di Silvano Sabbatini
Agile ma denso, il testo di Luca Martinelli, L’Italia è bella dentro. Storie di resilienza, innovazione e ritorno nelle aree interne (Altreconomia 2020), ci introduce alla conoscenza di alcuni casi di intervento da parte di enti pubblici o privati, a sostegno delle “terre fragili”, quelle nel nostro Paese più lontane dai centri urbanizzati; zone collinari o montane ad economia silvo-pastorale, vittime ormai da decenni di uno spopolamento talvolta al limite dell’abbandono. Tra questi interventi spicca soprattutto la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), una “intuizione” di Fabrizio Barca, ministro per la Coesione territoriale nel governo guidato da Mario Monti (2014), con la quale si è voluto mettere «a disposizione dei territori marginali risorse dello Stato italiano e comunitarie, nell’ambito dei fondi strutturali per le politiche di coesione territoriale». La Strategia viene descritta in un ampio capitolo che accoglie diversi contributi, con i quali il lettore può farsi un’idea abbastanza precisa sulla natura delle problematiche in gioco, sulla organizzazione delle attività, sulle soluzioni proposte, sui limiti dell’azione che comunque vengono individuati.
Nei capitoli successivi vengono trattati singoli casi di intervento, dando nome e cognome alle persone cui la Strategia ha riconosciuto la rispondenza ai propri obiettivi: persone, è importante specificarlo, già portatrici di un loro progetto, al quale attraverso gli organi preposti si è voluto dare un contributo tecnico ed un sostegno finanziario. Quest’ultimo poggia per il 2020 su uno stanziamento di 200 milioni di euro, fissato nella legge di Bilancio. Sempre con nomi e cognomi appaiono i casi relativi all’operato di due enti privati impegnati sulle medesime problematiche, la Fondazione Edoardo Garrone di Genova, operante su tutto il territorio nazionale, e la Fondazione Cariplo, attiva nelle province lombarde.
Il testo è di fatto scritto a più mani, accogliendo interviste, opinioni, descrizioni svolte anche da altri autori, puntualmente citati. In realtà si tratta quasi sempre di autori-attori, protagonisti diretti dell’intervento descritto, il che non può che aumentare il valore delle loro testimonianze. Luca Martinelli, responsabile principale dell’opera, ha fatto parte del gruppo di lavoro della SNAI, occupandosi della comunicazione; ha scritto altri libri per lo stesso editore, cura il portale “Storie di giovani imprese” della Fondazione Garrone, dal 2020 collabora con Opencoesione.
Addentrandosi al suo interno il lettore ricaverà dal testo una visione via via più consapevole delle problematiche in gioco, definibili talvolta di natura demografica, di assetto idro-geologico, in altri ancora culturale: spesso ricollegabili ad una “perdita”, non di rado ad una “nascita”. Così a pagina tredici apprendiamo che oltre 12 milioni di persone «continuano tenaci a vivere nelle aree interne, dentro l’Italia». Oltre un quinto della popolazione totale. Aree pregiatissime: limitandosi al solo Appennino troviamo 12 Parchi nazionali e ben 36 Parchi regionali. Lo stesso Appennino garantisce con le sue imprese un valore aggiunto di 202,9 miliardi di euro, pari al 14% del valore aggiunto nazionale, anche qui realizzato soprattutto a nord! (Atlante dell’Appennino, Fondazione Symbola).
Aree tuttora soggette a spopolamento: nelle 72 zone interne individuate dalla SNAI, tra il 2001 e il 2017 quasi l’8% dei residenti ha lasciato il territorio. Con un prodotto interno lordo procapite generalmente inferiore alla media nazionale: tale differenza è nel caso delle 72 aree SNAI pari a circa 5.000 euro. Eppure oggi, ci dice Martinelli, «le città, le aree metropolitane, non attraggono tutti, e – anche tra i giovani, anche tra coloro che hanno una laurea – ci sono persone che scelgono di vivere nelle zone cosiddette marginali». È ai più attivi tra questi soggetti che ci si vuole rivolgere, siano essi rurali nati e vissuti sul posto, neo-rurali pervenuti ex-novo alla vita agreste, rurali di ritorno nati in campagna, trasferiti in città e infine tornati all’ambiente originario; o anche rurali part-time divisi tra più occupazioni ma residenti comunque sul territorio.
Leggendo il libro si viene colpiti da alcuni concetti ricorrenti, che stimolano la riflessione. Il primo è certamente quello della ineludibilità dei Servizi essenziali: istruzione, mobilità, sanità. Ovunque vengono citati, richiamati, invocati. Appaiono come la base su cui costruire, per rompere l’isolamento, eliminare il senso di abbandono, superare le frustrazioni culturali lamentate dalle comunità locali. Per dare una risposta praticabile alle richieste di educazione dei figli, all’aggiornamento e formazione degli adulti; alle necessità di spostamento e comunicazione; alla sicurezza per la propria esistenza. «Così ci siamo resi conto che in moltissimi casi è proprio la progressiva perdita dei servizi che determina l’abbandono. È stato un cambio di prospettiva importante: improvvisamente abbiamo cominciato a ragionare nei termini di lotta al sottosviluppo, più che di promozione allo sviluppo» (Filippo Tantillo, coordinatore SNAI). Questi servizi appaiono come le precondizioni allo sviluppo, citando Amartya Sen. Qualcuno potrebbe chiedersi perché non vengano forniti come servizi pubblici: constatata la loro assenza o insufficienza, non resta che ingegnarsi per trovarvi soluzione, notando peraltro come, alla fine, quasi mai manchi l’apporto proprio del settore pubblico, specie di quello locale!
Nel testo vengono evidenziati diversi casi, come l’Ostetrica di comunità in Abruzzo, la Didattica a Distanza, il Dopo scuola o il Tempo pieno nell’Appennino parmense-piacentino, l’Infermiere di comunità, il Trasporto a chiamata o la Cooperativa di servizi nelle valli liguri e piemontesi, l’Assistenza domiciliare agli anziani o i Negozi di comunità che in molte zone diventano uffici postali, depositi di medicinali, internet point. Occorrerebbero – ci ricorda Fabrizio Barca – una copertura dei territori con la banda larga, un sistema di trasporto flessibile con bus di dimensioni adeguate, non eccessive, possibilità di accesso al credito svincolate dal patrimonio posseduto, che sostenga tra l’altro l’impresa giovanile in agricoltura. Che siano pubbliche o private, le soluzioni alla richiesta di questi servizi vanno trovate, pena il fallimento di qualunque intervento.
Un concetto ribadito più volte è anche quello per cui ci si debba basare su realtà preesistenti, su persone concrete, già attive, cui fornire mezzi e possibilità. Si parla di politiche place based, volendo ricorrere all’irrinunciabile inglese. Non si vuol lavorare come il dott. Frankenstein, dando vita ad un corpo morto, ma partendo da chi è già ben vivo e animato da un progetto: «Non possiamo trasformare un contadino in un albergatore, dobbiamo cogliere chi si sta già muovendo» (Tantillo). Questi Soggetti innovatori dovranno poi operare in un sistema di relazioni che renda l’intervento diffuso sul territorio: realizzare filiere produttive, operare in cooperative, promuovere associazioni, fornire servizi di comunità. L’intervento è per il territorio, non per il singolo, deve contribuire a risolvere un problema comune, non personale.
Anche dove il contributo si realizza a favore della singola impresa lo scopo ultimo è l’incidenza sul territorio. Già dal nome, AttivAree, il programma della Fondazione Cariplo rivela i suoi obiettivi. Contribuire all’apertura di un Ostello e di un bar in un comune montano isolato del bresciano, gestiti da una Cooperativa sociale che inserisce al lavoro persone con disabilità, può significare la soluzione a diversi problemi, compreso quello di restituire un senso di identità alla comunità residente.
Indicativo il caso di Tularù, l’azienda multifunzionale di Miguel Acebes e Alessandra Maculan, 60 ettari di bosco, pascolo e seminativo nella montagna di Rieti, ereditati in stato di abbandono insieme al casale dal nonno materno di Miguel. Nel 2014 ottengono l’iscrizione al primo campus ReStartApp di Fondazione Garrone: partendo dall’attività base, il pascolo brado bovino, realizzata con forme di pascolamento razionale (rotazione quotidiana dell’intero branco, in modo da non penalizzare le erbe migliori), si decide di integrarla con una filiera del grano, per rendere il tutto economicamente sostenibile. Si scelgono varietà locali di grano, partendo dal “Grano Rieti” di Nazareno Strampelli, Rieti 1, Biancola, Terminillo ecc. Si adotta un modello di agricoltura organica e rigenerativa (AOR) mirata ad abbassare i costi con il recupero della fertilità naturale dei suoli, condiviso con altre aziende agricole del luogo: 8 aziende riunite con Tularù in cooperativa, più altre 25 conferenti in filiera. Si realizza un laboratorio per la panificazione e la cucina, allestendo la ristorazione e l’alloggio in fattoria. Si dà uno sbocco ai prodotti agricoli, rifornendo un forno e un laboratorio di pasta fresca a Rieti. La carne viene venduta direttamente al consumatore, con prenotazioni su 4 o 5 macellazioni l’anno.
Nel 2014 venivano seminati 5 ettari, nel 2019 sono saliti a 22 ettari per il complesso delle aziende coinvolte nella cooperativa. Le parole di Miguel sono illuminanti: «Il nostro obiettivo è quello di creare un’economia per il territorio, che ne valorizzi le potenzialità e che vi trattenga il valore aggiunto rappresentato dalle sue unicità. Ho ritrovato in Tularù il motivo per cui avevo deciso di fare teatro: la volontà di vivere in un ambiente in cui si costruisce un tipo di relazione profonda. Mi sentivo appagato quando operavo con compagnie amatoriali e non, oggi però riconosco che la terra come comune denominatore è più forte. La relazione diventa universale».
A qualche lettore potrà apparire un po’ pedante o persino ideologico, fare continuo riferimento per queste forme di economia al “biologico”, al “naturale”, ad un “sistema di relazioni”. Lo stesso riferimento ad attività “antiche” come l’agricoltura, l’artigianato o il turismo rurale, può dare, ad una lettura superficiale, l’impressione di una forzatura, operata per mantenere in piedi qualcosa di folcloristico, quasi ad impedire uno sviluppo di tipo più “moderno”. In realtà, a ben vedere, si tratta di necessità: non c’è di fatto nessuno che avanzi piani più “moderni”. L’erosione dei suoli, l’innalzamento delle quote di innevamento, non lasciano molto spazio a progetti di agricoltura intensiva, o di avveniristici impianti per sport invernali. L’industria poi si tiene alla larga da questi territori. Restano solo le produzioni tradizionali o quelle compatibili con le condizioni ambientali. E per queste c’è un solo piano sul quale possano confrontarsi con le altre, ed è quello della qualità. Solo differenziandosi per la genuinità, la naturalità, il carattere artigianale, il riferimento ad un territorio, è possibile per questi produttori ottenere un vantaggio competitivo. Condizione di successo sarà la presenza di un consumatore maturo, accorto, sensibile, attento al territorio, informato da una comunicazione adeguata. E nella qualità è compreso anche quel “capitale di relazioni” che si è in grado di mobilitare, il cui valore venga riconosciuto dall’utilizzatore finale.
Questo vale non solo per le produzioni alimentari, come dimostrano i casi citati nel testo della filiera bosco-legno in Alta Carnia, delle case di paglia nell’Oltrepò Pavese o di quelle in terra (Abruzzo, Marche, Sardegna..), della Rete dei coltelli nel comasco, dei manufatti in lana realizzati in Alto Adige da Bergauf. Gli operatori mostrano di avere ben chiare le idee quando si preoccupano di trovare gli sbocchi adeguati alle loro produzioni, come accade per tutti i casi citati.
Ad esempio in quello della Rete “Si parte dal bosco” (una Cooperativa edile, una Segheria, una Cooperativa forestale) che nel Biellese e Canavese ha l’obiettivo di «costruire una filiera chiusa, ossia passare dal coltivatore al realizzatore e poi agli utilizzatori». Parliamo di 4.000 ettari di bosco a disposizione, 60 persone coinvolte, materie prime a km zero, soprattutto castagno, tagliato in assi sul posto a beneficio di tutte le piccole segherie di zona; realizzazioni edili in bioarchitettura, una Scuola di Economia Civile (!) per una crescita consapevole, tra globalizzazione ed economia circolare e locale. Giustamente la redattrice del testo, Silvia Passerini, si sofferma sulle problematiche in gioco: in Italia le superfici boschive sono aumentate, nel 2015 erano oltre 11 milioni di ettari, ben più di un terzo della superficie totale nazionale. 170.000 ettari sono a querceto, ma la maggior parte del legno di rovere per usi industriali proviene dall’estero: aumentate anche le importazioni di segati, legni da cellulosa per carta, cippato e scarti in legno. Dodici milioni di metri cubi importati a fronte di una produzione interna di 2 milioni mc.
Dice Gianni Tarello, presidente della Cooperativa Forestale Valli Unite del Canavese: «La gestione ecologica prevede il recupero del 4% del bosco, noi oggi in Italia utilizziamo solo un quinto di questo 4%. Un dato triste che ben rappresenta l’abbandono e che dà ragione del dato per cui in Italia sono censite il 70% delle aree a rischio idrogeologico di tutta Europa… Si dice sempre che l’Italia è ricca solo di boschi poveri, ma questo non è vero perché a volte in soli 10 mq abbiamo anche tre specie diverse». Per gli economisti il settore forestale rappresenta appena lo 0,08% del valore aggiunto nazionale, un calcolo influenzato dall’incuria, indotta dall’idea che risulti più comodo importare; e dall’assenza di una strategia uniforme dovuta anche alla eccessiva frammentazione fondiaria, male comune a tutto il mondo agricolo (è il caso di citare il capitolo sulle Associazioni Fondiarie: con un’adeguata forma contrattuale si cerca di dare un gestore a terre che altrimenti resterebbero inutilizzate, proprio a causa dell’assenza di quel “sistema di relazioni” che i singoli non riescono a creare).
Il calcolo degli economisti tende (come sempre!) ad essere parziale: celere nel registrare costi e ricavi al momento in cui si monetizzano, diventa distratto quando si tratta di valori che non si traducono nell’immediato in moneta. È il caso dei costi del degrado, concausa del dissesto idrogeologico e degli incendi; dei ricavi per la fissazione del carbonio: 40 ettari di bosco compensano le emissioni di CO2 di 100 auto in un anno. È il caso dei ricavi conseguenti alla conservazione della biodiversità e del paesaggio. Si tratta dei cosiddetti servizi ecosistemici, considerati “senza mercato”, quindi “senza prezzo”. Misurare il valore di queste economie richiede una cultura che sembriamo ancora lontani dal possedere. Forse basterebbe accettare l’idea che non esiste una sola via per lo sviluppo economico, riconoscere che non si debba applicare in ogni luogo e in ogni tempo sempre lo stesso modello. Il rapporto con le diversità ambientali e culturali ci dovrebbe suggerire una maggiore elasticità. Un’elasticità che ci viene richiesta dalla variabilità delle condizioni dell’esistente, ad esempio dai cambiamenti climatici: cambiano i profili dei litorali, le latitudini per la vita di flora e fauna, i limiti altitudinali per le coltivazioni, le temperature, le precipitazioni atmosferiche.
Ci viene richiesta dalle realtà migratorie con le quali dobbiamo necessariamente fare i conti: nel testo vengono citati alcuni bei casi di “integrazione”. Al proposito, non sarebbe meglio chiamarla “interazione”, come qualcuno ha proposto, visto che non sono soltanto gli altri a venire da noi, ma anche (per esempio) le nostre armi e i nostri capitali ad andare da loro? In Val Comino, nel frusinate, l’Associazione sociale Rise Hub si occupa «di coesione territoriale e di integrazione, lega ritornanti e nuovi abitanti. I primi sono giovani nati nella valle che sono rientrati dopo esperienze di studio e di lavoro all’estero, i secondi invece sono i migranti e i rifugiati, arrivati in particolare da Africa ed Asia». Anche in questo caso veniamo a scoprire una rete di soggetti (caratteristica comune degli interventi!) che agendo nello stesso senso, la lotta allo spopolamento, arrivano a creare delle realtà operative: una associazione, Borghi Artistici Impresa sociale, in collaborazione con il Gal (Gruppo di Azione Locale) Versante Laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo e col sostegno della Regione Lazio, ha promosso il progetto Terre Comuni, «4 incontri in tre mesi su impresa creativa, europrogettazione, fare gruppo, agricoltura, innovazione sociale ed inclusione».
Da un suo programma di accompagnamento formativo è nata Rise Hub, venti membri attivi a maggioranza donne, fucina di idee e di interventi sul territorio, soprattutto al fine di invertire il processo di desertificazione demografica. Vale la pena di notare sull’argomento la cautela dell’autore, quando invita a «sfatare la retorica del ripopolamento dei borghi attraverso nuovi residenti non italiani». Accanto all’elasticità-variabilità, occorrerà ricercare il giusto equilibrio negli interventi. Tutto il “male” non viene per nuocere, ed anche al “bene” ci può essere un limite. Non si può pensare di ripopolare all’infinito questi territori, sul modello delle concentrazioni urbane! Lo spopolamento è stato un bene dove ha spostato manodopera improduttiva, come si può intuire dal caso di “Una Montagna di latte” nel reggiano, dove a raddoppiare negli ultimi anni è stato il valore delle produzioni casearie, e non il numero degli addetti, che non potrà certo tornare ai livelli del 1948! Né si potrà procedere all’infinito nello sfruttamento delle risorse naturali: lo abbiamo già visto nel caso del legno. Peggio ancora sarebbe il misurare la validità degli interventi, ponendosi per obiettivo il raggiungimento di livelli di reddito da zona altamente industrializzata! È evidente la necessità di imparare a ragionare in termini diversificati, se vogliamo davvero contribuire al recupero di queste aree. Senza dimenticare come esse stesse siano differenti l’una dall’altra, per natura geologica, tradizioni culturali, vocazioni produttive: non si tratta di applicare un modello unico, ma di cogliere le potenzialità locali.
Nel testo sono più di trenta le singole realtà territoriali citate, oggetto di intervento; altrettante le associazioni, gli enti, gli eventi collegati. Alcune sono trattate per esteso, altre descritte sommariamente o semplicemente nominate. Non sempre è facilitata la comprensione delle modalità o del volume degli interventi, ma la sintesi era necessaria per l’agilità della lettura. Infine è ovvio che il libro non esaurisce la miriade di realtà presenti in quei territori. Chi scrive può testimoniare la validità di esperienze maturate in luoghi “inaspettati”, vittime di quella cronica e deleteria mancanza di notorietà, dovuta ai limiti della loro comunicazione. Penso al Gerrei cagliaritano, con il sistema museale di Armungia, comprendente il museo dedicato ad Emilio e Joyce Lussu, autentico gioiello per la conoscenza storica del nostro Novecento, e quello etnografico Sa Domu de is Ainas; il Museo minerario di Su Suergiu a Villasalto; la Cooperativa Agricola di S. Nicolò Gerrei, attenta alle produzioni locali, e il suo Agriturismo Su Niu De S’Achili; lo straordinario laboratorio didattico di tessitura sarda tradizionale e innovativa di Casa Lussu, sempre ad Armungia.
Penso anche al grande lavoro svolto in Abruzzo a favore dei territori marsicani da Erci Team e dal suo instancabile promotore, Sergio Rozzi: progetti di coesione territoriale mirati su una pluralità di emergenze ambientali, culturali e produttive, “Il Cammino della Bauxite” e “Alla Ricerca della Via dei Marsi”. Penso infine a Lampedusa, “Porta d’Europa” dimenticata dall’Europa, piccola isola sperduta nel Mediterraneo, chiamata a sostenere le incombenze di un intero continente. Le realtà sono tante, e meno male! Il merito più grande di questo testo è forse quello di innestare la curiosità: proprio la sua limitatezza porta il lettore interessato a porsi nuove domande e a farsi venire la voglia di conoscerle di persona queste realtà.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
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Silvano Sabbatini, laureato in Economia e Commercio, presso L’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, con tesi di laurea in Geografia Economica: “Ipotesi di Parco Regionale nel comprensorio dei Monti della Tolfa”, 1980 (relatori prof. Paolo Migliorini e dott. Longino Contoli), è stato docente di Economia Aziendale presso l’ISS Lucio Lombardo Radice di Roma, dove ha curato per più di venti anni i progetti ambientali per la conoscenza del territorio laziale, attraverso giornate di trekking e conferenze; nonché le attività musicali, anche nell’ambito del progetto Romarockromapop del Comune di Roma, organizzando corsi musicali, concerti ed eventi. Ha realizzato diversi prodotti multimediali sulle attività svolte. Attualmente è pensionato.
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