Da qualche mese è in vendita nelle librerie un volume importante, assolutamente da leggere. Arabpop. Arte e letteratura in rivolta dai paesi arabi (a cura di Chiara Comito e Silvia Moresi, edito da Mimesis) è il libro che mancava per una comprensione finalmente attuale del mondo arabo. I fermenti culturali che hanno contraddistinto l’ultimo decennio in molti Paesi arabi rappresentano un fenomeno che ha e avrà un impatto importante nell’evoluzione di queste società.
Analizzando i movimenti artistici e le tendenze culturali nati sulla scia delle rivolte arabe di fine 2010-inizio 2011, Arabpop descrive un insieme di società giovani, fluide, inquiete, ricche di contraddizioni ma determinate a ritrovare un’identità. Non ci sono solo “primavere” o “autunni” politici, piuttosto la ricerca della dignità. Karama – questo è il termine arabo per dignità (ndr) – è quella che ha contraddistinto, per esempio, la resistenza di generazioni di artisti, scrittori, cineasti, oppositori dei regimi, attivisti per i diritti politici e civili, “avanguardie”, antesignani di un movimento transnazionale di rivolta.
Approfondire la conoscenza del mondo arabo vuol dire abbandonare i pregiudizi sedimentati in anni di cattiva comunicazione, di tesi accademiche precostituite, di (e)(o)rrori semantici. Il mondo arabo, spesso confuso con tutto il mondo musulmano e l’Islam in generale, è vittima di una vulgata superficiale che lo descrive come un universo monolitico, rappresentato da tradizioni secolari che pervadono la società e ne condizionano lo sviluppo. Anche diversi insigni arabisti occidentali perpetrano tale immagine riduttiva focalizzando le loro attenzioni sul solo fondamentalismo politico e religioso, dimenticando che le società arabe sono molto diverse fra loro e attraversate da una moltitudine di condizioni politiche ed economiche e fermenti di vario tipo.
Gli eventi seguiti al 2011 che hanno sconvolto il mondo arabo narrano di uno storico processo di cambiamento interno i cui protagonisti sono le giovani generazioni. Riflettere su questo processo vuol dire, però, conoscere le sofferenze dei popoli in rivolta, le atrocità subite, le repressioni, le frustrazioni, i sogni infranti, occorre ascoltare. Leggendo i versi dello scrittore siriano Khaled Khalifa capiamo meglio:
Credo che le rivoluzioni non debbano mentire, per non perdere la loro credibilità. Credo che debbano raccogliere le dichiarazioni dei testimoni, in cui si intrecciano particolari che raccontano il dolore, l’assalto alle città, il fuoco aperto senza ritegno sui manifestanti. […] penso che la verità debba essere sovrana della narrazione, quando si parla di sangue, rivoluzioni e sogni di cambiamento, di costruzione di una prospettiva dignitosa […].
Le autrici di Arabpop hanno fatto esattamente questo: hanno ascoltato. Otto donne, otto esperte di mondo arabo hanno passato in rassegna le principali tendenze culturali all’indomani delle rivolte del 2011. Arabpop vuole essere uno strumento di accesso rivolto «non solo agli addetti ai lavori», come le autrici specificano, «ma al contrario un libro che incuriosisca i lettori italiani, proponendo un’immagine del mondo arabo culturalmente vitale e distante da alcuni imperanti pregiudizi».
Il termine “pop” del titolo ha una doppia valenza: indica espressioni culturali che vogliono raggiungere un pubblico molto ampio, anche al di là dei confini nazionali; suggerisce inoltre la popolarità delle nuove forme di espressione culturale contrapposte alla produzione di élite o formale che caratterizzava la cultura ufficiale di regime, autorizzata dal partito, dal governo o dai canali ufficiali di rappresentanza.
Le otto autrici di Arabpop indagano altrettanti ambiti culturali, differenti eppure interconnessi, attraversati da nuove dinamiche comunicative e sociali: dalla letteratura al fumetto, dalla musica al cinema, dalle arti performative alle arti visive. Emergono tematiche trasversali ai diversi ambiti:
- L’uso di nuovi mezzi di comunicazione di massa (la rivoluzione digitale che ha interessato le società arabe agli inizi del 2000, l’avvento dei social network);
- Un utilizzo alternativo della lingua e la creazione di nuovi linguaggi;
- La riconquista dello spazio pubblico;
- Il confronto aperto con i riferimenti culturali occidentali, il tentativo di trovare una propria originalità e indipendenza.
Il mondo arabo a ridosso delle rivolte del 2011 ereditava anni di incertezza economica e sociale. Il lungo processo di decolonizzazione aveva prodotto conflitti e autoritarismi per lo più basati su corruzione e ingiustizia sociale. Chi è sceso nelle piazze ha deciso di aprire un confronto con il passato. Progressivamente, è emerso il bisogno di ridiscutere i propri valori, i propri simboli, la propria identità: le rivolte arabe hanno indubbiamente accelerato questo processo di ricostruzione identitaria.
L’avvento del digitale alla fine degli anni Novanta ha permesso di aggirare clandestinamente la censura dei regimi e il propagarsi di nuove forme di protesta. L’opposizione correva lungo i social, anche per la mancanza di strutture aggregative come associazioni o partiti attraverso i quali esprimersi. I nuovi canali comunicativi hanno favorito il diffondersi di nuove forme d’arte, offerto uno spazio virtuale nel quale farsi conoscere, realizzato alleanze, plasmato una sorta di identità sovranazionale fra le giovani masse arabe, come spiega una delle curatrici del libro, Silvia Moresi, nel capitolo sulla poesia.
Il cinema e il teatro hanno anticipato molte delle tematiche sociali che sarebbero poi esplose durante le rivolte, spesso celando l’intento di critica ai regimi in carica, camuffando i soggetti e i protagonisti delle storie. Questo modo di contrastare la censura si è rivelato efficace anche dopo le rivolte del 2011, quando alla fase rivoluzionaria è pian piano subentrata la repressione e la restaurazione autoritaria, per esempio in Egitto o in Siria.
Chiara Comito, nel capitolo sulla letteratura, descrive l’affermazione di alcuni generi letterari del romanzo arabo in un mercato in crescita. La necessità di raccontare in un clima politico sempre più difficile ha incoraggiato l’utilizzo di espedienti, delle metafore e delle distopie, per poter descrivere una realtà che mutava e, possibilmente, scongiurarne gli incerti contorni futuri. La letteratura ha anche provato a raccontare il fenomeno integralista, soffermandosi sulle motivazioni che spingono un giovane arabo a sposare certe cause, la disillusione che le alimenta, la perenne ricerca di riscatto. Anche la poesia ha qualcosa da rimproverare al passato, alla poetica dell’impegno civile, come suggerisce il poeta libanese Mazen Maarouf che esorta ad abbandonare i vecchi schematismi ideologici per rinnovare la poesia in senso più individualista e intimo.
La poesia, come il fumetto o la musica, è il territorio di espressione principale dei nuovi linguaggi post-rivolte, ha stravolto stili e vecchi schematismi, operando una sorta di “rivoluzione estetica”. Disciplina popolarissima in tutto il mondo arabo, come testimonia il seguitissimo talent show “Amir al Shu’ara”, prodotto dal 2007 dalla televisione di Abu Dhabi. I protagonisti non sono i futuri divi della canzone o dello spettacolo, bensì poeti dal grande fascino che fanno letteralmente impazzire il pubblico di milioni di spettatori dal Nord Africa al Medio Oriente, realizzando tendenze e contrapponendo stili e interpretazioni.
Un altro elemento che ha segnato l’espressione artistica e letteraria delle rivolte è stato sicuramente l’abbandono dell’arabo classico a favore dei singoli dialetti nazionali. Le motivazioni possono rintracciarsi in una presa di posizione contro la cultura ufficiale e istituzionale, un’espressione del qui ed ora del linguaggio delle rivolte, ma anche un confronto diretto con la religione (l’arabo classico è la lingua del Corano) e il panarabismo dei padri. Come descrive Luce Lacquaniti nel bel capitolo “La strada è lo Spazio Comune”, sui muri delle città compaiono i versi dei grandi poeti arabi, la protesta si esprime attraverso il dialetto, le immagini dei vecchi eroi e combattenti vengono a poco a poco sostituite da una nuova iconografia: il popolo comincia a parlare con la propria voce e i propri simboli.
Una delle prime mostre che ospitai a Tunisi subito dopo la rivoluzione del gennaio 2011 ebbe come titolo Tag ta révolution (“firma la tua rivoluzione”). I muri di Tunisi si erano nel frattempo riempiti di scritte, frasi, versi, immagini: la rivoluzione era declamata, disegnata, spiegata, ognuno partecipava con la sua firma a questa conquista, liberamente. La libertà conquistata per le strade e sui muri, l’arte che scende nelle strade e fra la gente, i gruppi di gente che discutono di politica nei bar e sui boulevard delle grandi capitali, tutto testimonia un passaggio epocale per il mondo arabo all’indomani del 2011: la riconquista dello spazio pubblico, uno spazio per anni negato, presidiato da polizia e delatori.
La riconquista delle piazze significherà anche ripensare la città, “sognarla”, immaginare nuove forme di collaborazione e partecipazione attiva: lo spazio torna a essere di tutti! Ricordo il clima di tensione che si respirava nel 2012 a Tunisi in seguito agli attacchi di gruppi fondamentalisti islamici a varie istituzioni culturali ed eventi artistici. In quella temperie, la terza edizione del Festival Dream City, biennale di arte contemporanea, creò un tale legame con gli abitanti della Medina che in molti fra loro si proposero di proteggere i luoghi dell’arte e il quartier generale della manifestazione.
“Gli artisti di fronte alle libertà” fu allora lo slogan, la prima dopo la Rivoluzione. Un’edizione preparata dopo gli incontri di “Remue Dreams”, nei mesi precedenti, che sigillarono una sorta di alleanza straordinaria fra artisti e studiosi della città, un patto che si svelò lungo i vicoli del centro storico di Tunisi come un’immaginaria coreografia che coinvolgeva anche il pubblico.
Una delle autrici di Arabpop, Anna Serlenga, indica nel corpo e nel desiderio gli «elementi di innovazione dirompente» di questa ritrovata libertà di espressione. Le arti performative irrompono nello spazio pubblico alla ricerca di un dialogo costante con lo spettatore e lo incoraggiano a indagare il campo dei diritti individuali, a renderlo di nuovo artefice di un processo creativo e politico, infine pienamente democratico.
L’ultima grande tematica che rimane sullo sfondo è quella del retaggio culturale occidentale. Nelle arti visive il confronto con questa eredità è una presenza costante. L’arte contemporanea araba, che già risente del dibattito sulla rappresentazione della figura umana, deve inoltre fare i conti con un netto ritardo nella ricerca e produzione scientifica.
L’arte delle rivoluzioni post 2011 ha provato a indagare nuove strade, superando il confronto con i modelli artistici occidentali e delineando una nuova identità. Un tentativo che è stato in parte apprezzato dal mercato internazionale, anche se è ancora un work in progress. È fortissima la volontà da parte degli artisti arabi di rimettere tutto in discussione: i propri modelli, i modelli occidentali, la propria percezione dell’arte. L’artista, sulla scia della lezione di Edward Said, vuole “disorientare” lo spettatore, eliminando i pregiudizi di una visione “orientalista”.
Permane, tuttavia, l’elemento della memoria e il confronto con la propria tradizione, come nella bellissima opera di Wael Shawky, “Cabaret Crusades” (2010), nella quale l’artista reinterpreta la storia delle crociate da un altro punto di vista; oppure il lavoro di rielaborazione del glorioso passato dell’antico Egitto simbolicamente utilizzato in chiave moderna nelle opere di Khaled Hafez. In tal senso, va visto come un esercizio di rielaborazione della tradizione in chiave pop anche l’utilizzo della lingua e scrittura araba nella produzione artistica attraverso la calligrafia.
L’interesse del mercato dell’arte è dimostrato dalla vivacità finanziaria dei moderni centri e gallerie e dall’attivismo delle fondazioni del Golfo Persico, con la nascita di svariati concorsi e premi nelle nuove capitali culturali (Doha, Abu Dhabi, Dubai). Rimane da chiedersi quanto, però, il peso economico e finanziario degli sceicchi del Golfo non rappresenti, piuttosto, una forma di soft power, come giustamente si interroga la curatrice di Arabpop Chiara Comito riguardo all’analoga crescita dei premi letterari.
Più comprensibile il tema del confronto in ambito musicale, essendo la commistione di generi essenza del processo di ricerca musicale in uno scenario ormai digitale e globale. Nel 2008, Mark LeVine, professore dell’Università di Irvine in California, raccontò nel profetico volume Heavy Metal Islam la crescita dell’interesse per il genere musicale hard rock e heavy metal in molti Paesi arabo-musulmani, dal Marocco al Pakistan.
Questa, come altre ricerche, suggerisce che la preponderanza di costumi culturali e religiosi tradizionali nei Paesi islamici non impedisce affatto la nascita e lo svilupparsi di forme artistiche alternative, spesso anche in aperta opposizione alle consuetudini sociali o alle censure di regime. Basti pensare a Paesi come l’Iran, dove la censura morale e religiosa è spesso aggirata, nonostante la rigidità dei controlli e delle leggi.
La musica, con la sua capacità di diffusione in tutto il mondo, è anche un modo per affrontare tematiche ancora ostiche per il mondo arabo, veicolando messaggi politici o incoraggiando discussioni sui diritti civili come nel caso della band libanese Mashrou Leila, il cui frontman ha dichiarato apertamente il suo coming- out, scatenando un acceso dibattito pubblico.
L’avvento delle rivolte arabe ha favorito ancor di più la sperimentazione musicale e la produzione indipendente, utilizzando generi non tradizionali come il rap o l’hip-hop, anche grazie ai canali di distribuzione come Youtube o le piattaforme internazionali quali Soundcloud. Questo è stato il caso, per esempio, del rapper tunisino Hamada Ben Amor (in arte “el General”), che ha raggiunto una notorietà mondiale diffondendo il suo dissenso per il Presidente Zine el Abidine Ben Ali in versione rap tramite i canali social.
Arabpop apre con una dedica a Lina Ben Mhenni, “attivista e rivoluzionaria” tunisina, morta purtroppo recentemente. Lina faceva parte a pieno titolo di questa generazione in movimento, con il suo impegno, la sua passione, la consapevolezza di dover lottare quotidianamente contro la sua malattia, per i diritti del suo popolo e per cogliere le opportunità offerte dal momento storico.
Le rivolte arabe hanno avviato un processo di riforma ineluttabile, scandito dalle esortazioni alla vecchia classe dirigente a farsi da parte: “Dégage, Irhal, Vattene!” sono gli slogan urlati ai dittatori. Questo processo è ancora in corso, l’egoismo e la miopia delle politiche occidentali lo hanno a più riprese rallentato, se non ostacolato. Possiamo però considerare questi movimenti come avanguardistici e ritenere a buon diritto che siano in grado di cambiare la storia delle società arabe nel futuro, magari partecipando alla costituzione di nuove classi dirigenti.
Spetterà, però, ancora ai popoli arabi essere artefici di questa storia, come recitava il poeta tunisino Abu al Qasim al Shabbi nei versi che hanno accompagnato le rivolte di questo ultimo decennio: “Se un giorno il popolo vorrà vivere / il destino dovrà assecondarlo / la notte dovrà dissiparsi / e le catene dovranno spezzarsi” (“La volontà di vivere”, 1933).
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
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Federico Costanza, si occupa di progettazione e management strategico culturale, con un’attenzione specifica all’area euro-mediterranea e alle società islamiche. Ha diretto per diversi anni la sede della Fondazione Orestiadi di Gibellina in Tunisia, promuovendo numerose iniziative e sostenendo le avanguardie artistiche tunisine attraverso il centro culturale di Dar Bach Hamba, nella Medina di Tunisi.
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