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Consagra scenoscultore: fra Mazara e Gibellina

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Scenografia della Città di Tebe, sulla scalinata antistante la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma 1989

per Consagra

di Giovanni Isgrò

In occasione del centenario della nascita di Pietro Consagra, nel dedicare al grande Maestro alcune mie personali riflessioni sulla sua originale figura che a me piace definire di “scenoscultore”, non posso non sottolineare come alla base dell’invenzione artistica e del lavoro tecnico tendenti al sublime, vada riconosciuta la dimensione di un uomo semplice, attraversato dal bisogno di riscatto sociale da quell’origine povera che tuttavia gli diede forza per raggiungere la soglia dell’arte.

Oedipus Rex

La scultura “Città di Tebe” collocata nella piazza del Municipio di Gibellina è una delle testimonianze più chiare e dirette, oltre che dell’idea della Città Frontale, del rapporto fra scena e scultura nell’invenzione artistica di Consagra. Ideata per la messinscena di Oedipus Rex di Sofocle per la regia di Mario Martone al Teatro dei Ruderi nel 1988, è stata collocata nel 1989 in mostra a Roma sulla scalinata antistante la Galleria Nazionale d’Arte Moderna prima di tornare a Gibellina nel luogo dove ancora oggi è ubicata. Scriveva Consagra a proposito della scelta tematica della sua creazione artistica per la rappresentazione della “Tebe di Oedipus città della peste” alle Orestiadi [1]:

«Le nostre grandi città hanno la peste della “insensatezza”, la peste della “improvvisazione”, la peste della “corruzione”. Roma oggi come Tebe della tragedia di Sofocle. Tebe dagli incroci tragici, dalle strade soffocanti, dai templi impraticabili, dai monumenti abbandonati, dai luoghi di incontro impossibili. Tebe degli scippi, degli sfratti, della violenza e dell’incesto».

Consagra dunque mostra un’immagine attualizzata del malessere di Tebe; e aggiunge: «Un altro scultore come me tra alcuni secoli rappresenterà Roma di oggi come io ho immaginato Tebe di ieri, farà un raffronto con la sua città da cui avrà cercato di salvarsi».

Sul piano strettamente teatrologico, soprattutto in riferimento alla ubicazione e al ruolo scenico dell’opera di Consagra nello spazio dei Ruderi adattato ad anfiteatro, con nello sfondo la vasta profondità del paesaggio, può essere utile un confronto con una delle testimonianze più significative di messinscena novecentesca del dramma di Edipo re, ossia quella realizzata da Max Reinhardt al Coven Garden di Londra nel 1912. In quella rappresentazione l’impatto emotivo era stato determinato dalla contrapposizione fra monumentalità e massa in un contesto di ritualità intesa come partecipazione collettiva e diretta alla tensione drammatica dell’opera di Sofocle. Per quanto il teatro greco dovesse costituire un modello per le sue dimensioni monumentali, il nuovo teatro per il popolo voluto da Reinhardt non doveva essere una imitazione ma un adattamento riconducibile alla realtà contemporanea.

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Gibellina, La città di Tebe

Da questo intento nacque l’idea della costruzione scenico-architettonica come contenitore espressivo, sia dello spazio d’azione che di quello di platea. In questo modo, mentre nella struttura del teatro greco gli spettatori disposti nella grande gradinata semicircolare erano al tempo stesso massa partecipante al rito di purificazione sociale, in quella creata a spazio totale all’interno di contenitori anonimi, si propose l’idea di un dispositivo scenicamente a tutto campo, all’interno del quale si contestualizzavano, con ruoli complementari, attori e spettatori-attanti. La rappresentazione scenografica della città di Tebe fu risolta nella monumentalità della facciata del palazzo di Edipo, utilizzando l’intero proscenio delimitato da due imponenti pilastri neri.

La massa, costituita in buona parte da studenti, posta all’inizio davanti alle porte bronzee del palazzo in fondo, con urla e lamenti rendeva l’aria inquieta, mentre la luce improvvisamente irrompeva sulla gente ammassata che poi cadeva supplicando e allungando le mani. Da quel momento il gigantesco palazzo rimaneva escluso dal movimento scenico che si spostava verso e poi in mezzo agli spettatori.

Il contatto più spettacolare fra Edipo e la massa/pubblico avveniva nel finale quando il cieco re con gli occhi coperti si faceva strada lungo la passerella fra gli spettatori, provocando tenore ed emozione intanto che dal fondo del palco proveniva un prolungato pianto, ed effetti di luce esprimevano al chiuso l’idea di una spettacolarità a tutto campo, come se ci si trovasse in uno spazio senza limiti, quale soltanto una situazione en plein air poteva garantire.

Ed eccoci al ruolo fuori canone del teatro all’aperto dei ruderi di Gibellina e alla straordinaria originalità dell’apporto di Pietro Consagra. La sua scenografia fu infatti chiaramente di segno opposto, non soltanto rispetto a quella ideata da Reinhardt, ma in generale a quella di tutto il mondo scenografico legato alle rappresentazioni riconducibili alla tragedia greca dove, almeno fino agli anni delle Orestiadi, aveva dominato quasi sempre l’elemento costruito e praticabile, costituito generalmente dal palazzo del potere, o comunque dall’architettura che lo rappresenta, fossero anche le mura della città, pur rese nella forma stilizzata o nell’interpretazione simbolica.

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Città di Tebe, scenografia per Edipus rex, Orestiadi di Gibellina, 1988

Consagra, invece, sulla collinetta retrostante la grande piattaforma, dove prendevano posto cantanti, attori e performer, allineò su tre quote diverse, come ad arrampicarsi sul declivio, le sue 21 sculture bianche raffiguranti la città di Tebe ammalata. La composizione scultorea era dunque frontale rispetto agli spettatori, ma nonostante la staticità della materia metallica, si mostrava nella sua dinamicità espressiva, divenendo costantemente elemento attivo della narrazione drammatica per certi aspetti sostituendosi o integrando l’azione dell’attore, o comunque caricando di senso il suo intervento, come nel caso dell’apparizione di Creonte. Come scrive lo stesso Martone, «egli (Creonte) appare sulla collina, nel mezzo della città: egli è il re e il suo destino lo vuole prigioniero della città stessa e delle sue leggi, come se città e re fossero un solo corpo stretto dai soffocanti legami del potere»[2].

La città in ogni caso era sempre al centro dell’azione, anche quando da lontano appariva il piccolo corteo funebre provenendo di là dalle colline, o quando, come descrive ancora Martone, «si illuminerà un luogo lontano, verso le colline, dove un altro Edipo viene legato». Lo stesso coro dei cittadini e il narratore arrivavano da lontano per poi collocarsi davanti alla scultura di Consagra. La città frontale, dunque, diversamente dal palazzo/città di Reinhardt, non cessava mai di dialogare con il pubblico coinvolgendolo nel pathos animato dal dramma dell’uomo e della città invivibile che lo ospitava.

Ma c’era un ulteriore elemento che accostava l’opera di Consagra all’idea del movimento scenico; ossia l’artista propose le sue sculture vicine fra loro in modo da determinare una sorta di rapporto “drammatico” interno alla “scena”, fra una scultura e l’altra: una sorta di azione continua, simile ad una danza tragica, piuttosto che ad una sconvolgente pantomima fatta di richiami fra momenti diversi, ma simultanei, di una medesima rappresentazione nonostante la staticità della materia.

Gabriella di Milia riferendosi in generale alla visione delle opere scultoree dell’artista posizionate nel suo studio, ebbe modo di notare questa forma di corrispondenza fra le sculture allineate e collocate vicine una all’altra [3]:

«Quando ho visitato per la prima volta lo studio di Consagra a Roma sono stata colpita dal fatto che le sue sculture fossero allineate vicine e che tra l’una e l’altra si stabilisse un reciproco richiamo. Lo opere mi ricordarono le interpreti della danza espressiva moderna: comunicavano in una disposizione coreutica, attraverso gesti, dei sentimenti. Come è noto, Mary Wigman e Isadora Duncan hanno sfiorato la frontalità perché nei loro movimenti si ispiravano alle figure in piano dei vasi greci, ma certo non potevano fare della frontalità una scelta di base come è stato per Consagra».

Questa formula della scenoscultura “vivente” che nella sua visione frontale si relaziona con lo spettatore è il risultato convincente del pensiero artistico di Consagra. Senonché la virtualità di questo stesso pensiero non si arresta all’esperienza creativa di quella operazione scenica del 1988, ma va oltre, trovando in un altro spazio totalmente diverso un’ubicazione che consente di aggiungere valori comunicativi alla rappresentazione della sua città frontale, come a volere attualizzare, se non ad annunziare, estensioni significative all’idea di Tebe città malata. Ecco dunque il ruolo dello spazio, come elemento determinante per comprendere il messaggio dell’artista, come dire che ogni variazione dell’ubicazione ci consente di apprezzare una comunicazione nuova.

È così che sulla scalinata del palazzo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna le bianche sculture progettate per le Orestiadi in un ambito dai forti richiami arcaici, si misurano nel contesto della mostra en plein air in un colloquio vivente di ben altra natura con lo spettatore urbano, contrapponendosi artatamente ad uno dei palazzi più significativi della cultura della capitale sovrastante la scalinata stessa e al tempo stesso lanciando un messaggio implicito che, per slittamenti, porta alle parole profetiche dell’artista [4]:

«Anche allora la metropoli che nasce e che muore sarà stata preconizzata dagli oracoli inascoltati. Sappiamo dagli oracoli inascoltati che Edipo colpevole e innocente andrà avanti sempre alla cieca. Sappiamo che una città degna della vista di Edipo fa parte delle impossibilità».

Anche se si tratta di un immediato richiamo analogico, questa volta lo storico del teatro non resiste alla tentazione di ricordare una pagina fra le più famose del teatro della rivoluzione russa. Vengono in mente i due spettacoli realizzati nel 1920 e nel 1921 a Pietrogrado per commemorare il successo della rivoluzione del 1917. Nell’ampia scalinata antistante il monumentale Palazzo della Borsa dominante sulla grande piazza, prendevano posto rispettivamente una massa di schiavi in catene (1920) e una massa di operai (1921) che davano luogo ad una spettacolare azione di lotta contro i rappresentanti del potere in festa collocati sulla sommità della scalinata. Nel grande frastuono che animava quella che era stata una delle piazze più significative della rivoluzione proletaria, la scalinata del Palazzo della Borsa costituiva lo spazio più idoneo ad evidenziare i due poli dello scontro.

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Città di Tebe, scenografia per lo spettacolo Etnos, di Isgrò, Gibellina, Piazza del Municipio, 1997

Questa testimonianza forte di spettacolo all’aperto porta chi scrive ad evidenziare la conflittualità fra l’idea della scultura frontale di Consagra caratterizzata dal suo movimento espressivo e la imponente staticità della facciata della sovrastante Galleria Nazionale d’Arte Moderna, intesa come espressione di potere, in questo caso di un potere culturale istituzionale. La mia esperienza personale di regista di teatro all’aperto mi riporta, a mia volta, ancora a Gibellina per ribadire la virtualità scenica dell’opera di Consagra di cui ci stiamo occupando. Questa volta l’ubicazione è quella della piazza del Municipio dopo il rientro della scultura di Tebe dalle esposizioni fuori dall’isola.

Nel 1997 pensai di realizzare in quella piazza un mio spettacolo dal titolo Etnos. La drammaturgia era animata dalla presenza di alcune delle forme più significative ed autentiche di performance legate alla plurisecolare tradizione festiva siciliana. Per questa ragione pensai di ambientare la rappresentazione sull’ampia gradinata antistante la scultura di Tebe; ma lungi dal lasciarmi tentare da un effetto “fondale” delle bianche sculture che sarebbero state relegate in tal caso ad un ruolo passivo e per così dire “decorativo”, feci una scelta ideologica ben precisa basata sulla contrapposizione fra due mondi radicalmente diversi: da una lato, la festosità rituale di un popolo legato alla propria ritualità antica ed alle ragioni culturali che distinguono e cementano comunità raccolte attorno a valori condivisi senza distinzioni classiste; dall’altro la città malata e invivibile raffigurata da Consagra, «la Tebe degli scippi, degli sfratti, della violenza, dell’incesto».

Il risultato scenico fu che la scultura frontale del nostro artista si confermò come insostituibile elemento attivo, questa volta protagonista di un conflitto fra quei due mondi, esaltato dalla viva policromia dei costumi rituali contrapposta al bianco di Tebe città malata.

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Mazara, progetto della facciata del Palazzo Municipale

Il progetto per la facciata del Municipio di Mazara: la scena gioiosa

Il progetto di Consagra per la facciata del vecchio palazzo comunale di Mazara del Vallo è una delle testimonianze più singolari e significative di scultura frontale. Come è noto, esso fu concepito dall’artista nel 1983 per offrire alla sua Città un contributo forte della sua arte scultorea al fine di trasformare la fredda e anonima configurazione di quell’edificio della burocrazia e del potere civile, in un dispositivo aperto ad una comunicazione viva e positiva con la città.

Si era trattato di una protesta incondizionata dell’artista contro l’ennesimo abuso edilizio perpetrato nella sua città coinvolta, come scriveva lo stesso Consagra, in una «ventata di adeguamento a una modernità pretestuosa dei costumi e al nuovo sviluppo economico». Il piglio artisticamente reattivo di Consagra nei confronti della concezione architettonica di quel palazzo municipale fu determinato anche da due ragioni fondamentali.

Da un lato c’era la motivazione di base che contrapponeva Consagra all’idea dominante di edificio come struttura inespressiva al suo esterno e concepito esclusivamente per la fruizione e la funzionalità interna vissute fra geometrie rigide, rettangolari o quadrangolari che fossero, spesso pensato come garanzia di profitto commerciale, essendo comunque l’architetto «coinvolto in necessità economiche paralizzanti», come sostiene lo stesso artista. Per quanto riguarda l’aspetto esteriore, inoltre, secondo Consagra la concezione architettonica corrente (e non solo corrente) non lasciava spazio a specifiche caratterizzazioni, tranne che per edifici concepiti come espressione di potere, sia esso civile o religioso o culturale, e comunque testimonianza, come li definisce Consagra, di «momenti di lusso». In tal caso la facciata doveva semmai indurre l’osservatore a sentimenti di sottomissione nei confronti di una autorità, istituzionale o sociale che fosse.

Su un altro piano c’era il problema dell’esistenza a Mazara, città a vocazione mediterranea, di quell’edificio dell’amministrazione municipale realizzato su un progetto pensato per la città di Bolzano, in una realtà culturale polarmente identificabile rispetto a quella siciliana. Per queste ragioni Consagra pensò innanzitutto a sovrapporre la sua arte alla inespressività dell’edificio esistente al fine di stabilire una sorta di relazione con il cittadino che volge lo sguardo all’edificio stesso, sì da determinare la trasmissione di un messaggio diretto e immediato, senza ambiguità volto a comunicare il senso di una “giustizia orizzontale” da contrapporre alla verticalità dell’immagine di potere [5].

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Consagra, progetto di facciata per il Palazzo comunale di Mazara, 1984, modellino in legno dipinto

Consagra definì questa forma di relazione con il termine “colloquio” adoperato, in particolare, per la nota tipologia di sue realizzazioni artistiche corrispondenti alla stagione che va dal 1952 al 1962. Su questa esigenza di stabilire un rapporto fra edificio ed ambiente esterno prese vita la visione scenografica di Consagra, che espresse con entusiasmo e determinazione nella consapevolezza che «una facciata non può realizzarla alcun architetto»[6].

L’artista progettò così di applicare una parete traforata da 21 sculture al frontespizio del palazzo comunale. In questo modo la facciata dell’edificio si sarebbe presentata come quarta parete scenografica inserita nel gioco barocco determinato dalle altre tre facciate prospettanti la piazza: il Seminario, la Cattedrale, il Palazzo Vescovile. L’intento, dunque, era quello di stabilire una continuità viva ed attuale fra passato e presente, dalla quale l’immagine dell’antico sei-settecentesco avrebbe tratto a sua volta nuova energia e linfa espressiva grazie ad una armonia attualizzata dall’arte contemporanea.

Liberata già da lungo tempo la scultura dalla tridimensionalità e dalla centralità nello spazio, come asserzione ed esibizione di “autorità”, l’elemento scultoreo frontale di Consagra applicato alla parete del palazzo, avrebbe dovuto avere, infatti, un ruolo attivo e “vivente”, comunicante messaggi positivi, di gioia costruttiva e liberatrice; espressione perennemente e non occasionalmente festosa, come possono essere gli apparati urbani effimeri pensati per celebrazioni di particolari ricorrenze. Scenografia attiva, dunque, non mero sfondo; elemento dinamico che non ha bisogno di alterazioni altre, da parte della luce, ad esempio.

Più che scultura l’opera di Consagra appare così come “scenoscultura”, a conferma della vocazione scenografica del suo progettare, ampiamente riscontrabile in buona parte della sua produzione artistica. Da questo punto di vista è possibile riconoscere nell’invenzione di Consagra una funzione “teatrale” che ben si lega alla funzione della piazza intesa come luogo deputato massimo delle celebrazioni festive, ma anche spazio di animosi mercati popolari e luogo democratico degli incontri, una sorta di “teatro di festa”, al di fuori dagli schemi del teatro istituzionale e borghese. Confrontando poi l’originalità espressiva dell’artista con quella di molti padri fondatori del nuovo teatro europeo del Novecento, si percepisce che il ruolo attivo dell’elemento scenoscultoreo ha la stessa funzione sostitutiva del ruolo dell’attore così ampiamente contestato dalle avanguardie dei primi decenni del secolo, essendo l’insieme delle finestre della facciata, una sorta di “coro visivo” fatto di singole voci portatrici di messaggi di risveglio agli aggiornamenti dell’arte, ma anche di presa di coscienza dei valori civili e del diritto alla vita al di fuori da dirigismi istituzionali.

A questo punto è possibile alzare ancora l’asticella e vedere in Consagra il “regista” di un’azione a spazio totale permanente che, partendo dalla rinnovata facciata del vecchio palazzo comunale, avrebbe dovuto coinvolgere, come si è visto, l’intera piazza, garantendole una inedita, unitaria armonia di complesso. Si trattava di una dinamica di ispirazione teatrale senza precedenti in una città rimasta ancora su posizioni retro, se non retrive, nonostante le provinciali pretese di modernismo. Lo “spettatore”, entrando nella piazza avendo alle spalle la Cattedrale, sarebbe stato attratto dal grande punto di fuga costituito dallo scenario della facciata, vera e propria meraviglia su scala urbana. Da qui sarebbe nata quell’osmosi fra “scena” e “platea”, in grado di innescare il meccanismo della partecipazione totale della piazza ad una sorta di girandola fatta di rimandi visivi articolati verso la facciata e ritorno, e poi fra la gente compiaciuta per l’inattesa trovata registica del concittadino tornato dal mondo dei grandi artisti per dare movimento creativo nel centro della sua amata città: una sorta di ombelicus urbis frontale in grado di trasmettere, per contiguità e ridondanze, energia positiva al resto dell’urbe.

Purtroppo la rivoluzione progettuale di Consagra pensata per la facciata del palazzo comunale di Mazara non poté avere seguito, scontrandosi come avvenne in altre occasioni con l’ostilità di architetti e urbanisti, e soprattutto con le insipienze burocratiche locali e con le riserve dello stesso potere politico, che ancora dopo tre anni di attesa non riuscivano né a varare né a bocciare la sua proposta.

Quasi vent’anni dopo, nel 2001 Consagra inviava all’amministrazione comunale di Mazara del Vallo un nuovo progetto per la facciata, che presentava alcune varianti rispetto a quello del 1983/4. Esso prevedeva la demolizione dell’ultimo piano del Palazzo Comunale comprensivo di una torretta e la trasformazione in terrazza con balaustra e fregio: ciò al fine di consentire un maggiore equilibrio di proporzioni con gli altri edifici della piazza. La facciata avrebbe dovuto presentare finestre/sculture a due livelli di rilievo; rispettivamente sei nel primo e sette nel secondo piano, oltre a sei pilastri a rilievo nel porticato a piano terra, e otto elementi nella cornice in alto, tutti in marmo di Carrara. Ma ancora una volta ci fu l’aperta ostilità degli architetti [7].

E furono soltanto delusione e amarezza per il nostro artista che pure tanto profondamente sentiva il legame con la sua terra e il ricordo della sua vita trascorsavi in gioventù, sulla quale egli tornava spesso nelle sue citazioni autobiografiche. E forse proprio da quella memoria era nata l’idea di animare di festosità quotidiana quella piazza, ossia il cosiddetto “Piano maggiore” nel quale egli avrebbe voluto rivedersi riscattato, insieme alla gente comune, da condizionamenti e indigenze, contro ogni forma di abuso.

Avrebbe dovuto essere, quel progetto, la testimonianza esemplare di come l’arte contemporanea di Consagra nascesse da una risignificazione forte di un sapere antico ma anche dal bisogno di una giustizia sociale e di una rinascenza culturale che gli stessi suoi concittadini vollero negare.

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Primo progetto per il Teatro di Gibellina 1972, Collezione privata, Milano

Il teatro comunale di Gibellina

Superata, sin dai primi decenni del 900, l’ortodossia e l’estetica teatrale della tradizione ottocentesca, dall’avveniristico e ipertecnologico “teatro totale” di Gropius alle sperimentazioni di Schlemmer, all’essenzialità della sala di Artaud, alla rinuncia della sala teatrale prospettata da Brook e da Wilson, emerge la necessità di considerare lo spazio, piuttosto che la scatola architettonica, come elemento dal quale partire per una ridefinizione dell’idea di teatro, dopo il confuso intrecciarsi dell’avanguardia teatrale e di quella architettonica tra provocazioni ed eccessi. Scriveva Consagra:

«Non sono andato più ai teatri d’avanguardia perché mi ha dato molto fastidio la tendenza cinematografica di aggredire lo spettatore. Cioè di attori che scendono dal palcoscenico e si mettono fra il pubblico, per me è stato scioccante, pauroso, l’ho subìto come una violenza, mi sono sentito attaccato dall’autorità e dalla prepotenza di un superiore. L’aggressività con cui il teatro d’avanguardia si è voluto caratterizzare, secondo me, è una delle ragioni che ha allontanato lo spettatore».

È in questi anni nei quali l’edificio teatrale continua ad essere in crisi perché non si ha un’idea di teatro precisa da proporre, essendo tante le idee, spesso in contrasto fra loro, che emerge la necessità di considerare l’edificio teatrale come espressione, e non come contenitore tout court, di spettacolo. Da qui l’opportunità di configurarlo non come vetrina di eventi scenici preconfezionati, buoni per tutti i palcoscenici, ma come spazio laboratoriale e creativo, luogo del lavoro orientato alla messa in atto della forma di teatro che il drammaturgo ha in mente.

L’idea di Consagra si colloca proprio qui, in questa ricerca di un edificio pensato per quello spazio/laboratorio di una città che rinasce dopo la catastrofe. È così che da quello “spazio zero” di Gibellina distrutta dal terremoto del 1968, dove ogni invenzione artistica sembra possibile, emerge una risultante carica di significati e di valori, una sorta di apax di grande originalità, essendo esso distante sia dalla visione tradizionale, borghese e rassicurante del teatro “all’italiana”, “gastronomico”, come lo definiva Brecht, che dallo sperimentalismo degli architetti che guardano al futuro.

Lungi dall’essere luogo dell’effimero e della provvisorietà, l’architettura del teatro di Consagra comunica col paesaggio e con l’ambiente esterno, che pure hanno una loro vita e una storia, una propria cultura e una propria stratificazione da consolidare e trasformare. Il palcoscenico invece, è per sua vocazione una scatola nera autoreferenziale; non esiste un “intorno” fisico o geografico cui fare riferimento. Così non è in Consagra.

Il teatro di Consagra sembra, da un lato, rispondere ad una motivazione di carattere antropologico, dovendo essere, quello di Gibellina nuova, lo spazio della comunità di quegli uomini/spettatori che raccogliendosi, ritrovandosi e riconoscendosi, conservano il rapporto con la memoria della loro esistenza nel passato, ma anche la disponibilità a crescere culturalmente e a maturare coscienza critica e nuova progettualità, attraverso le pratiche laboratoriali e le nuove proposte artistiche attuate sul palco. AI tempo stesso in quella medesima idea progettuale c’è l’aggiornamento dell’arte figurativa che vede Consagra protagonista insieme ad altri grandi scultori impegnati ad animare quello “spazio zero” con le loro invenzioni che avrebbero fatto la storia dell’arte italiana contemporanea in un’atmosfera di vera e propria rinascenza.

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Gibellina, Teatro di Consagra, interno (ph. Davide Curatola)

È così che il nostro artista riesce a coniugare l’alto e il basso, il culto e il popolare, come soltanto chi il popolare aveva conosciuto nella sua adolescenza mazarese poteva riuscire a fare, animato come fu per tutta la vita dal bisogno di quel riscatto sociale che lo portò alle soglie dell’arte riconosciuta. Del resto gli stessi padri fondatori della scena europea nel primo ‘900 avevano iniziato a risignificare la festa delle origini al di fuori dell’idea borghese e commerciale del fare teatro, per caricare di senso e valore le loro teorie e le loro invenzioni artistiche; e non è un caso che Kerzencev nel suo Teatro creativo, al tempo della rivoluzione del 1917, si fosse fatto sostenitore dell’attività delle masse come animatrici delle feste del popolo.

Consagra non si lasciò sfuggire l’occasione di misurarsi con la bella impresa. Scriveva egli stesso:

«Ho avuto l’incarico di progettare due edifici per Gibellina nuova, il Teatro Comunale e il Meeting, cioè una stazione di autobus con relativi spazi per ristoro ecc. Il Teatro sarà lungo 80 metri e alto 30. É un’idea di teatro trasparente, con due platee che mi emoziona molto. Un teatro frontale, è un’opportunità bellissima»

Il contributo che Consagra ha dato al teatro come forma d’arte sta proprio in queste ultime parole; ossia quello di aver pensato l’edificio teatrale come un teatro frontale, assimilabile ad una gigantesca scultura da apprezzare dall’esterno ma al tempo stesso espressione del suo significato interno, come per mutue corrispondenze; ma ancor più sta nella forma dell’edificio stesso, attraverso la quale si coglie l’evoluzione artistica di Consagra scultore, determinata dal passaggio verso linee curve intese come espressione di armonie plastiche che suggeriscono l’idea dell’incontro fra persone accomunate da uno stesso bisogno sociale di dialogo, cui prima si faceva cenno. Da qui l’idea di configurare le condizioni per una sorta di intesa fra due platee fisicamente contrapposte, avendo entrambe al centro lo spazio della scena, vera e propria sintesi di un colloquio globale. In questo modo il teatro, nelle sue più diverse forme espressive portatore di “verità” diventa momento condiviso dagli sguardi reciproci degli spettatori che si fronteggiano; condizione ideale per una ritualità collettiva che si consuma come in un tempio, ma al tempo stesso preliminare ad ulteriori estensioni dialoganti che coinvolgono la città intera.

Quel teatro, infatti, fu concepito come una sorta di ponte pedonale che, come scrive Consagra nella didascalia del progetto, «collega una città all’altra». L’edificio teatrale è dunque il centro di un colloquio urbano quotidiano, spazio degli incontri, ma anche luogo di passaggio, all’interno del quale ogni possibile scontro si annulla nel segno di una aspirazione al concetto di democrazia non più riscontrato dal tempo dell’antica Grecia.

Certo può lasciare perplessi il fatto che nel progetto di Consagra non ci siano indicazioni tecnico- logistiche necessarie alla funzionalità di un edificio teatrale: dai camerini per i performer, ai dispositivi scenoluminotecnici, ai servizi per il pubblico; aspetto, questo, caro agli architetti. Né tanto meno si comprendono, a prima vista, le modalità d’uso della piattaforma per la scena, essendo essa, come si è detto, bifrontale rispetto alle due platee contrapposte.

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Gibellina, Teatro comunale atraversato da strada appena costruita

In realtà Consagra, concepisce l’opera architettonica, oltre che come scultura frontale da ammirare di per sé, comunicatrice di messaggi che inducono al colloquio, come “spazio/spettacolo”, e in quanto tale, materia “mobile”, adattabile alle invenzioni del dramaturg e alle esigenze della comunità, piuttosto che luogo rigidamente caratterizzato dalle convenzioni e dalle gerarchie sociali. E poiché l’arte scenica, come quella figurativa e come tutte le arti, è espressione libera da condizionamenti, Consagra nel suo edificio non impone regole di fruibilità, soprattutto nello spazio interno, come accade negli edifici della tradizione architettonica; ma affida il suo teatro alla misura dell’uomo di quella cittadina dove è possibile costruire, pensare e dialogare in quanto libera dai condizionamenti come dai debordamenti della metropoli, e comunque dal rischio della perdita delle identità individuali e di gruppo nel convulso ritmo di una quotidianità accelerata.

Nel teatro di Consagra, dunque, tutto è possibile, poiché è lo spettatore, d’intesa col performer e con l’invenzione del dramaturg, che anima e dà senso alla magia di un teatro di vera relazione e non di rappresentazione, come è invece nella tradizione del teatro borghese consumistico.

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Consagra, Uomini che vengono dal mare, Mazara, 1962

La Fontana di Mazara

Uno dei diversi modi in cui si concretizza la vocazione teatrale di Pietro Consagra è legato alla scelta dell’artista di donare alla sua Città natale una scultura frontale in bronzo raffigurante quattro personaggi usciti dalle acque del Mediterraneo e che si fermano sulla terra prospiciente il mare.

Il paesaggio scenico determinato dal rapporto fra la città e il grande mare antico, sul quale la città stessa si prospetta, è lo spazio urbano ideale per il racconto dell’artista alla ricerca di un equilibrio fra mito e storia, contrapposto alla logica colonizzatrice che ha caratterizzato la presenza di uomini venuti da lontano a conquistare la nostra Isola. In questo modo i personaggi venuti dal mare sono coloro che annunciano la necessità della rinascita della nostra terra, portatori/rivelatori di verità traducibili in forme di riscatto collettivo contro ingiustizie e sfruttamento perpetrati da tanti governanti di turno.

Lo stesso Consagra denuncia apertamente questa contrapposizione richiamando l’attenzione sul frontespizio della cattedrale di Mazara, dove un bassorilievo posto sul portale mostra il Gran Conte Ruggero a cavallo che infilza con la lancia il corpo del capo musulmano Mokarta, segnando la fine del precedente conquistatore e l’inizio della nuova conquista.

Diversamente dal periodo così detto “eroico” della sua attività di scultore caratterizzata da grandi soluzioni “statiche” in metallo, ma anche per venire incontro alla realtà culturale della sua città, non ancora in grado di apprezzare tout-court il genere di scultura frontale da lui perseguito, Consagra inventa una originale soluzione di “scultura in movimento”.

Associando la sua opera ad una fontana, l’artista utilizza l’acqua della fontana stessa come elemento in grado di movimentare la struttura della scultura bronzea. Consagra evita in questo modo di correre il rischio di vedere la sua opera ridotta ad un ruolo decorativo e al tempo stesso di scontrarsi con l’incomprensione di una città non adeguatamente attrezzata sul piano artistico-culturale, sicuramente non aggiornata alle forme dell’arte contemporanea. Scriveva Consagra a proposito del rapporto fra scultura e fontana [8]:

«L’acqua creava un rapporto più sopportabile tra la mia scultura e un’opinione tradizionalista dell’arte che ancora non abbandona per le strade del mondo e la fontana perciò è stata accolta e ha fatto buona impressione e se ne parlava in giro con soddisfazione. Certo senza sospettare minimamente le mie paure o la trafila di complessi e di calcoli nell’adagiarmi a quel senso comune che l’acqua smitizza la scultura e al rovesciamento che mi succedeva nel realizzare l’opera qui in studio provando e riprovando progetti e cambiando modi e modi dell’intervento dell’acqua e i vari sensi che si sovrappongono in questa nuova scultura che man mano veniva fuori proprio nel colloquio sempre più interdipendente delle due materie adoperate. Bronzo e acqua: un elemento statico e l’altro dinamico, accorgimenti nuovi da adottare per modulare le uscite, dall’espandere allo sbattere, dal gaio al drammatico, dall’estroverso all’introverso. Un nuovo linguaggio espressivo, “eloquente” come gestire o parlare».

Il geniale compromesso cercato da Consagra per venire incontro alle aspettative della sua città, e al tempo stesso per dare il giusto rilievo al suo gesto artistico, porta il nostro scultore alla creazione di un’opera unica per originalità inventiva e per impatto scenico.

Sul piano tecnico-artistico la soluzione di far sgorgare dal corpo dei misteriosi personaggi venuti dal mare zampilli d’acqua dialoganti col bronzo della scultura, determinava la possibilità di creare una sorta di drammaturgia senza attori. E come è nella logica del teatro, Consagra, come si è visto, sottopose la sua opera in fieri a lunghe prove: «dopo avere sperimentato accorgimenti diversi per modulare le uscite (dell’acqua) dallo espandere allo sbattere, dal gaio al drammatico, dall’estroverso all’introverso», Consagra approdava «ad un nuovo linguaggio espressivo, eloquente, come gestire o parlare». Al di là dell’indubbio valore della scultura, era come se si trattasse di una nuova forma di teatro, della quale pure l’artista doveva essere consapevole, come si evince dal brano autobiografico sopra riportato.

Sul piano dei contenuti e del messaggio che affidava a questa scultura frontale, Consagra non poteva non collegarsi, come era solito fare, alla ubicazione scelta per la sua opera, ossia quella al limite tra mare e terra, diventando questa separazione fra i due elementi, il mare e la terra appunto, come egli stesso afferma, «il confine conturbante tra materia e tempo, il movimento e la trasformazione delle cose, la tenacia del vivo, la disponibilità e il divertimento del vivere». Ed ecco il principio esistenziale fondante del nostro uomo-artista:

 «Una scultura sul limitare tra terra e mare invade un’emozione imprevista, qualcosa di remoto. E sarà anche per il ritrovarsi nel paese dove si è nati, certo che dentro ci si scioglie e si ha voglia di ritornare tanto indietro e non finire mai»

È l’immagine del paese che ritorna tra nostalgia e nuove risignificazioni. A questo punto l’idea del rappresentare, e l’effetto di rispecchiamento fra Consagra e la sua opera, cioè il colloquio, è pronto per la sua proiezione scenica. È così che i misteriosi personaggi venuti dal mare vengono collocati su una sorta di stilizzato palcoscenico che esalta la loro dinamica statuarietà, solida in quanto di metallo come solida e rassicurante è la configurazione dei paladini dell’opera, persino severi nell’aspetto misterioso e pure dialoganti fra loro e con chi li guarda, come accade nel teatro di relazione dell’opera dei pupi, l’unica forma veramente rivoluzionaria della storia del teatro siciliano e che tanto era rimasta nel ricordo del piccolo Consagra quando il nonno lo portava a vedere lo spettacolo dei paladini:

«Mio nonno mi leggeva sempre l’unico libro che aveva: I Paladini di Francia. Per lui i libri erano la verità e quelle storie ce le raccontava come vere. La prima volta all’Opera dei pupi mi portò lui e io ero piccolissimo ma non ho mai perduto quella visione delle armi scintillanti».

Che fosse stato quello il primo segnale della vocazione di Consagra per la scenoscultura?

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Note
[1] P. Consagra, La Tebe di Oedipus: la città della peste in M. Martone, Appunti per Oedipus Rex, Orestiadi di Gibellina, Gibellina 1988: 34.
[2] M. Martone, ibidem
[3]  G. di Milia, Consagra. Scultura e Architettura in AA. VV., Consagra scultura e Architettura, Mazzotta, Milano 1991: 35.
[4]  M. Martone, cit.: 32.
[5] P. Consagra, Consagra che scrive: scritti teorici e polemici 1947/89, V. Scheiwiller, Milano 1989: 162.
[6] Sul concetto di “giustizia orizzontale” formulato da Consagra, cf. G. di Milia, Forma 1, 1998: 108.
[7]  L’Ordine degli Architetti della Provincia di Trapani stilò un documento pubblicato il 16 gennaio 2002 nel quale espose le proprie ragioni critiche nei confronti del progetto di Consagra, facendo appello alla norma alla quale dovevano attenersi gli architetti, come pure gli ingegneri, e rivendicando la loro esclusiva competenza in materia: «Che non si mescoli la scultura con l’architettura, cioè si risolva con gli strumenti, le tecniche e la cultura proprie della disciplina degli architetti il tema della migliore qualità formale del fronte del Municipio esistente». Non condividendo «il supporto teoretico dell’artista all’opera», inoltre gli architetti tornavano a contestare le idee di Consagra riguardanti la Città Frontale.
[8] Pietro Consagra, Uomini che vengono dal mare. L’acqua smitizza la scultura, in «Dialoghi Mediterranei», luglio, n. 44, 2020.

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.

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