Torino, 2008.
Clifford Geertz, La religione come sistema culturale, in La religione oggi, a cura di Donald R. Cutler, Mondadori, Milano, 1972.
David Le Breton, il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina ed, Milano, 2014.
David Le Breton, Sociologia del rischio, Mimesis, Milano, 2017.
Francesco Remotti, Cultura, dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Bari-Roma, 2011.
Richard Sennet, Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano, 2014.
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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