di Piero Vereni
Nel suo intervento al primo webinar SIAC della serie «Pandemia e accelerazione digitale» del 29 giugno 2020, Berardino Palumbo ha fatto notare che la sanitarizzazione del fieldwork potrebbe rendere di fatto impossibile condurre ricerca con le modalità tipiche dell’etnografia e citava come esempi il Kaiko degli Tsembaga Maring raccontato da Roy Rappaport e la Vara di Messina raccontata dallo stesso Palumbo, feste che coinvolgono migliaia di persone anche e soprattutto perché sono eventi comunitari in cui non è chiaro quale sia il confine tra attori e spettatori. Come si fa a fare etnografia di una pratica collettiva aggregante ma sospesa, interrotta o, dio non voglia, estinta? E se fossi un dottorando? Se la mia carriera professionale (e quindi anche lavorativa) dipendesse da questo tipo di dato, una volta che si è volatilizzato nell’empireo digitale, cosa posso fare per salvare il campo?
Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo stesso webinar, confesso che ero più interessato a temi di riflessività epistemologica: l’emergenza sanitaria del 2020, per come l’avevo vissuta e letta, mi sembrava porre seri problemi a tutta la disciplina, più che impicci d’ordine pratico ai dottorandi in cerca del campo. Se quel che ancora ci interessa è il piano culturale (cioè la strutturazione analogico-simbolica del reale, oltre le determinazioni di ordine politico, economico o biologico), quel piano attraversa tutto il reale sociale, mica solo le tradizionali tradizioni studiate dagli antropologi, preservate o perdute che siano.
Il rischio etnografico, insiste Palumbo, è però quello della sociologizzazione del nostro lavoro: con la sanitarizzazione e conseguente digitalizzazione del campo, verrebbe infatti a mancare l’interazione corporea, l’essere “lì”. Questa assenza di interazioni di prossimità spinge verso l’inerzia sociologica, incline piuttosto a far coincidere lo sforzo della raccolta dei dati con la collezione di un “numero adeguato” di interviste il più strutturate possibile. Se riduciamo il nostro lavoro alle interviste (peggio, alle videointerviste) l’etnografia come indagine del piano culturale viene a morire.
Sono perfettamente d’accordo con Palumbo, ma mi chiedo se la riduzione sociologizzante dell’etnografia sia un rischio tutto imputabile al presente, prodotto dall’emergenza sanitaria e dalla conseguente “accelerazione digitale” decorporante, o non piuttosto una tendenza già in atto e di ben più lunga durata, che dipende a sua volta da una crisi epistemologica della disciplina e del suo fare.
La crisi morale dell’antropologia dipende dal fatto che molte e molti di noi non credono più (o, per i più giovani, non hanno mai creduto) alla rilevanza costitutiva del piano simbolico e danno la precedenza (nell’analisi e nella spiegazione) a fattori di ordine politico-economico. Questa insistenza sul piano “realmente determinante” del reale sociale dipende dalla progressiva irrilevanza dell’antropologia come disciplina ma è anche, paradossalmente, la causa della sua crescente emarginazione nel dibattito pubblico.
L’emergenza sanitaria, il lockdown, il crescente numero di “morti in eccesso”, la privatizzazione ex lege del lutto, la chiusura inusitata di tutti i luoghi di culto e di istruzione, il ripensamento necessariamente sospettoso dell’Altro, la contrapposizione morale tra casa e strada, la lotta strisciante tra generazioni a rischio e generazioni chissenefrega, e quella ancora più subdola tra lavoratori “essenziali” e quindi contagiabili e lavoratori “smart”; tutto questo sconquasso del fondamento stesso della nozione di società ha però bisogno non solo di analisi economiche (alla fine condensabili nel rassicurante follow the money), non solo di spiegazioni bio-politiche (l’eccezione come regola, ovviamente senza eccezioni…) ma prima di tutto di un serio lavoro di cura.
Oltre al valore esplicativo delle nostre analisi, e ben prima di qualunque funzione politica in senso trasformativo, il covid-19 ci ha dunque sollecitato rispetto alla dimensione terapeutica del nostro fare. Non capipopolo, non medici, ma infermieri; non Braveheart disposti a immolarsi per salvare non si sa chi, non prometeici dottor Frankenstein tutti protesi a inventarsi qualcosa di nuovo, ma più modeste (per obiettivi, non per tempra morale) Florence Nightingale, pronte a prendersi cura delle vittime di uno sconquasso poco comprensibile, questo è il ruolo che ho visto per l’antropologia culturale.
Credo che la metafora bellica che ha spesso accompagnato il racconto dell’emergenza sanitaria (“siamo in guerra”) possa avere un valore d’uso, soprattutto se la guerra cui si allude analogicamente è la Seconda guerra mondiale. Il valore consiste nell’immagine delle ferite e ancor più delle macerie prodotte da un agente esterno, nella figura del “disastro” e nella necessità della recovery. Anche senza fare riferimento all’ecatombe della Val Seriana, il virus ha lasciato ferite profonde nell’animo di molti e molte: anziani costretti a sospendere (e spesso a perdere) molte delle loro abitudini; bambini ridotti a proprietà privata dei genitori e privati per mesi del gruppo dei pari; lavoratori demotivati o sottoposti a rischi eccessivi; legami umani della più varia natura costretti a una riflessività forzosa con il trauma che questa nuova consapevolezza di sé sempre comporta.
In tutto questo, gli antropologi e le antropologhe si sono trovati attori come tutti gli altri, contagiati e contagianti. Come Florence Nightingale, non sono in grado di impedire le ferite e le macerie, sono anzi essi stessi vittime potenziali, non hanno soluzioni risolutive, ma sanno come si fa una sutura d’emergenza o come si possa evitare un’infezione con una fasciatura appropriata. Perché non mettere a frutto le nostre competenze, portare il nostro archivio antropologico a sostegno di chi ha bisogno di trovare un senso del proprio smarrimento?
Perché una disciplina come la psicologia vive senza particolari perplessità la sua duplice funzione di strumento di conoscenza e di terapia, mentre l’antropologia rimane paralizzata nella sua funzione terapeutica anche di fronte a un disastro sociale di scala planetaria rispetto al quale nessuno si può chiamare osservatore esterno? Perché solo le malattie riducibili alla sfera privata del corpo o dell’animo singolo sono degne di attenzione? Perché, di fronte a un disastro collettivo che produce dolore e disagio di gruppo se non di comunità, si dovrebbe rimuovere il valore del lavoro collettivo di cura?
Io immagino un’antropologia coinvolta nelle ASL e nei Centri di Salute Mentale territoriali, con antropologi e antropologhe disposte a collaborare come consulenti per insegnanti in difficoltà a gestire la vulnerabilità dei loro alunni; genitori lavoratori in crisi di compresenza tra ruolo genitoriale e educativo; anziani che hanno smarrito il senso della comunità non per pessimismo senile, ma per il puro dato di fatto della prevenzione del rischio. Si tratta di forme di disagio e dolore tutte sociali, tutte culturali, che non possono essere affrontate solo con la strumentazione della psicologia individuale. E se gli psicologi hanno creato la psicologia sociale proprio come quadro di contesto per comprendere alcune forme dell’agire e del patire umano che non dipendono da forme privatizzate dell’animo, ma sono invece il sedimento di sommovimenti ad ampio raggio di ordine culturale, come antropologi e antropologhe abbiamo il dovere di riconoscere il nostro ruolo e mettere a frutto le nostre competenze per far sì che la psicologia sociale sia veramente sociale (e veramente culturale).
Soprattutto, vedrei gli antropologi e le antropologhe lavorare alla ricucitura del ritmo spezzato del tempo rituale: una delle cose moralmente più devastanti e cognitivamente più difficili da sostenere con il lockdown è stata la frammentazione degli schemi sociali di azione incorporata, e in molti casi la fase 2 è ben lontana da un ripristino completo dello stato iniziale. Ci sono ancora tanti bambini e bambine, tanti adulti, tanti anziani che hanno perduto ritualità quotidiane e che dovrebbero essere riaccompagnati in ciclicità condivise. Perché non pensare all’antropologo di quartiere che verifica e sanifica lo stato ritmico del territorio sotto il suo controllo? Perché non pensare a lavori in parallelo con le chiese delle diverse denominazioni, le moschee e le sinagoghe, con le scuole e le palestre, per rieducare insieme le comunità locali ai ritmi della vita associata tramite piccoli “corsi di rituali quotidiani” e altri momenti in cui imparare, ad esempio, che il distanziamento sociale non è una pedagogia del sospetto ma un esercizio per imparare a prendersi cura dell’altro? Certo, ci vuole impegno, ci vuole fantasia, e ci vogliono amministrazioni che comprendano che bisogna investire in progetti di questo tipo, che servono a rinsaldare o spesso a costituire un tessuto sociale sano, ma questo sarebbe un uso pubblico della nostra disciplina, un modo di essere professionisti e professioniste dentro la forma di vita che abitiamo, e non necessariamente (o solamente) in uno spazio dell’esotico che facciamo sempre più fatica a inventarci.
Nel suo ultimo libro, scritto prima della crisi sanitaria in atto, Tim Ingold ci ricorda che «noi studiamo con le persone, piuttosto che fare uno studio delle persone». A partire dalla pandemia, malattia planetaria che ci ha colpiti come specie animale, prima ancora che come società o culture, possiamo aggiungere una chiosa empirica a questa sintesi importante del lavoro degli antropologi e delle antropologhe nel mondo: studiare con le persone è solo un momento, una fase necessaria per la nostro professione ma non esaustiva umanamente di un’azione più vasta, che ci impegna tutti moralmente, come specie e come esseri senzienti, vale a dire vivere assieme alle persone con cui studiamo.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
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Piero Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020.
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