Il movimento delle donne tra ecologia e ambientalismo
Dalla seconda metà degli anni Ottanta, l’incrocio tra pensiero femminista e attivismo in ambito ecologico, condusse a focalizzare il dibattito del periodo attorno alla questione di una espansione dello sfruttamento tecno-economico sullo ambiente. A quel tempo, il disastro nucleare di Černobyl avvenuto il 26 aprile del 1986, venne ridotto dall’opinione pubblica e dai mass media in generale come un incidente. Tuttavia, l’evento mise comunque in luce la realtà di una pericolosa logica capitalista fondata su un modello economico aggressivo, sulla teoria di uno sviluppo unilineare e incessante attraverso un violento depauperamento della natura. In tal senso, le discussioni sorte in seno all’ambito ecologico e ambientalista del femminismo, misero al centro la critica alle politiche economiche e ai sistemi di produzione progettati su un crescente potenziamento tecno-energetico.
Per il femminismo divenne rilevante sottolineare, non solo lo squilibrio di potere nelle questioni di politica economica, ma anche la dimensione antropocentrica caratterizzante il tipo di economica-capitalistica, laddove il proposito della manipolazione delle risorse naturali, in convergenza ad un imperativo del progresso, inevitabilmente, corrispondeva all’orizzonte dello sfruttamento e della mercificazione della natura umana. Come osserva Karen Warren (Warren 1990), l’attenzione del femminismo per l’ecologia e le tematiche ambientali acquisisce una certa rilevanza negli anni Ottanta, per poi diventare sempre più presente nel dibattito di settore con le evoluzioni – dannose e nefaste – dello sfruttamento e del degrado ambientale, quali problemi direttamente connessi all’oppressione delle donne e della loro “natura” sessuale.
Già con Françoise D’Eaubonne (D’Eaubonne 1974) venne introdotto il termine di “ecofemminismo”, rimarcando la volontà femminista di realizzare una “rivoluzione ecologica”, la cui consistenza politica prendeva forma dal fatto di essere una iniziativa delle donne. Françoise D’Eaubonne – che nel suo libro Le féminisme ou la morte, si occupava del problema della povertà e della sovrappopolazione, delle relative conseguenze per il pianeta nonché della scelta personale delle donne di non riprodursi e di emanciparsi dal ruolo istituzionale-materno per esse predisposto – diede un importante contributo alle successive riflessioni del femminismo nell’orizzonte teorico dell’ecologia.
Secondo la femminista, era essenziale rifiutare la spiegazione biologica della differenza tra i sessi, in un certo qual modo, ritenuta “colpevole” di aver determinato una riduzione essenzialista della soggettività femminile, in tal modo categorizzando la donna con una rappresentazione di tipo sessuale e “criminale” (D’Eaubonne 1974: 17). Da questo punto di vista, Françoise D’Eaubonne – che nell’accezione di un ruolo femminile riconosciuto socialmente come bene sessuale e procreativo, ne intravedeva gli influssi di una costruzione misogina con effetti nel tempo sulla subordinazione delle donne – rifletteva sui legami tra patriarcato, capitalismo e sfruttamento del proletariato e delle donne.
Laddove capitalismo e patriarcato sono considerati su un analogo livello, con conseguenze sulle differenze di classe, razza e sesso, D’Eaubonne sottolineava la pervasività di tale binomio nelle istituzioni e sul piano delle strutture mentali (ivi: 19). In quest’ottica, l’immagine patriarcale di un “corpo”, quello femminile, da dominare e soggiogare, nella posizione della femminista riflette l’analogia – molto forte nelle teorie successive dell’ecofemminismo e del postcolonialismo – tra corpo femminile e natura. Infatti, nel 1974 l’antropologa e studiosa di ecofemminismo Sherry Ortner, in un suo saggio dal titolo Is Female to Male as Nature Is to Culture? (Ortner 1974) evidenzia l’universalità della subordinazione femminile.
Prendendo le mosse da una situazione che tende ad accomunare tutte le culture del mondo, Ortner suppone che la violenza – specificamente di genere – certamente, trova una origine nelle differenze culturali inscritte sul corpo, ma che in più, ha una correlazione con l’oppressione economica della “natura” femminile. Per l’antropologa, l’aspetto che va necessariamente posto in rilievo è:
«[…] the fact of woman’s full human consciousness, her full involvement in and commitment to culture’s project of transcendence over nature, may ironically explain another of the great puzzles of “the woman problem” – woman’s nearly universal unquestioning acceptance of her own devaluation. For it would seem that, as a conscious human and member of culture, she has followed out the logic of culture’s arguments and has reached culture’s conclusions along with the men» (Ortner 1974: 76).
Sulla connessione natura-corpo femminile, i temi dell’ambiente e dello sfruttamento delle donne – già negli anni Settanta e Ottanta – divennero oggetto di interesse del pensiero femminista, per il quale i principali obiettivi polemici sono individuati nella cultura antropocentrica, nella gerarchia, nel dualismo, dunque nell’androcentrismo scientifico. Da questo punto di vista, Luisella Battaglia sottolinea che in un mondo permeato dall’oppressione maschile, animali non umani, donne e ambiente sono considerati come categorie affini, similmente a dei beni o proprietà (Battaglia 1997: 25).
Negli anni Settanta, le discussioni critiche sorte in seno al femminismo contro la guerra e la scienza nucleare, portarono infatti alla creazione della Women of All Red Nations. Questa organizzazione si proponeva di sostenere la salute delle donne e combattere i metodi della sterilizzazione forzata. La riflessione femminista, in particolare, venne diretta sulla condizione delle donne native americane, denunciando i problemi causati dalle miniere nucleari sulla salute riproduttiva femminile (Ford 2008: 501). L’attenzione che la Women of All Red Nations stimolò attorno a questi temi, ossia alle ingerenze di tali pratiche sulla vita e all’incidenza oppressiva delle norme di sterilizzazione [1] sulla capacità riproduttiva femminile, rese evidente il problema della reificazione del corpo femminile, sostanzialmente, ridotto ad “oggetto” di manipolazione. In questa considerazione, la società occidentale giustifica la subordinazione sessuale e riproduttiva delle donne, di riflesso posta in relazione all’oppressione della natura; pertanto, tale rivendicazione femminile – rispetto alle istanze della prima e seconda “ondata” del femminismo – costituisce una evoluzione di prospettive, collegate a quella che viene definita terza “ondata” del femminismo [2]. In tal modo, il femminismo riporta alla luce una questione antica quanto il mondo: il dualismo uomo-donna, tuttavia, rimodulato nelle dicotomie di una neo-colonizzazione del corpo femminile.
In questi termini, la dicotomia di genere che ha caratterizzato la cultura patriarcale, si riproduce in modo diverso, ossia si rinforza di ulteriori istanze concettuali, tra cui il contrasto natura-umanità (Plumwood 2014: 52). Le logiche dicotomiche uomo-donna, umanità-natura, cultura-natura, civilizzato-primitivo, dunque inglobano il genere, la classe sociale, la razza e la natura (ibid.). Ciò premesso, le tematiche ambientali, ossia lo sfruttamento indebito della natura e l’inquinamento climatico, sono strettamente connesse alle esperienze corporee femminili.
Dalla manipolazione ambientale a quella umana
Senz’altro, una componente fondamentale dell’ecofemminismo è da ricondurre alle mobilitazioni ambientaliste. Negli anni Ottanta si assiste ad una evoluzione nelle rivendicazioni del femminismo; dalla pratica dell’autocoscienza, alle riflessioni sull’uguaglianza economica tra donne e uomini, sulla procreazione e sull’aborto, sono questioni che si dispiegano nell’ambito della critica ecologica-ambientale, ove il controllo maschile – e antropocentrico – sulle risorse naturali, finisce col convergere sull’oppressione delle donne. Similmente alla terra, le donne possono essere quindi sfruttate per ricavarne un profitto economico o sessuale.
In quest’ordine, la connessione sfruttamento ambientale-controllo del corpo femminile, corrisponde ad un riconoscimento di tipo “riduzionista”. Donne e ambiente sono, perciò, individuati come elementi sostanzialmente passivi, in grado di essere manipolati e trasformati. In tal senso, le istanze umane permeate da ideologie capitalistiche, mutuano in atteggiamento di prevaricazione, orientandosi in azioni che prevedono il raggiungimento di benefici e ricchezza.Nel 1980, Carolyn Merchant, importante figura dell’ecofemminismo e dello studio della storia ambientale, nel suo libro The Death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution (Merchant 1980) pone in primo piano il legame che – sin dagli albori della storia umana – vi è tra natura e corpo femminile.
Secondo Merchant, è con la Rivoluzione scientifica del Seicento, che il modello del “dominio” della natura inizia ad essere presente negli intenti umani di razionalizzazione e manipolazione. Sulla concezione della terra quale nutrimento di vita prende sopravvento la visione di un depauperamento delle sue risorse; giacché – osserva Merchant (1980: 279) – controllo e dominio della natura diventano necessari allo sviluppo economico. La Rivoluzione scientifica, segnata da una sorta di “filosofia del progresso”, che Carolyn Merchant riconduce già in Copernico, Bacone e Newton, raggiunse un grado di “perversità” sulla vita umana in ogni suo aspetto, di fatto, producendo una forma di ingerenza manipolativa sulla stessa natura.
Considerando il legame tra natura e corpo femminile, anche la donna viene inglobata nella fisionomia di una scienza predisposta all’incessante accumulazione di ricchezza. Nell’interdipendenza uomo-natura e donna-natura, la scienza, nel suo legame all’economia di mercato, enfatizza il nesso tra subordinazione umana e ambientale. Merchant sottolinea:
«The world we have lost was organic. From the obscure origins of our species, human beings have lived in daily, immediate, organic relation with the natural order for their sustenance. In 1500, the daily interaction with nature was still structured for most Europeans, as it was for other peoples, by close-knit, cooperative, organic communities. thus it is not surprising that for sixteenth-century Europeans the root metaphor binding together the self, society, and the cosmos was that of an organism. As a projection of the way people experienced daily life, organismic theory emphasized interdpendence among the parts of the human body, subordination of individual to communal purposes in family, community, and state, and vital life permeating the cosmos to the lowliest stone» (Merchant (1980: chapter 1: 1).
In questa prospettiva, la metafora del dominio della natura nella sua corrispondenza con il “femminile”, e gli effetti del sistema economico-capitalistico, progressivamente hanno determinato una riduzione degli esseri umani, in particolare delle donne, ad oggetti da esaminare. Ecco che la “femminilizzazione” della natura, in una logica binaria della naturalizzazione del sesso, conduce ad individuare la forza pervasiva di capitale e mercato, congiuntamente indirizzando le relazioni sociali sulla linea della produzione e riproduzione meccanica, persino delle funzioni naturali umane, quali il sesso e la maternità.
Potenzialità sessuale-riproduttiva delle donne e sfruttamento delle risorse ambientali
Dagli anni Ottanta e Novanta, la teoria femminista – specialmente, nei suoi riflessi postcoloniali, ecologici ed ambientalisti – si arricchisce di tre importanti contributi. Nel 1985 compare il volume Reflections on gender and science di Evelyn Fox Keller (Keller 1985), femminista e fisica statunitense la quale, evidenziando l’accentramento del ruolo maschile nella scienza, si interroga sulle possibili forme di oppressione e controllo sulle donne, prodotte proprio da questo tipo di scienza. Analogamente, l’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva in Staying alive. Women, ecology, and development (Shiva 1989) rifletteva sulle conseguenze dello sviluppo economico-scientifico ‘al maschile’, sia sulla vita delle donne, che sulla natura. Basando il suo pensiero sulla filosofia della non violenza di Gandhi, come reale fulcro del progresso umano, Shiva critica il concetto moderno di scienza, un sistema che pretende di ritenersi “universale” e indipendente da ogni valore etico. Sulle connessioni tra sfruttamento dell’ambiente, sistema capitalista e oppressione di genere, la sociologa Maria Mies nel suo libro Patriarchy and accumulation on a world scale (Mies 1986), contribuisce alle rivendicazioni femministe con una pungente critica alla globalizzazione neoliberista, secondo la studiosa, colpevole di aver identificato le donne e i loro corpi alla pari di risorse economiche, come se fossero tasselli determinanti nel sistema di produzione capitalistico; visione questa, certamente in linea, con una filosofia antropocentrica e neocoloniale, per la quale, prima, erano le terre ad essere colonizzate, adesso sono le donne a subire un processo così grave di riduzione dei loro corpi, per ciò che concerne la loro sfera sessuale e riproduttiva.
Da questo punto di vista, gli sviluppi attuali della medicina riproduttiva umana e l’incremento delle tecniche di riproduzione assistita, possono esser letti come dinamiche di un moderno progetto patriarcale-scientifico (Shiva 1989: 15), per il quale lo scopo principale è quello di innalzare il plusvalore, operando sul “lavoro” riproduttivo-procreativo delle donne e sulle prestazioni sessuali. In tal senso, la capacità sessuale e riproduttiva del corpo femminile è inserita in un contesto di carattere economico, in cui il sesso e la maternità, proprio come la natura, sono ridotte ad un “valore” per “qualcosa”, similmente ad un bene di consumo. L’aspetto sessuale-procreativo femminile risulta essere così determinante nella cornice dell’attuale sistema economico neoliberale.
L’associazione donna-natura, dunque, diventa motivo ricorrente dell’attuale riflessione postcoloniale ed ecofemminista, che al corpo femminile guarda attraverso una specifica angolatura, quello dell’economia e delle conseguenti ingerenze sull’aspetto sessuale-riproduttivo umano, ove il paradigma scientifico è centrale nella transizione dalla modernità al processo razionalistico e meccanicistico dell’economia.
“Esproprio” del corpo femminile: sfruttamento sessuale e procreazione
Nella seconda metà del secolo, il linguaggio femminista assume contorni rivoluzionari. Da Kate Millett e Shulamith Firestone, ad Adrienne Rich e Mary Daly, il femminismo si spinge sulla questione della subordinazione sessuale – seppure, con approcci differenti – e sull’uso della sessualità come “strumento” di un controllo, esteso su ogni ambito, da quello economico-politico a quello religioso e scientifico (Morselli 2003: 70). Successivamente, ha ricondotto tali linee oppressive alla biotecnologia, le cui conseguenze devono essere comprese in convergenza all’ascesa dell’economia neoliberale (Balzano 2015: 31). Difatti, le trasformazioni sociali, estese al campo della genetica e della microbiologia cellulare, tendono ad assumere una connotazione sovrastante, oltre che sulla vita riproduttiva umana, anche su animali e piante, il cui sfruttamento si inserisce nell’orizzonte di un consolidato meccanismo di accumulazione capitalistica (ibid.). Questo processo, che potremmo definire di “governamentalità” su ogni aspetto della vita, umana e non umana, conduce ad interrogarci sulla connessione che vi è tra denaro e innovazione tecnologica, e dei loro devastanti effetti sullo sfruttamento delle risorse corporee e ambientali, atteggiamento di cui la nuova era, cosiddetta dell’antropocene, ormai, sembra definitivamente permeata.
Considerate queste premesse, non è difficile ribadire che tra corpo, sessualità e ambiente vi è una inestricabile relazione, poiché la concessione ad “altri” di sé, in cambio di denaro, equivale a rendere disponibile la propria identità; tale condizione sembra caratterizzare i Paesi cosiddetti del “Terzo Mondo”, dall’Asia all’America latina, all’Africa, nei quali povertà e legame tra oppressione del corpo e depauperamento della natura, è particolarmente stretto. E ad incentrare l’attenzione su questo tema, fu uno scritto del 1987 della filosofa Karen Warren (Warren 1987), secondo cui tra oppressione sociale, sessismo e crisi ambientale vi è sovrapposizione e analogia, e i problemi relativi al degrado ecologico, dunque, vanno collegati alle diseguaglianze di genere, ove il “sintomo” più pericoloso dell’oppressione si inserisce nell’utilizzo mercificante che si fa del sesso e della maternità. Detto questo, prostituzione e surrogazione di maternità costituiscono due esempi emblematici di sfruttamento delle risorse “naturali”, a partire dalla femineae natura con scopo di arricchimento economico.
In questo passo, Andrea Dworkin, femminista appartenente all’area radicale, critica aspramente la prostituzione come risultato del dominio maschile.
«Every man in this society benefits from the fact that women are prostituted whether or not every man uses a woman in prostitution. This should not have to be said but it has to be said: prostitution comes from male dominance, not from female nature. It is a political reality that exists because one group of people has and maintains power over another group of people. I underline that because I want to say to you that male domination is cruel. I want to say to you that male domination must be destroyed. Male domination needs to be ended, not simply reformed, not made a little nicer, and not made a little nicer for some women. We need to look at the role of men-really look at it, study it, understand it-in keeping women poor, in keeping women homeless, homeless, in keeping girls raped, which is to say, in creating prostitutes, a population of women who will be used in prostitution. We need to look at the role of men in romanticizing prostitution, in making its cost to women culturally invisible, in using the power of this society, the economic power, the cultural power, the social power, to create silence, to create silence among those who have been hurt, the silence of the women who have been used» (Dworkin 1993: 10).
Le parole di Dworkin, che trovano consonanza di idee anche nelle riflessioni di altre autrici, come Kathleen Barry, Melissa Farley, Julie Bindel, Sheila Jeffreys, assimilano la prostituzione a una condizione non autodeterminante e largamente dipendente da povertà estrema. Secondo Andrea Dworkin, tutti gli uomini, di qualsiasi parte del mondo, traggono vantaggi dalla prostituzione delle donne, condizione denigrante che non deriva, in alcun modo, dalla natura femminile, quanto piuttosto dall’utilizzo che l’uomo fa di questa natura. Seguendo questa logica, la “colonizzazione” del corpo femminile procede con quella della natura (e delle sue componenti animali o vegetali), diventando, nel suo insieme, fulcro di un processo economico e tecnologico della sopraffazione sessuale.
La riduzione dell’ecosistema in singoli elementi ha una conversione nella massimizzazione funzionale dei corpi per il profitto. In quest’ottica, la subalternità sessuale rimarca la funzione economica del corpo femminile, insita nella logica clientelare della prostituzione, e l’elemento economico si innesta su dinamiche non solo di carattere sessuale, ma che sono anche razziali e sociali (Nussbaum 1998: 240). In particolare, in quei Paesi in cui il nesso povertà-sfruttamento sessuale delle donne è molto forte, il grado della costrizione economica si dispiega sulla forma contrattuale dello scambio monetario, aspetto che impatta su una sorta di legittimazione del potere maschile, giustificato nell’esercizio della manipolazione sessuale.
Dalla Cambogia alla Thailandia, dal Laos al Vietnam, sembra infatti in aumento il fenomeno del turismo sessuale, le cui vittime sono soprattutto ragazze giovanissime, indotte con l’inganno ad intraprendere la strada della prostituzione, a causa dell’eccessiva povertà in cui, il più delle volte, versa la famiglia di origine, condizione che presuppone i Paesi del “Terzo Mondo” come le mete privilegiate di questo tipo di reato, nei quali corruzione e povertà ne costituiscono lo sfondo. Nelle posizioni femministe degli anni Settanta e Ottanta, da Selma James a Mariarosa dalla Costa, congiuntamente ai movimenti attivisti per il salario domestico, si arriva a riformulare il ruolo femminile in convergenza alle nozioni di capitalismo e riproduzione. Contro l’ortodossia normativa eterosessuale, l’oppressione delle donne viene individuata come un “residuo” dei rapporti di accumulazione e sfruttamento centrali nel discorso della crisi ambientale. In questo caso, la differenza di potere tra uomini e donne e le asimmetrie di classe, sono da attribuire sulla base della rilevanza economica che il corpo acquisisce all’interno di un’ottica che guarda anche all’aspetto naturale ed ambientale. In tali termini, non stupisce che in certi contesti ambientali, dedicati allo sfruttamento delle risorse in generale, la sessualità femminile sia definita nella delineazione del “servizio” da sfruttare a vantaggio di terzi, giacché la prostituzione è una delle forme principali dello scambio sessuo-economico.
Paola Tabet, per esempio, osserva che ad Haiti lo sfruttamento ambientale e le condizioni di estrema povertà del luogo conducono la popolazione femminile a cercare nella vendita delle prestazioni sessuali un modo per sopravvivere, in un contesto nei quali i rapporti uomo-donna, sottolinea Tabet, sono definiti nella consuetudine del plaçage, una unione fondata su un accordo prevalentemente economico e sessuale (Tablet 2014: 35). Nel contesto haitiano, quindi, le relazioni sessuali sono identificate nella prospettiva economica dello sfruttamento, in cui il “lavoro” femminile è riconosciuto, ma, come ricchezza posta al servizio delle attività sessuali (ivi: 36).
Storicamente, anche la violenza sessuale è una dimensione essenziale dell’oppressione, peraltro costitutiva delle relazioni sociali (Davis 1983: 123). Pertanto, la struttura generale delle dicotomie sociali nel lavoro, la differenza di genere nell’accesso alle risorse ambientali e la diversa percezione del valore femminile, propriamente dipende da una determinazione sessuale del corpo femminile quale primaria risorsa da mercificare. Il controllo della sessualità per fini prostituenti, che prevede il reclutamento soprattutto di donne giovani, secondo Tabet, risulta determinante nella repressione della loro parte riproduttiva, dato che nella maggior parte dei casi, queste donne sono private anche del diritto di avere figli (Tabet 2014: 148). Come si è quindi, osservato in precedenza, il rapporto tra l’uomo e l’ambiente viene a profilarsi nei termini di una definizione tecnica (Ampolla 2012: 245). All’interno di un “gioco” che vede alternarsi logica economica e progresso tecnologico sulla natura, le “risorse” sessuali e procreative sono definite come una delle principali “forze” economiche di sussistenza.
Nella nuova fase dell’uomo oeconomicus, il problema di una neo-colonizzazione dei corpi femminili si riflette pertanto sulla natura, soprattutto con riguardo la questione della surrogazione di maternità e della commercializzazione sessuale-riproduttiva delle donne. In tal senso lo sfruttamento delle risorse naturali della terra si allinea ad uno spossessamento della ricchezza riproduttiva ricavata dal corpo delle donne, allorché lo sfruttamento ambientale, adesso, lascia definitivamente spazio ad un controllo attuato sul corpo mediante il biobusiness e la tecnoscienza; e questa volta, la manipolazione umana sulla natura si estende persino sulla genetica. La metodica di una gravidanza contrattuale rivela le proprie evidenze critiche su una reificazione sessuale indotta sul corpo femminile, con risvolti tendenti ad una alienazione della parte identitaria-procreativa. La formula contrattuale della maternità riconduce l’attenzione ad una virulenta invasione dell’umana manipolazione – tecnologica e scientifica – su ciò che, esclusivamente, deve attenere l’intimità femminile e la naturalità che dovrebbe caratterizzare la procreazione.
Seguendo questa logica, il “diritto” sessuale maschile viene affermato pubblicamente nel controllo degli uomini sulle donne, attraverso la costrizione sessuale nella prostituzione e la maternità contrattualizzata. Tale aspetto mette a nudo le criticità presenti nella procedura di surrogazione di maternità; la subordinazione contrattuale, che definisce la posizione della donna “surrogata” come subalterna sessualmente, viene infatti a caratterizzarsi quale processo di neo-colonizzazione del corpo, a partire dalla riproduzione.
Povertà e compravendita di “ricchezze” riproduttive contraddistinguono – come è noto – la realtà di alcuni Paesi, come Guatemala, India, Thailandia, che negli ultimi anni sono diventati uno snodo del mercato mondiale della maternità cosiddetta “surrogata”. Sylviane Agacinski sostiene che, attualmente, il fine del mercato (patriarcale) del baby business è quello di “colonizzare” sempre la natura, iniziando dal corpo femminile-materno, e il tema della reificazione pone rilievo sul principio di autodeterminazione del corpo femminile, tuttavia imbrigliato nella logica della “schiavitù” sessuale e della reddittività procreativa. Così scrive Agacinski:
«La passion biotechnologique connaît aujourd’hui une telle ampleur que le vivant est étouffé par ses propres ingénieurs et pris dans le filet des techniques. D’une certaine façon, l’ordre biothecnologique tend à supplanter, dans notre imaginaire même, l’ordre naturel. Nous ne conaissons scientifiquement quel es choses que nous sommes capables de faire ou de refaire, au point de nous représenter la nature à travers nos propres oeuvres, opérations et productions. La distinction antique entre les êtres naturels et les produits fabriqués (les artefacts) s’efface. La nature, dénaturalisée, ne se voit plus que dans le miroir de la technique humaine, au terme d’un désenechantement absolu» (Agancisky 2013: 35).
Gli effetti di una ideologia – quella scientifica – non orientata al rispetto di tutti quei fattori intrinseci alla natura, anche quelli sessuali e procreativi femminili, esaltano la distanza di progressismo e paradigma scientista, dalle esigenze etiche della protezione ambientale, dell’ecosistema, come della natura della donna, ove il potere della tecno-scienza si allinea al transumanesimo (Huxley 1950) al centro di una sorprendente, ma anche negativa, sostituzione della vita umana e non umana, specialmente della sua manipolazione in laboratorio. In quest’ottica le azioni volte allo sfruttamento e all’estrazione delle risorse della terra, sono traslate sull’umana natura.
Nelle riflessioni contemporanee, che vedono convergere filosofia, bioetica ed ecologia, le posizioni critiche sul degrado ambientale, mutuano il tema dai cambiamenti attuati sulla natura umana in ambito eugenetico e biogenetico. Negli anni Novanta, Francis Fukuyama (Fukuyama 1992) collega la sua teoria di “fine della storia” ai potenziali pericoli indotti dai cambiamenti ecologici, climatici e umani, posti in relazione al movimento transumanista, volto al potenziamento tecnologico della natura umana; un movimento culturale e scientifico che sostiene il dovere di «migliorare le capacità fisiche e cognitive della specie umana e di applicare le nuove tecnologie all’uomo, affinché si possano eliminare aspetti non desiderati e non necessari della condizione umana come la sofferenza, la malattia, l’invecchiamento» (Postigo 2009: 267). La monopolizzazione della natura, alla fine, viene trasferita nel controllo delle popolazioni, con conseguenze nefaste nella discriminazione sessuale e genetica, oltre che sul problema del degrado ambientale e dell’inquinamento, causati dall’attuale fase avanzata dell’industrializzazione.
All’interno di questa prospettiva transumanista ed antropocentrica, ciò che si intravede è una forma esacerbata di “competizione” tra uomo e ambiente, e quella tra uomo e natura femminile. E tale competizione è finalizzata all’esclusivo raggiungimento della ricchezza e del benessere individuale, vale a dire mediante l’accaparramento di tutte le risorse disponibili (Tarantino 2018: 4).
Sfruttamento ambientale e violenza di genere
Nel nostro tempo, il rapporto tra la natura e l’uomo è notevolmente cambiato, in quanto l’incessante sfruttamento della prima, con scopo di arricchimento da parte del secondo ha condotto ad una politica finalizzata al consumismo e all’utilità del potere. Servirsi delle risorse della terra, dell’acqua, degli animali e vegetali, dovrebbe essere un’azione commisurata alle effettive necessità individuali, all’interno di un modello di sviluppo sostenibile e di un regime economico che non abbia come risvolti soltanto la distruzione dell’ambiente naturale e, in generale, delle specie viventi.
A questo proposito, anche Cate Owren, manager del Gender and Environment Resource Center, individua con attenzione tutte le connessioni tra sfruttamento ambientale, cambiamento climatico e violenze sulle donne. Queste ultime, tra cui schiavitù sessuale, subalternità e maltrattamenti domestici, sfruttamento della riproduzione, sembrano essere in aumento a causa delle emergenze ambientali e della pressione sugli ecosistemi, fattori da cui conseguono povertà e altrettante difficoltà a trovare un lavoro. Del resto, in alcune aree del mondo, contraddistinte da condizioni difficili di vita, nel 2009 la Food and Agriculture Organization (FAO) ha confermato che le donne possono essere soggette a situazioni di violenza e sopraffazione, e che su di esse, prevalentemente, grava anche la responsabilità lavorativa. Nel sud-est asiatico, sono le donne che forniscono il 90 per cento del lavoro, per quanto riguarda la coltivazione di riso, mentre in Burkina Faso le donne costituiscono il 95 per cento della forza-lavoro agricola (Dankelman, Jansen 2010: 25).
Nel XXI secolo, nelle aree più particolari e complesse, l’effetto combinato di guerre, degrado ambientale e cambiamenti climatici, dunque, pare intrecciarsi alle nuove oppressioni sessuali come il traffico di esseri umani, la prostituzione [3], i matrimoni forzati, nonché le forme di compravendita riproduttiva a cui sono soggette le donne, vittime di un modello economico aggressivo, intrinsecamente legato al problema ambientale e climatico.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Il discorso si rivolge alle norme sulla sterilizzazione che, dal 1970, vennero imposte negli Stati Uniti all’interno di un programma per il controllo delle nascite per le donne con più di 25 anni.
[2] La Third-wave feminism o terza “ondata” femminista, ebbe inizio negli anni Novanta in area statunitense e prosegue sino al 2010, con il subentrare della quarta “ondata”. Le istanze di questa nuova ondata, prendono corpo dalle rivendicazioni dei diritti civili della seconda, contribuendo ad una ridefinizione del concetto di femminismo stesso e di diversità di genere. Viene infatti introdotta dall’attivista statunitense Kimberlé Williams Crenshaw la nozione di “intersezionalità”, sottolineando come le donne sperimentino nella vita quotidiana situazioni continue di discriminazione e oppressione, acuite anche da fattori di classe sociale e di razza.
[3] In Perù e Colombia, nelle cui miniere sono numerose le estrazioni illegali di materie prime, vi è un forte aumento della prostituzione, anche minorile.
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TARANTINO Giovanni, Su un rapporto armonico tra uomo e natura: una riflessione etico-giuridica, «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 12, 2018.
WARREN Karen J., Feminism and Ecology. Making Connections, «Environmental Ethics», 9, 1, 1987, DOI 10.5840/enviroethics19879113
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Laura Sugamele, dapprima si è laureata in Filosofia e scienze etiche presso l’Università di Palermo e ha completato i suoi studi di specializzazione in Filosofia e forme del sapere all’Università di Pisa. Attualmente è dottoranda in Studi Politici presso l’Università “La Sapienza” di Roma. I suoi interessi di ricerca si rivolgono agli studi di genere, filosofia politica, storia del pensiero femminista con un focus sullo studio del femminismo postcoloniale. È autrice di Bioetica e femminismo. Rivisitazione dell’etica dei principi e sviluppo della competenza dell’autonomia (Stamen, 2016).
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