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Cosmologie vegetali e rituali di nascita

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Matteo Plateario, Circa instans seu de medicamentis simplicibus, Scuola di Salerno

di Sonia Giusti

I rimedi empirici a difesa della salute che si basano sulle proprietà benefiche delle erbe e che si praticano nell’ambito della cultura folklorica, sono accompagnati, generalmente, da rituali di protezione magico-religiosa che, anche se ormai in declino e limitati alle aree rurali e montane, resistono ancora specialmente nel sapere delle donne anziane depositarie di un patrimonio di conoscenze, di esperienze e di credenze assai antiche. La suggestiva dimensione magica di tali pratiche, tuttavia, si intravede ancora sotto le forme rielaborate in chiave moderna e riproposte dalle erboristerie e dalle riviste della salute che non rifuggono dal presentare le piante salutifere evocando misteriosi echi di magia.

In un settimanale di psicosomatica si offrono “scacciadolori naturali” come strumenti di pronto soccorso offerti dalla natura, “artigli del diavolo” contro i dolori muscolari o piantine dalle assicurate proprietà chimiche, come la potentilla. Questa piantina sarmentosa, detta anche “piede d’oca”, che strisciando a terra si radica formando nuove piante, viene raccomandata alle donne che, si dice, “non hanno un buon rapporto con le proprie radici biologiche”. La potentilla è dunque garantita contro i disturbi e le irregolarità mestruali che vengono lette in chiave psicologica come “mancanza di contatto con l’elemento terra” e caricate di valenze simboliche che trovano riscontro analogico con la potentilla, appunto, che rappresenta la madre terra e si attiene al ritmo cadenzato delle stagioni [1].                                                                                                                                       

Nella medicina popolare i rimedi vegetali sono stati usati nelle più diverse situazioni a rischio, quindi anche nei momenti difficili del parto secondo i principi della magia simpatica della somiglianza e della contiguità che, nella classificazione di James G. Frazer, si distinguono in omeopatici o della similarità e contagiosi [2].                         

Nella storia di lunga durata delle mentalità dei popoli occidentali – e nelle scelte culturali di altri popoli che gli etnologi ci hanno fatto conoscere – si constata l’universale cura riservata al parto palesata nella mitologia che si coglie specialmente nella presenza di mitologemi conservati nei reperti archeologici. Si tratta di testimonianze che mettono in luce la preoccupazione costante degli uomini di controllare la procreazione e la nutrizione con appropriati riti apotropaici, accompagnati da amuleti di fertilità; si pensi alle figurine femminili callipigie ritrovate in siti archeologici e alle danze di fertilità delle pitture rupestri.                                                    

ll tema della madre nella sua funzione generatrice, infatti, si diversifica morfologicamente nella concretezza storica dei contesti sociali conservando nei millenni il nocciolo duro del mitema. Le statuette femminili dei reperti archeologici testimoniano la presenza di culti resi a divinità femminili della fecondità; forse la più antica testimonianza è il reperto di area hittita conservato allo Staatliche Museum di Berlino; si tratta di un bronzetto votivo che rappresenta una madre che allatta un neonato sul modello di Iside con Horus.

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Erbario, di L. Tongiorgi Tomasi, Enciclopedia dell’ Arte Medievale

Nel bel libro di Maurizio Bettini si narra la nascita di Eracle. Ricostruita attraverso le fonti letterarie antiche; essa diventa l’occasione per un viaggio antropologico lungo i sentieri del mito, nel tempo e nello spazio della cultura occidentale, alla ricerca di sortilegi che legano il parto, di incantesimi che lo impediscono e di strategie che lo favoriscono. La storia di Alcmena è di quelle che, una volta conosciuta, non si dimentica più, perché serve da paradigma per capire l’immaginario panico che prende se coinvolti al capezzale di una madre in difficoltà e di un bambino che non vuol nascere o perché, magari,  pendono su di lui oracoli minacciosi.

In breve la storia è questa: due figli di Zeus stanno per nascere; Era vuole che sia Euristeo, figlio di Nikippe, a nascere per primo, perché realizzerebbe per lui un destino di gloria, e non Eracle, figlio di Alcmena il cui parto sarà, per questa ragione, pericolosamente ritardato; perciò Era scende sulla terra e affretta il parto di Nikippe. Tuttavia Eracle, nonostante l’odio di Era, riesce a nascere grazie al determinante aiuto della levatrice che con un sotterfugio mette fine alla negatività dei simboli architettati da Lucina. Il fatto si svolge nella camera di Alcmena in travaglio, assistita dalla levatrice, Galanthis, una fanciulla molto nervosa che esce ed entra nella camera e non sa come aiutarla, e nello stesso tempo è insidiata da Lucina, complice di Era, che impedisce il parto  tenendo “le mani intrecciate” e “le gambe accavallate”. Per sette giorni e sette notti continua il travaglio; il ventre di Alcmena è legato da nodi simbolici che hanno la funzione di ritardare il parto. Finalmente Galanthis, con uno stratagemma, rompe l’incantesimo e lo fa lanciando un grido con il quale finge la gioia per il parto avvenuto. Allora la perfida Lucina slega le mani e le ginocchia. Ma l’inganno di una mortale a una dea deve essere punito. Galantis, dai lunghi capelli rossi, è trasformta in quell’animale peloso e fulvo che, dice Ovidio, “frequenta le nostre case” [3].

In Grecia questo animaletto era considerato come il nostro gatto che entra ed esce dalla casa e che, come la donnola sembra saperla più lunga di quanto non si creda. Lucina è la dea delle nascite e non sempre è crudele; come tutte le streghe conosce le formule magiche e le usa nel bene e nel male.  In occasione del parto di Mirra, per esempio, era stata mite. Così: «la sua  scienza di carmina magici era riuscita, se non a salvare la madre, almeno a garantire la nascita del bimbo. Il fatto riguarda Mirra, ormai irrimediabilmente mutata in albero che stenta a dare alla luce Adone»; Ovidio racconta che ancora una volta  Lucina «si fermò presso i rami dolenti, avvicinò le mani e pronunziò le parole della puerpera», parole speciali, formule magiche che favoriscono il parto: Constitit ad ramos mitis Lucina dolentis – admovitque manus et verba puepera dixit [4].                                                                                                                                         

Anziché isolare le strutture ideologiche che si coagulano intorno al tema della nascita e della madre, è preferibile procedere su una linea storico-comparativa che ci aiuti ad individuare alcune delle particolari cosmologie elaborate dalle diverse culture intorno ai motivi della progenie come dono divino, dei riti di passaggio che segnano culturalmente il fatto biologico della nascita, dei riti di purificazione della donna, degli amuleti e dei talismani vegetali che proteggono il nascituro e la partoriente e con essi l’intera comunità. Diciamo subito che, ovunque, la gravidanza è sentita come dimensione spazio-temporale pericolosa in quanto congiunge due piani cosmici – l’umano e il divino – ; essa può comportare un accumulo di forze negative che operano su tutto il gruppo per cui si costruiscono antidoti rituali consistenti in evitazioni-prescrizioni allo scopo di isolare l’impurità che contamina.

Presso gli Alfur dell’isola indonesiana di Celebes, affinché l’anima di un neonato che sta per nascere non sfugga, si chiudono tutte le porte compreso il buco della serratura, le fessure dei muri, e tutte le persone di casa devono tener chiusa la bocca come pure gli animali che stanno dentro e fuori casa ai quali si chiude la bocca con lacciuoli. Presso alcuni aborigeni australiani alle donne mestruate è vietato toccare gli oggetti appartenenti al marito e camminare sul sentiero da lui comunemente percorso; mentre  durante il parto vengono separate dalla comunità che curerà di bruciare tutti gli oggetti da lei usati durante il parto.                                                                                                                 

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Erbario, di L. Tongiorgi Tomasi, Enciclopedia dell’ Arte Medievale

Presso la tribù americana dei Déné la bambina che ha la sua prima mestruazione viene chiusa in una capanna perché considerata impura. A Tahiti, anche in avanzata gravidanza e subito dopo il parto, la madre e il neonato sono riammessi nella comunità solo dopo la cerimonia di purificazione. In Alaska, nell’isola di Kadiak, la donna che sta per partorire si ritira in una capanna dove rimarrà fino a venti giorni dopo il parto e nessuno, in quei giorni, dovrà toccarla, tanto che il cibo le verrà porto su lunghe pertiche. La stessa impurità colpisce la donna che abortisce o mette al mondo un bimbo morto [5].                                                                                                 

Anche nelle culture mediterranee  le prescrizioni legate  al simbolismo negativo del sangue femminile gravano sulla donna mestruata che non può toccare le piante perché seccherebbero, non può fare le bottiglie di pomodoro perché inacidererebbero, non può fare il pane perché non lieviterebbe.                                                        

Ad evitare generalizzazioni di tipo universalistico, dunque, è necessario  muoversi nei concreti  contesti storici e analizzare  le singolari cosmologie vegetali costruite in relazione alle diversificate  ragioni umane. Da questa angolazione ciò che si impone è l’interpretazione simbolica del mondo vegetale e in particolare il rapporto uomo-pianta attraverso il quale gli uomini intendono dare senso al proprio mondo.

Il vincolo biologico, scrive Mircea Eliade, lega piante e uomini, « … e quando uno dei modi di questa vita  è contaminato o sterilizzato da una colpa contro la vita, tutti gli altri suoi modi vengono colpiti grazie alla loro solidarietà organica»[6]. Secondo Eliade «il valore magico e farmaceutico di certe erbe è parimenti dovuto a un prototipo celeste della pianta, o al fatto  che fu còlta per la prima volta da un Dio» …o raccolto in un «momento cosmico decisivo», per esempio sul Monte Calvario. L’efficacia terapeutica dunque è dovuta alla ripetizione, in chiave simbolica, di un gesto primordiale e le erbe sono raccolte e usate spesso in nome di Gesù. «Non si tratta semplicemente di cogliere una pianta … ma di ripetere un’azione primordiale … per ottenere una sostanza satura di sacro» [7].                                                                          

Il ciclo della vita femminile, che trascorre ovunque in abitudinarie e parsimoniose ritualità quotidiane, è interrotto nelle occasioni delle nascite e contrassegnato con particolari cerimonie attraverso le quali l’intera vita comunitaria si fa più intensa e solidale. Nelle regioni dell’Italia centrale i parenti sono invitati al pranzo di battesimo (che nella tradizione popolare rappresenta simbolicamente il reinserimento sociale della famiglia del neonato) dove portano uova, polli, ciambelle fritte, pani dolci e doni al neonato e, in funzione scaramantica, cornetti e gobbettini di corallo, piccoli crocefissi, abitini benedetti – specie di sacchetti confezionati in funzione di prevenzione contro fatture e malocchi – a volte contenenti una foglia di olivo oppure chicchi di grano o farro.

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Erbario, di L. Tongiorgi Tomasi, Enciclopedia dell’ Arte Medievale

Ma i doni della natalità santa, i doni di cui parla il Vangelo, quelli portati dai re magi al piccolo Gesù, sono doni speciali. Infatti, insieme con l’oro, furono portati due doni presi dal mondo vegetale: l’incenso e la mirra. Questi doni, magici per eccellenza ed unici, irripetibili doni per la paradigmaticità di una nascita eccezionale, perché divina e umana insieme, furono scelti dai Magusei, sacerdoti mesopotamici della Caldea, per la loro preziosa qualità; si trattava di piante speciali, il loro valore metonimico era già riconosciuto e rinviava alla sacralità regale. Dal momento che l’aroma di questa pianta araba veniva usata per profumare i vicoli dei villaggi al passaggio del sultano, si costruì il binomio  incenso-regalità  che si fissò nelle tradizioni culturali. I re magi portarono al Messia, nato a Bethlehem, l’incenso, una particolare resina tratta dalla Bowellia Carteri da cui si ottiene il tipico fumo  odoroso – che oggi nel mondo cristiano è indissolubilmente legato alla santità – , e la gomma resina della mirra. Certamente questi doni corrispondevano ad esigenze concrete di natura igienica (oltre che simbolica) che, nello svolgersi del tempo, sono state  dimenticate. Ciò che resta è il loro valore sacrale legato ad una nascita eccezionale. Secondo San Bernardo, questi doni « … pro loco et tempora necessaria videbantur auri pretium ob paupertatem:myrrhae nguentum ob infantilis, ut assolet, corpora teneritudinem; thuris ob sordidam stabuli mansionem»[8].  

La ritualità dei doni legata alla nascita, sia essa eccezionale o non, è inscritta in un complesso sistema ideologico che produce forti condizionamenti culturali; esso sollecita una rete di correlazioni che coinvolgono le sfere dell’attività umana e che si ratificano nella dimensione sociale dei comportamenti. Anche il sapere medico è stato fortemente coinvolto in queste correlazioni cosmologiche tanto da risultare difficilmente separabile dalla religione e dalla magia; basti pensare all’importanza di Asclepio nel mondo antico, sacerdote, medico e, soprattutto, figlio del dio Apollo.                            

Tanto più all’interno dell’ideologia magica il sapere medico popolare, che differenziato a livello regionale, affonda le proprie radici nelle culture pre-indoeuropee; a questo patrimonio antichissimo si aggiungono tratti culturali portati dai popoli migranti che hanno concorso nei millenni a diffondere e a mescolare i saperi attraverso elaborazioni continue, timide sperimentazioni innovatrici, inseritesi  in un canovaccio di abitudini fondamentalmente condiviso: il legame profondo tra la nascita dell’uomo e la crescita delle piante  (ne è testimonianza il rituale ancora in uso di piantare un albero alla nascita di  un figlio) si riflette nel legame tra la madre e la terra  in una coinvolgente coniugatio  di energie vitali. Il complesso ctonio-materno, per esempio, nel quale si inscrive la personificazione divina della madre-terra, si afferma nelle culture cerealicole mediterranee dando vita a una divinità femminile del tipo Era, Afrodite, Cibele, Demetra. Scrive Di Nola:

«La corrispondenza fra la donna nella sua funzione generativa e la terra nella sua funzione di produzione della vegetazione, e il rapporto analogico tra il seno della donna che contiene una nuova vita e il grembo della terra che nasconde un mondo non visibile, talvolta carico di ricchezze, portano alla fondamentale omologazione Terra-Donna»[9].                                                                                     
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De Ornatu Mulierum di Trotula De Ruggiero, Scuola medica salernitana

La struttura familiare che si configura nel matrimonio, qualsiasi sia la forma culturale che essa assume nelle diverse società, risponde ad una esigenza fondamentale dei gruppi umani per la distribuzione dei ruoli; con i riti matrimoniali, infatti, le società intendono stabilire i ruoli di genere, i diritti dei figli e i rapporti interpersonali. L’istituto familiare si colloca, in sostanza, fra i valori economici e i valori etici, fra il mondo delle cose e il mondo simbolico della fantasia. Poiché, scrive George Duby alla luce delle fonti della letteratura altomedievale, esso

«regola l’attività sessuale – o per meglio dire, la sua funzione procreatrice – il matrimonio appartiene anche al tenebroso dominio delle forze vitali, degli impulsi, alle emozioni e anche del mistero. Il codice che lo governa attiene di conseguenza a due ordini: il profano e il religioso» [10].         

In questo paradigma di pensiero i sortilegi delle donne per evitare le gravidanze o per abortire sono considerati gravi al pari dell’omicidio. Ma all’interno di questo paradigma dominante, i bisogni umani e le situazioni biografiche segnalano differenze di comportamenti con i quali si preparano rimedi tanto per ottenere che per evitare la maternità, come pure per combattere l’impotenza maschile. In tali casi ci si serve sia di pratiche magiche che di intercessioni di Santi. Sono chiarificatori della mentalità dell’Occidente medievale,  riguardo alla funzione  generatrice della donna, i motivi addotti per la beatificazione della madre di Goffredo di Buglione, sposa nel 1057; sottomessa al marito, casta quante altre mai, ella mise al mondo tre figli senza alcun piacere, «usando del marito come non l’avesse», i quali allattò al suo seno; di poi generando altri figli spirituali fondando conventi nella regione di Boulogne [11]. Ciò che si mette in evidenza nella agiografica proclamazione di Santa Ida, madre di Goffredo, è dunque, la funzione generatrice del corpo femminile come il principale valore riconosciuto alla donna nelle case dei potenti: i figli partoriti assumono il significato nobile e spirituale dei conventi fondati in un sistema culturale complesso dove i dichiarati beni dello spirito sottendono tacite alleanze familiari e politiche.

Fino al Settecento le donne del popolo hanno preparato cerimonialmente i rimedi della salute, per guadagnarsi da vivere, convinte di operare bene, all’interno di un sistema di significati  permeato da quegli arcaici vincoli: terra – mondo vegetale – mondo umano.

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Discoride, De materia medica

La loro sapienza erbaria, spesso gelosamente custodita ad evitare la condanna di stregoneria resa sospetta agli occhi dell’inquisitore, garantiva loro piccoli guadagni e benemerenze per un minimo di sopravvivenza economica; infatti le loro fattucchierie tornavano utili a tranquillizzare le donne del loro stesso ambiente popolare, fiduciose nelle loro capacità di risolvere i guai d’amore e di salute. Per i disturbi dell’utero si usava assenzio selvatico in infuso per quindici minuti e poi filtrato; per le febbri puerperali papavero, oppure passiflora o camomilla; per le convulsioni delle donne in gravidanza  si usavano foglie di belladonna e contro il vomito, sempre, sciroppo di foglie di belladonna.  Si trattava delle stesse pratiche  fitoterapeutiche che, pericolosamente usate dalle streghe guaritrici di uno o due secoli prima, erano diventate nelle mani degli umanisti strumenti per conoscere i segreti della natura nell’entusiasmante movimento scientifico di rivalutazione della natura  che caratterizza l’Europa nei secoli  delle più nere persecuzioni delle streghe.

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De Ornatu Mulierum di Trotula De Ruggiero, Scuola medica salernitana

Trascriviamo dai registri  dei processi dibattuti presso il Tribunale dell’Inquisizione di Capua – contro donne analfabete accusate di stregonerie e fattucchierie risalenti ai secoli XVII e XVIII – alcune confessioni che le imputate e i loro delatori rilasciano sotto giuramento e pro consolatione sua (questa è la formula con cui si aprono le registrazioni processuali): Per legare l’innamorato: «O fico, o ficoncello o demonio o demonicello et altre parole diaboliche …» ; «Ad captanda amore, pigliasti una noce e la dividesti in due parti e cavando da dentro di quella il frutto ci ponesti oglio e tre grammi di pepe per ciasched’una parte e poi la mettesti sopra il foco e mentre bollivano e s’ardevano …»,  pronunciavi parole di invocazione al demonio e a Sant’Antonio. Catarina «bolle e ribolle travasando l’intruglio di certe fronde di lauro … in due pignatelli» …  Per farsi prendere in moglie la fattucchiera «aveva preso del seme del Signor Fabrizio … da un lenzuolo … e doppo volse un carlino per fare una messa allo Spirito Santo».

Spesso nei sortilegi sono usati oggetti sacri (acqua santa, candela benedetta, crocefisso); il successo sta anche nel rischio che si corre: più è alto il rischio, più è sicuro il rimedio;  perciò si arriva a nascondere nelle fasce dei battezzandi «sale e pepe e pezze insanguinate», per poi usarle per legare l’amante. Per curare l’impotenza Michele compra certe erbe con le quali prepara un fomento, poi «piglia uno scaldaletto di rame col foco dentro» e vi mette certa erba secca; fa sedere la moglie sopra una sedia avvoltolata in un mantello, la fa stare sopra per un quarto d’ora [12].                                                                                                                                                                                                                     Anche questi pochi esempi di fattucchierie fitoterapeutiche indicano la relazione stretta  fra credenze e rituali: se le credenze magico-religiose sono la cornice ideologica nella quale si opera, si guarisce e si spiegano le ragioni dei malanni che colpiscono gli uomini, i rituali hanno lo scopo di verificarle. Oggi gli studi di farmacologia sono interessati alle proprietà medicamentose delle piante non disgiunte dagli effetti benefici dei rituali che ne accompagnano l’uso. Il risultato di un sicuro effetto benefico, più che da considerarsi riduttivamente effetto pacebo, ha suggerito una nuova ipotesi di ricerca, scrive Tullio Seppilli, basata sulle «dinamiche di modulazione psiconeuroimmunologica” messe in moto dalle “procedure rituali” e dal loro “riferimeto a un orizzonte mitico-sacrale»[13].

La persistenza delle pratiche magiche nell’uso delle piante medicamentose, infatti, rappresenta per la farmacologia più attenta ottime occasioni di studio. La lunga durata di certe credenze la dice lunga sulla complessità di corrispondenze uomo/pianta che, dopo aver smesso di stupire nel rinvio a concordanze mitiche, riscuotono un interesse scientifico che ci aiuterà a capire. Il noce – albero di Artemide, carico di valenze mitiche e noto come albero delle streghe – è tuttora considerato nel folklore italiano dannoso alla salute, sia se piantato troppo vicino a casa, sia se «ci si dorme sotto».  «Il confezionare collane  di spicchi d’aglio da appendere al collo dei bimbi contro gli ossuridi fa  meno sorridere se si pensa che le sostanze volatili presenti in questi bulbi possono penetrare nell’organismo con il respiro ed essere di giovamento». Considerare queste pratiche alla luce delle proprietà terapeutiche e del loro interesse fitochimico sembra ormai una via percorribile dalla conoscenza scientifica [14].

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Discoride, De materia medica

Del resto Giuseppe Pitré, Zeno Zanetti e Paolo Mantegazza avevano avvertito di questo duplice significato della medicina popolare nell’uso tradizionale dei semplici. Secondo il Mantegazza «Le superstizioni mediche sono fra tutte, forse le più interessanti a studiarsi, non solo per l’importanza grandissima che hanno sulla salute e sui costumi del popolo, ma anche perché la loro analisi psicologica è fra le più curiose e feconde»[15].  La concezione della natura come vis medicatrix (che ritrova in Plinio il Vecchio la più antica impronta) è sentita come pervasa da forze contrapposte, basate sul principio di simpatia/antipatia e, in questa prospettiva, ci si convince che la natura produce erbe medicinali i cui poteri si annunciano nei segni che portano impressi: forme, odori, colori sono segni delle piante che si rendono più leggibili se si tiene conto dei luoghi dove crescono e delle stagioni in cui maturano i loro frutti. Così, i misteriosi legami  e le pervicaci ostilità che si scoprono osservando le piante che convivono o che si uccidono, insofferenti alla reciproca vicinanza, ci avvertono di forze latenti chimico-minerali. Ma, immersi per secoli in un immaginario collettivo vegetale, il linguaggio è ancora, inavvertitamente, animistico. Per cui, per esempio, nella campagna toscana quando  la salvia piantata vicino alla menta muore,  si dice «la menta ha ucciso la salvia» e in Umbria quando un giovane pino marittimo si piega per sottrarsi all’ombra di una quercia, si dice: «il pino ha  paura della quercia».  

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Discoride, De materia medica

Il serbatoio di mirabilia trasmessoci da Plinio che aveva come informatori medici e botanici contemporanei e gente comune a cui chiedere informazioni botaniche di prima mano, è costruito sul principio di una natura che non è né benefica né malefica: essa è indifferente, contiene il bene e il male in abbondanza, senza finalità che sovrastino le capacità dell’uomo; una natura però che si accompagna alla irregolarità del mostruoso e del prodigioso. La natura ha un ordine che gli uomini si ingegnano a capire per trarne vantaggi. L’importante è imparare a conoscere il linguaggio delle piante, per mezzo dei loro segni; in questo senso la teoria della signatura rerum insegnava che le proprietà terapeutiche delle piante dipendevano dalla somiglianza tra la parte malata dell’organismo e la forma della pianta. Tutto, allora, appare immerso in un sistema di significati, vera e propria concezione del mondo di quella specie di medicina domestica empiricamente basata sui rimedi naturali dei semplici [16].  

Per avere l’idea dei nodi teorici che contrassegnano la continuità tra il sapere del mondo antico e quello medievale e, soprattutto, la continuità del vincolo organico e culturale tra uomini e piante, ci sembra  indispensabile considerare la Naturalis Historia, l’enciclopedica raccolta botanica di Plinio. L’atteggiamento di Plinio riguardo al pensiero scientifico è complesso e, oltretutto, interesante per quel filone di sapere tradizionale relativo al mondo vegetale che sembra non essere mai stato soppiantato dall’atteggiamento teologico e scientifico e che è giunto fino a noi attraverso interminabili vicende  e alternanze di fortune e sfortune. Plinio è convinto che, per quanto la scienza conosca le ragioni delle eclissi lunari, la gente crede che questi fenomeni siano dovuti a stregonerie e giudica anche che queste credenze siano l’unica scienza che compete alle donne, dimostrando la verità di questa sua affermazione con la diffusione della favola di Circe dalla quale viene la fama italica dell’abbondanza di erbe. Se, commenta Plinio, nonostante la incredibile abbondanza  di questi prodotti della natura, cioè le piante salutifere e  velenose insieme, c’è scarsa conoscenza è perché i medici e le mode ci fanno trascurare questi rimedi naturali. «Basterebbe, egli scrive, andare a raccogliere erbe e arboscelli nell’orto, perché la medicina divenisse la più misera delle professioni». E, aggiunge: «i farmaci davvero efficaci se li masticano ogni giorno a cena i poveracci», non serve farli venire dall’Oriente.

Plinio sostiene che  non basta conoscere le proprietà delle erbe: un modo  sicuro per accrescerne le virtù medicamentose, è di usarle recitando preghiere solenni, come quando si fanno i suffumigi di elleboro per purificare le case  e le stanze delle puerpere o quando si svelle una speciale pianta pronunciando una particolare formula di rito. Sul piano delle analogie si contano numerosi esempi tra i quali il seguente: corre voce, scrive Plinio, che usa prendere le distanze  dalla credenze popolari che, tuttavia, fedelmente riporta che «le erbe che crescono attraverso un setaccio gettato lungo la via, se raccolte e portate addosso  dalle gestanti come amuleto, affrettano il parto»[17].

Questa forma di magia imitativa  (omeopatica) è molto frequente nei rituali ed è presente ancora oggi nelle campagne romane; l’esempio che riportiamo si connota della stessa forza magica, se pur letta al contrario: le contadine che usano portare con sé un cesto nei lavori di campagna, devono evitare di rovesciarlo per usarlo come sedile; l’analogia consiste nel fatto che, come i fori aperti che lasciano passare le erbette aiutano il parto, così il cesto chiuso perché capovolto e usato a mo’ di sedile impedisce di partorire alla donna incinta [18].                                                               

Sullo stesso principio delle analogie terapeutiche Plinio ci fa l’esempio del girasole il cui seme a forma di uncino, come la coda di uno scorpione, è efficace contro il suo veleno. La fortuna di Plinio e della sua Naturalis Historia nel Medioevo fu immensa e nella scuola salernitana divenne un’autorità indiscussa. Alla Naturalis Historia attinsero i Benedettini specialmente per l’uso di almeno 300 erbe salutifere, almeno fino a quando fu permesso loro di esercitare l’arte medica fuori delle loro comunità (XII sec.). Ma certamente fu la stessa struttura inventariale dell’opera pliniana a favorire la sua diffusione: letta non come opera intera, ma usata come enciclopedia, essa forniva informazioni specifiche nei diversi settori di interesse, radicandosi più facilmente nel sapere medievale. Dalla Naturalis Historia, opera che raccoglie in un vasto inventario enciclopedico il sapere botanico del mondo antico, gli uomini e le donne del Medioevo hanno ereditato il patrimonio immenso di un sapere non distribuito razionalisticamente in  magico e scientifico, ma un sapere che, nel corso dei secoli, e grazie ai contatti di popoli  diversi, ha continuato ad arricchirsi, a fondersi, a diffondersi oralmente, oggi come nel passato, attraverso i flussi migratori le guerre, i pellegrinaggi, i commerci. Uno degli insegnamenti che vengono dai libri pliniani  di botanica, i quali contengono molte delle conoscenze  empiriche su cui si è basata la medicina tradizionale, sta proprio nella qualità delle informazioni relatve a quegli aspetti simbolici che sono stati considerati dalla medicina accademica, le ragioni principali della debolezza e della inattendibilità della medicina empirica e “facilona”, non suscettibile di una rigorosa sistemazione scientifica.      

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da Naturalis Historia, di Plinio

Nella Naturalis Historia, infatti, appare in tutta la sua rigogliosa manifestazione, la creatività delle varianti nelle applicazioni pratiche del sapere medico tradizionale e la incontenibile capacità di comporre variazioni sul tema di qualsiasi rimedio vegetale. Tutto, s’intende, basato su un unico principio ordinatore: l’idea che la salute del’uomo consiste nel suo benessere complessivo, non limitato, oggi si direbbe, al quadro clinico, ma elaborato in gran parte sul piano simbolico, nell’individualissimo modo dell’uomo di porsi soggettivamente in rapporto armonico con la natura. Per cui tra le pratiche propiziatorie del parto in casa si era soliti accendere candele, mettere immagini sacre sotto il cuscino della donna incinta e, soprattutto, preghiere. E le preghiere si recitavano anche nelle pratiche magiche che accompagnavano l’uso dei prodotti vegetali, quando, per esempio, si preparava  il seme di papavero nelle pappe dei bimbi per tranquillizzarli.                                        

Sul principio di benessere,  anzi,  oggi non si sorride più, anzi ci si chiede quali siano le ragioni di certi effetti positivi. In questa ottica, la persistenza dell’intreccio degli aspetti empirici e simbolici nelle pratiche della medicina tradizionale, sollecita l’esigenza di scoprirne le ragioni.  Abbandonata la etnocentrica e orgogliosa certezza che spiegava come ritardo culturale la medicina popolare, si è avviato un nuovo percorso antropologico che può far luce sulla efficacia terapeutica  prodotta proprio in quell’intreccio del simbolico con l’empirico, senza peraltro concludere che questa via porti necessariamente a soluzioni irrazionalistiche [19].   

Questo intreccio che logicamente disturba e che nella ricerca dei principi classificatori del pensiero occidentale fino ad oggi è stato rifiutato dalla medicina ufficiale alla indagine scientifica, è stata rimessa in discussione  attraverso i percorsi delle medicine alternative. In realtà, l’intreccio dei piani semantici empirico-simbolici nella pratica del comportamento umano garantisce l’elasticità della sperimentazione scientifica, assicurando uno spazio di partecipazione soggettiva che sembra essere un elemento fondamentale  nel processo di guarigone.                                                                    

«Tutti conoscono, scrive Giovannni Federspil, la famosa definizione della salute dell’Organizzazione Mondiale della Salute: uno stato di perfetto benessere fisico, psichico e sociale. Ebbene questa definizione è stata criticata da molte parti ed è stato sostenuto che così definita, la salute non rappresenta un concetto scientifico». Ma questo è il problema avvertito anche da molti medici per i quali l’eccessivo biologismo della medicina accademica va corretto come sostiene l’autore. del saggio – che insegna  Storia della medicina all’Università di Padova – il quale ritiene che la medicina abbia molte attinenze con la filosofia [20].

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Matteo Plateario, Circa instans seu de medicamentis simplicibus, Scuola di Salerno

Nei tempi remoti, quando la vita si svolgeva nelle caverne e nelle palafitte dove sono stati ritrovati i resti di erbe  medicamentose, la farmacia e la medicina erano praticate  dalla stessa pesona. Ma già nell’antica Grecia si raccoglievano i  risotomi e e si conservavano le piantine medicinali, mentre ai medici era riservata la preparazione dei farmaci da somministrare ai malati. Tuttavia è a partire dal VII secolo, e grazie ai medici e filosofi arabi Avicenna (980 d.C.-1037 d.C.) e  Averroe (1126 d.C.-1198 d.C.), che si comincia a distinguere le due pratiche. Ed è proprio nella scuola salernitana, fondata da Costantino l’Africano, che si afferma la medicina araba e con essa la distinzione definitiva fra la medicina e la farmacia. In questa scuola, dalla quale uscì il primo libro sulle piante officinali, Ortus salutatis, era presente l’attività ospedaliera nella quale operavano le Mulieres salernitanae: levatrici e infermiere, queste donne d’intelletto si distinguevano per la loro preparazione medica e nello stesso tempo per la conoscenza dei rimedi empirici usati dalle donne, come dimostra la personalità di Trotula, figura rilevante nella storia della ginecologia, la quale scrisse il trattato De mulierum passionibus.

Non si tratta di streghe, come comunemente sarebbero state giudicate le guaritrici dell’Europa medievale, ma di medichesse che praticavano l’arte medica sui principi teorici e con rimedi pratici; i loro interventi, che non disdegnavano pratiche consolidate dall’uso, aggiungevano quel che serve per  contribuire a mettere in moto il processo di guarigione, cioè il fattore emozionale della partecipazione, della solidarietà affettuosa. Ingredienti, questi, propri della medicina popolare  che si serve anche di formule magiche e preghiere per accompagnare i preparati fitoterapeutici. La Scuola Medica Salernitana è la prima istituzione medica europea medievale. Salerno, come porto al centro del Mediterraneo, elabora i contenuti della cultura araba e greco-bizantina. Il medico arabo Costantino giunse dal mare a Salerno dove tradusse dall’arabo i testi di Ippocrate e Galeno. Alla Scuola Salernitana, tra il X e il XIII secolo, giungevano sia i malati per guarire che gli studiosi per apprendere l’arte medica. È stato Federico II che, nella Costituzione di Melfi, ha inserito le regole dell’attività medica che poteva essere praticata solo da chi era in possesso del diploma rilasciato dalla Scuola di Salerno. Medicina e religione rimangono legate; si può ricordare che alla fine del XVI secolo gli speziali, con spirito moderno, costituiscono un ordine professionale per il quale scelgono come protettori i SS. Cosma e Damiano, medici anargiri (che curavano senza compenso).

Oggi, nel settore di studi contrassegnato dall’Antropologia medica si  guarda con attenzione agli effetti positivi della medicina popolare, che coinvolgono gli aspetti psicologici e neurologici e che si riflettono beneficamente sul sistema immunitario, come correttivo all’eccessivo biologismo della medicina accademica[21]. Già il Pitré nella sua raccolta di rimedi della Medicina popolare siciliana (Palermo 1896) aveva considerato l’importanza  di questa intricata miscela di religioso e medico quando scriveva «l’importanza etnica e demopsicologica delle tradizioni mediche del popolo è indiscutibile; ma altra ve ne ha che dobbiamo  ritenere non minore per la sua terapia e la sua storia: quella dei rimedi che possono offrire caratteri scientifici e scientificamente guardati». E, ancora, dopo anni di faticose ed appassionate ricerche fra gli usi dei rimedi empirici del popolo siciliano scrive:

« … le credenze e le pratiche volgari poi in ordine alla natura alla materia medica non devono disprezzarsi sol perché portato di gente incolta. L’empirismo di quelle pratiche offre talora risultato pratico e felice, quale non riuscì ad ottenere la medicina scientifica».                                           

Negli scritti ippocratici e pre-ippocratici sono indicati i rimedi vegetali preparati in polveri, infusi, macerati, decotti, tisane, unguenti, impacchi, frizioni, clisteri, gargarismi, suffumigi, salassi, purganti, diuretici, sudoriferi, vomitivi, che vengono ancora usati nella fitoterapia popolare. E già in uno dei suoi cinque libri di De materia medica Dioscoride descriveva le qualità vegetali distinte in aromi, succhi, resine, balsami e per l’uso di ciascuna vengono raccomandate attenzioni cerimoniali, così come si usa nell’ideologia magica folklorica. A livello scientifico la necessità di conoscere le piante salutifere si fa più forte anche perché con la scoperta dell’America le piante conosciute diventano numerosissime, tanto da suggerire la raccolta di erbari (vedi i Commentari del Mattioli, 1565) e l’istituzione degli orti botanici, il primo dei quali fu impiantato a Padova e il secondo a Pisa.

Fu Cosimo I dei Medici a sentire l’esigenza di inserire nell’insegnamento medico dell’Università di Pisa la conoscenza delle piante e fece costruire un orto botanico affidandone la direzione a Luca Ghini il quale iniziò il corso nel 1544 commentando Dioscoride [22]. L’orto botanico nasce come hortus conclusus  e come tale intende distinguersi da tutto ciò che rimane fuori, non ordinato, e immerso nel caos delle essenze non classificate. Lo scopo degli orti botanici è «erborizzare, scegliere le essenze», curare le raccolte degli exsiccata (piante essiccate), fare di questo giardino principesco il simile degli orti dei semplici; furono selezionate per varietà e tipologie fiori e piante ispirandosi alla Naturalis Historia.  

Nell’insegnamento di medicina all’Università di Pisa, accanto alla cattedra di chirurgia e antomia, fu istituita anche quella dei “semplici”. «Il professore dei “semplici”  aveva soprattutto il compito di leggere, vale a dire commentare, il De  materia medica di Dioscoride. I ‘semplici’ – cioè le parti (rami, foglie, radici) delle piante –  … che venivano usate in medicina senza subire sostanziali manipolazioni che ne avrebbero alterato le proprietà terapeutiche – erano il tramite  che legava l’ars medicinalis  teorica alla medicina pratica curativa». Una cura particolare era dedicata ai veleni vegetali: aconito, cicuta, noce moscata, elleboro, gialappa, giusquiamo, mandorle amare, arsenico; di questi veleni  si studiavano le possibilità terapeutiche se usati in dosi piccolissime.

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Mandrake (Mandragora officinarum) from Tacuinum Sanitatis manuscript (ca. 1390)

D’altra parte, l’erboristeria come arte di conoscere, raccogliere e vendere le piante officinali (droghe) si afferma nel XV secolo, prosegue fino al periodo in cui «la possente chimica …, con puerile  leggerezza fece accantonare i medicamenti a base di piante, qualificati con la spregiativa denominazione di intrugli da donnette»[23].                     

E, mentre a livello accademico non si escludeva di indagare  sulle proprietà salutifere delle piante,  a livello popolare  si continuava ad usarle a fini terapeutici e scaramantici.  Le erbe odorose e gli amuleti vegetali che sono anche indossati in funzione apotropaica si connotano di forze benefiche che, operando anche nella dimensione simbolica, producono benessere o malessere: tutto dipende dalla volontà degli operatori rituali. Ma il buon esito della botanica popolare è garantito dall’influsso degli astri in un complesso sistema di corrispondenze fatto di simpatie/antipatie che legano erbe, uomini, piante nella successione dei tempi di raccolta e di preparazione.

Come scriveva il Fioravanti: «È necessario saper conoscere in che tempo le erbe sono nella loro maggiore virtù … egli è da sapere come tutte l’erbe sono dominate da alcuno pianeta»[24]. Il cardo di San Giovanni è preparato nella notte fra il 23 e il 24 giugno, una notte magica nella quale nacque Giovanni Battista; si tratta di un’usanza europea che induce a raccogliere  erbe da prepararsi in decotti, pozioni e bagni caldi, particolarmente adatti  per le donne che volevano figli. «Per diventar  gravide  scrive il Mattioli, esse si bagnano et si ribagnano spesso con certa decottione di tutte l’erbe calde, ch’esse possano ritrovare, e sono per la maggiore parte di quelle di San Giovanni»[25]. La dimensione magica di una cultura, tanto dotta che popolare, sostanzialmente  disposta al miracoloso, induce ad usare i semplici con aspettative terapeutiche: in ambedue i campi si miscelano erbe tenendo conto di odori e sapori per la loro funzione ormai riconosciuta a livello scientifico di bio-stimolatori; si preparano rimedi con finocchi, ruta, menta, rosmarino, salvia, maggiorana, ginepro, timo, efficaci se non altro per il loro apporto di vitamine, minerali e fattori biologico-vitali [26].

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Erbario, di L. Tongiorgi Tomasi, Enciclopedia dell’ Arte Medievale

Per un  complesso gioco di relazioni tra quelle donne-streghe che erano solite “andare in corso” e la loro esperienza erbaria, si chiarisce a livello demonologico e si fissa nell’immaginario collettivo l’idea di una volontà demoniaca che dà loro la sapienza botanica. In quale altro modo, ci si chiede, le “rustiche mulierculae” potrebbero arrivare a conoscere i segreti della natura se non direttamente dal demonio, visto che lo praticano nei sabba? [27].                                   

Sino all’età moderna il momento del parto è considerato estremamente rischioso e quindi particolarmente protetto anche a livello simbolico. Giuseppe Bellucci, nella sua ricerca in Umbria, si rese conto di quale importanza fosse il rituale della placenta nell’ideologia magica e come fosse diffuso in molte altre regioni italiane. Lo studioso perugino ebbe la conferma del meccanismo analogico che funziona nelle pratiche magico-folkloriche mentre procedeva ad un esame della potabilità dell’acqua sorgiva di un pozzo. Sul fondo del pozzo trovò delle pentole di terracotta avvolte in teli che conservavano i resti di placente umane e si convinse che nella ideologia magica, affinché la puerpera abbia il latte, la placenta deve essere conservata in una pentola immersa in acqua corrente. Lo scopo è di sollecitare analogicamente il flusso del latte su imitazione dello scorrere dell’acqua; la placenta veniva sistemata sotto il letto per tre «calature di sole», scrive il Bellucci, e aggiunge che  «nell’intervallo di tempo si adoperano ‘pupattole di zucchero, decozioni, sciroppi di cicoria e rabarbaro e magari il latte di un’altra donna, ma prima di tre ‘calature di sole’ la madre non deve accostare il bambino al proprio seno»[28]. Poi la placenta era sistemata nel fondo del pozzo.

Per capire come funziona il pensiero magico analogico si pensi all’uso della “rosa di Gerico”: la tradizione di alcune culture europee vuole che questo fiore del deserto, Anastatica hierochunica, che si conseva secco e che si dischiude se messo nell’acqua, venga conservato nelle famiglie e usato nell’occasione del parto. La ragione magica sta nella forma del fiore che, somigliando al sesso femminile, sollecita per imitazione l’apertura dell’utero non appena questo fiore si apre nell’acqua.                                                                                                                                       

In alcune zone della Liguria le donne incinte portano rametti di mortella (mirto) e sulla qualità apotropaica del mirto possiamo risalire ancora una volta a Plinio il quale ci dice che ai suoi tempi i viandanti che si avventuravano in lunghi e pericolosi viaggi erano soliti mettere nella sacca da viaggio un rametto di mirto come amuleto per scongiurare i cattivi incontri. E raccontandoci delle proprietà del mirto nella produzione vinicola ci mette in grado di capire come sia stato possibile la trasposizione di significato, apparentemente difficile, dalla sfera economica a quella simbolica: sull’analogia dell’olio di mirto usato per ungere il filtro dal quale così  sarebbe passato solo il vino e non la feccia, si immaginò che le qualità protettive del mirto sarebbero rimaste inalterate anche in situazioni diverse, come quelle dei viandanti in pericolo, per cui un rametto di mirto portato addosso o riposto nella sacca, sarebbe stato un ottimo antidoto contro i cattivi incontri. Ormai, dalla credenza il valore apotropaico del mirto è passato al gioco, come è testimoniato in Garfagnana dal gioco “del verde”: si costituisce un sodalizio di bimbi contrassegnato come il “gruppo del verde” e la cui appartenenza è ratificata da un rametto di mortella portata addosso o nella cartella di scuola; quando i membri del gruppo si incontrano, si chiedono reciprocamente di mostrare “il verde”; se non ce l’hanno devono fare penitenza.

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Discoride, De materia medica

Molte piante preziose per le loro proprietà farmaceutiche sono state usate nella tradizione medica popolare con accorgimenti cerimoniali (non foss’altro per la scelta dei tempi di raccolta e di preparazione): la calendula per regolare il flusso mestruale, la capsella, borsa del pastore, contro le emorragie del parto, l’artemisia per le sue qualità emmenagoghe nella dismenorrea e nella amenorrea [29]. In Emilia il deperimento del lattante dovuto a cattiva alimentazione è definito “il male dello scimmiotto”, per la faccina da vecchietto che fa il bimbo malnutrito; in questo caso si praticava un rituale complesso: sciolto del lievito per il pane in acqua tiepida, vi si bagnava il bimbo e «lo si introduceva per tre volte nel forno ancora caldo, legandolo alla pala di legno»[30]. L’analogia del pane lievitato col bambino è evidente: in questo caso il meccanismo risolutivo sta nella magia imitativa che sostituisce quello che ci vorrebbe e che non c’è: una buona alimentazione.  

Da queste considerazioni sull’uso delle piante salutifere nella tradizione popolare e nelle fonti letterarie emerge  che la storia della medicina è stata attraversata da un solco di sapienza botanica intrisa di cerimonialità rituale che ha trovato il suo nutrimento idologico nelle cosmologie vegetali.

L’antitesi ideologica fra razionalismo e irrazionalismo si può sostituire, come suggerisce Carlo Ginzburg,  con l’immagine di uno scontro fra culture, in modo che il progetto ambizioso di ricondurre alla conoscenza storica fenomeni apparentemente trascurabili è sostenuto dalla presenza di nuclei mitici che, per millenni, vivono nella continuità storica rifrangendosi in mille rivoli culturali di popoli diversi. Escludendo il ricorso al concetto di archetipo, di impronta eliadiana, e a quello di  inconscio collettivo, ci  sembra utile piuttosto tenere presente opere come Le radici storiche delle fiabe, di Propp, I re taumaturgi, di Bloch, Il formaggio e i vermi, di Ginzburg. Infatti nelle storie di grande respiro trovano posto anche i tentativi di individuali aspirazioni a partecipare alla storia, anche se in veste di ignorati o perseguitati protagonisti. Dalle cronache insanguinate, o irrise, della storia emergono visioni del mondo, concezioni della vita, che si avvicendano in una pluralità vertiginosa di quadri immaginari che sfuggono dal quadro autoritario di una unica verità [31].

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note  
[1] S. Giusti, Astuzie simboliche e sistemi di significato nell’uso magico delle piante,in AA.VV, Le piante magiche. Una ricerca storico-antropologica , “Quaderni” di «Storia Antropologia e Scienze del Linguaggio», n. 2 , Domograf, Roma 1995.
[2] J. G. Frazer tratta questo problema in The Golden Bough; per la questione della classificazione magica e per la rilettura del testo di Frazer, cfr. M. Douglas, Introduzione a The Golden Bough, ristampa dell’ed. ridotta  dall’A. del 1922; trad. it. Il ramo d’oro, Bollati-Boringhieri, Torino,1990.
[3] M. Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Einaudi, Torino, 1998.
[4] Il nome di Galanthis è nel testo di Ovidio, Le Metamorfosi, dove è rappresentata l’immagine tragica della metamorfosi in pianta odorosa della fanciulla colpevole di aver amato suo padre, fissata nei versi di Ovidio: «Myrra, patrem, sed non qua filia debet, amavit / Et nunc obducto cortice  pressa later: / illius lacrimis, quas arbore fundit odora / Unguimur, et domina tenet».
[5] J. G. Frazer, op. cit.: 221, 252-253.
[6] M. Eliade,  Traité d’histoire des religions; trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1972: 263.                   
[7] Ivi: 307-310.
[8] A. M. Di Nola, Voce Albero, erbe e piante, in «Enciclopedia Italiana delle Religioni»,  Vallecchi, Firenze, 1970.
[9] A. M. Di Nola, voce Madre, in «Enciclopedia italiana delle Religioni», cit.
[10] G. Duby, Le chevalier, la femme et le prete, Paris, 1909; trad. it. Mondadori, Milano, 1992: 14-15, 54-62.
[11] Ibidem.
[12] S. Giusti, Materiali etnografici nei documenti ecclesiatici. Questioni di metodo, In AA. VV. Fare anrropologia storica. Le fonti, (a cura di E. Silvestrini), Bulzoni, Roma, 1999. Nello stesso volume cfr. di  A. Ferraiuolo, “Per aggravio di mia coscienza” e di F. Ciccodicola, La funzione  della ricerca  nell’integrazione delle fonti.
[13] T. Seppilli, op. cit.: 17.
[14]  G. Corsi e A. M. Pagni, Piante medicinali nel monte pisano, in «Acta Horti Pisani», XII, 1978-79.                     
[15] Sull’uso del termine medicina popolare, J. M. Comelles, Da superstizione a medicinapopolare. La transizione da un concetto religioso a un concetto medico, in  «AM. Rivista della Società di Antropologia media», nn. 1-2, 1996. Comelles segnala l’errore di servirsi del concetto di medicina popolare  come “termine di uso comune che invece è stato inventato con un obiettivo specifico alla fine del XIX secolo per “stabilire i limiti culturali del modello medico”; che è il risultato di un percorso di lunga durata  che ha visto gli interventi della teologia e del pensiero scientifico volti a separare la scienza dalla superstizione.
[16] F. Cardini,  I processi di formazione della medicina popolare in Italia dalla tarda antichità al XIX secolo, in AA. VV. Le tradizioni popolari in Italia. Medicine e magie, Electa, Milano, 1989.
[17] Plinio, Naturalis Historia, La Botanica I, libri 12-19; trad. it. Einaudi, Torino, 1984.
[18] Tesi di laurea in Antropologia culturale di G. Piccirilli, La medicina popolare della Valle del Liri, Università degli Studi di Cassino, a. a. 1993-1994.
[19] Cfr. in J. M. Comelles, cit.
[20] G. Federspil, Ai medici potrà far bene non snobbare la filosofia, in “Sole 24 Ore» 2, 15 agosto, 1999.
[21] Scrive Tullio Seppilli: “… attestandosi nel suo stretto biologismo e ignorando il contributo conoscitivo e operativo delle scienze sociali a una più ampia e compiuta interpretazione della condizione umana, la biomedicina finisce per escludere dal suo orizzonte una componente essenziale di fattori in gioco nel suo stesso oggetto, cioè nelle dinamiche di salute/malattia”, in Antropologia medica: fondamenti per una strategia, “AM” : 7-22, cit.
[22] La prima testimonianza dell’Orto Botanico di Pisa la troviamo in una lettera di Luca Ghini a Francesco Riccio, maggiordomo di Cosimo, datata 4 luglio 1545; cfr. in F. Gasbari, L. Targioni, A. Tosi, Giardino dei semplici. L’orto botanico di Pisa dal XVI al XX secolo, Pacini Ed. Pisa, 1991.
[23] L. P. da Legnano, Le piante medicinali mella cura delle malattie umane. Affezioni e sofferenze. Piante e rimedi, Ed. Mediterranee,  Roma, 1954.
[24] L  Fioravanti, Dello specchio di scientia universale, Venezia, 1583.
[25] É. A. Mattioli, I Discorsi …, Venezia, 1597.
[26] L. P. Da Legnano, op. cit. p. 5.
[27] A. Biondi, La signora delle erbe e la magia della devozione, in  Medicina, erbe e magia, cit.
[28] A. Bellucci, La placenta nelle tradizioni italiane e nell’etnografia; questo studio dell’A. considerato uno dei padri fondatori dell’antropologia medica, insieme con Pitré e Zanetti, è pubblicato con una nota introduttiva in  1-1-2, 1996.
[29] Cfr. in D. Simoni, Le piante magiche della Ciociaria fra magia e medicina tradizionale, in AA.VV. Le piante magiche, cit.
[30] A. Rivera, Gravidanza, parto, allattamento, malattie infantili: pratiche magiche e protezione simbolica, in AA. VV., Le tradizioni popolari …, cit.

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Sonia Giusti, già docente di Antropologia culturale e antropologia storica presso l’Università degli Studi di Cassino e Presidente del Corso di laurea in Servizio sociale. Ha lavorato sui temi trattati da Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni e sullo storicismo inglese di Robin George Collingwood, oltre alle ricerche sui Diritti Umani e sulla storicità della conoscenza. Ha svolto seminari presso le Università di Roma, Urbino, Palermo e Oxford, presso la Bodleian Libraries. È autrice di diversi studi. Tra le più recenti pubblicazioni si segnalano i seguenti titoli: Forme e significati della storia (2000); Antropologia storica (2001); Percorsi di antropologia storica (2005).

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