di Chiara Dallavalle
La pandemia da COVID-19 ci ha costretto, nel bene e nel male, a modificare il nostro sguardo sul mondo. L’umanità ha dovuto, forse per la prima volta da diversi decenni, ripensare a sé stessa e agli scenari futuri in modo completamente nuovo, rivedendo tutte quelle certezze che fino a questo momento avevano costituito punti fermi inalienabili. Sicuramente la spinta alla crescita economica infinita si è scontrata con la necessità di rallentare, quando non fermare del tutto, i ritmi produttivi, facendoci dimenticare per un attimo il consumo indiscriminato a cui siamo ormai assuefatti e costringendoci invece a concentrarci sull’essenzialità.
Questo può non essere un male se porta ad una revisione generale del modello di sviluppo globale, ormai insostenibile da un punto di vista sia ambientale che sociale. Anche le logiche del lavoro si sono improvvisamente trasformate, consentendo da un lato maggiore flessibilità, ma anche accentuando ineguaglianze e discriminazioni soprattutto nei confronti delle fasce della popolazione più fragili. La pandemia può quindi rappresentare un’occasione forse unica di ripensarci come genere umano, ma il prezzo da pagare in termini di diseguaglianze umane e sociali rischia di essere molto elevato.
Rimanendo nel presente è lecito allora chiedersi quali siano stati gli impatti del Coronavirus su quei settori della popolazione già di per sé maggiormente fragili e vulnerabili quali ad esempio i migranti. Sulla base dei dati pubblicati nell’ultimo Rapporto ISMU, le persone di origine straniera nel nostro Paese al 1 gennaio 2019 sono 6 milioni e 222 mila, circa il 10% della popolazione complessiva italiana (Blangiardo, 2019). La maggior parte di essi sono regolarmente residenti, quindi dotati di un documento che ne consente la legittima presenza sul territorio nazionale e lo svolgimento di tutte le attività necessarie ad una normale vita quotidiana. Una percentuale residua include invece le persone in attesa di regolarizzare la propria posizione, i clandestini e gli irregolari.
Se andiamo ad osservare l’impatto del COVID-19 sulla popolazione straniera in Italia in generale, vediamo che esso è sensibilmente più basso rispetto a quello avuto sugli italiani. Infatti, i casi di contagiati riscontrati ogni 1.000 cittadini italiani sono stati 2,1, mentre quelli riscontrati ogni 1.000 cittadini stranieri sono stati circa la metà, cioè 1,2 (Menonna, 2020). Inoltre, esiste una spiccata diversificazione tra le varie nazionalità straniere, che vede il netto prevalere tra i sudamericani (8,1 tra i peruviani e 4,2 tra gli ecuadoregni). Questo potrebbe essere legato al fatto che la maggior parte delle donne provenienti da questi Paesi sono impiegate nell’assistenza agli anziani, sia come badanti sia come personale delle case di riposo, luoghi particolarmente interessati dalla pandemia. Tuttavia, questo non trova riscontro nella rilevazione di uno stesso numero di casi COVID-19 tra le altre nazionalità tradizionalmente impiegate nella cura degli anziani, quali le ucraine e le rumene. Apparentemente singolare è anche il fatto che i contagiati siano stati praticamente assenti nella comunità cinese, cosa che sembra suggerire la rigida applicazione delle norme di isolamento messe in pratica da questo gruppo etnico prima ancora che entrassero in vigore i vari provvedimenti governativi.
Per quanto riguarda una categoria particolarmente vulnerabile e quindi maggiormente esposta agli impatti della pandemia, ovverosia i rifugiati e i richiedenti asilo, ad oggi non sono presenti dati statistici sul numero di casi riscontrati all’interno delle strutture di accoglienza, e non è quindi possibile dire con certezza quanto il virus abbia colpito questa fetta di popolazione migrante. Alcuni riscontri avuti informalmente in Lombardia da operatori impiegati nell’accoglienza sembrano indicare un’incidenza abbastanza bassa tra gli ospiti delle strutture, ma la cosa è tutta da verificare. Tuttavia, l’impatto della pandemia sui migranti forzati ha esacerbato pre-esistenti vulnerabilità, intensificandole e mettendo a rischio i singoli percorsi di protezione e integrazione. Nello scorso giugno l’ONU ha pubblicato un Rapporto sulla relazione tra COVID-19 e i cosiddetti “people on the move”, ovverosia migranti in condizione di vulnerabilità, secondo il quale sono tre gli ambiti critici in cui il virus ha influenzato le vite di queste persone (ONU, 2020). Il primo riguarda la vera e propria assistenza sanitaria. Secondo il report i migranti, soprattutto quelli irregolari o in condizione di transito tra frontiere, hanno avuto scarso accesso ai servizi sanitari di base che avrebbero consentito loro di fronteggiare la minaccia del virus. Questo ha causato una loro maggiore esposizione al rischio COVID-19, con conseguenti e ovvi problemi sul piano della salute. Questo tipo di criticità riguarda anche tutti quei migranti accolti in campi profughi e strutture di accoglienza informali situati sulle zone di confine, dove il distanziamento fisico e le condizioni igieniche minime sono risultate difficili da mantenere.
Il secondo ambito interessa invece gli aspetti socio-economici della crisi dovuta alla pandemia, che hanno avuto un impatto ancora più catastrofico su tutti coloro che svolgono un lavoro precario, informale e in generale poco garantito. Ancora una volta i migranti, soprattutto quelli con maggiori difficoltà ad accedere al mondo del lavoro anche prima della pandemia, sono stati maggiormente penalizzati. Questo è risultato anche in una diminuzione delle rimesse inviate nei Paesi d’origine [1]. Il terzo ambito di crisi riguarda l’accesso alle misure di protezione vere e proprie, e dipende strettamente dalle chiusure dei confini tra Paesi europei e dalla conseguente l’impossibilità di vedere garantita la procedura di richiesta asilo. Come mostra il report stilato dal Border Monitoring Violence Network (rete di associazioni e ONG impegnate nel contrasto alla violenza sui migranti lungo i confini), la rotta balcanica è stata tra quelle maggiormente esposte a forme di violenza e discriminazione verso i migranti in transito, a seguito dell’entrata in vigore dei provvedimenti di contrasto al COVID-19. Ad esempio, in molti Paesi europei, soprattutto quelli situati a Est, l’accesso alla procedura di asilo è drasticamente diminuito, sia a causa della chiusura degli uffici deputati alla raccolta della domanda di asilo, sia per effetto delle continue espulsioni e respingimenti attuati dalle forze militari lungo i confini. Tenendo conto che la maggior parte dei respingimenti su questa rotta sono stati attuati senza procedere ad uno screening sanitario adeguato, questo pone seri problemi non solo in termini di accesso al diritto di asilo ma anche rispetto alla salvaguardia della salute pubblica, per i migranti e per le popolazioni autoctone.
Per quanto riguarda la situazione dei richiedenti asilo e rifugiati ospiti delle strutture di accoglienza italiane, fortunatamente il diritto alla protezione connesso con la richiesta asilo è stato fondamentalmente garantito attraverso svariate misure ministeriali, quali la proroga dei progetti di accoglienza degli enti locali, la possibilità di ospitare i migranti nei centri in deroga alle disposizioni vigenti, il differimento della validità dei permessi di soggiorno. Anche l’accesso ai servizi sanitari di base è stato garantito sia da specifici provvedimenti normativi, nazionali e locali, sia soprattutto grazie al lavoro degli operatori che sono stati impegnati a fondo nella gestione della pandemia dentro le strutture di accoglienza.
Resta invece forte il problema inerente agli aspetti socio-economici della pandemia. Infatti, i richiedenti asilo e rifugiati restano una categoria fortemente vulnerabile e con maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro. Sono tra quelli maggiormente a rischio di perdita di un’occupazione, soprattutto quando questa è a tempo determinato o non regolare. Anche le attività di formazione finalizzate all’inserimento lavorativo, in particolare i tirocini e gli stages, sono stati per la maggior parte sospesi durante il lockdown e ancora oggi non è chiaro se e quando riprenderanno. L’impatto maggiore della pandemia su questa categoria di migranti sembra quindi essere di carattere economico, con conseguenze importanti in termini di mancata integrazione e impossibilità di portare a termine il proprio progetto migratorio. L’aumento della situazione di precarietà e i maggiori ostacoli ad una stabilizzazione lavorativa ed abitativa sul territorio rischiano quindi di esacerbare ulteriormente le già presenti fragilità di cui rifugiati e richiedenti asilo sono portatori.
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Secondo i dati della Banca d’Italia nel primo trimestre del 2020 c’è stato un calo delle rimesse del 7,3% rispetto allo stesso periodo del 2019. La World Bank stima una diminuzione delle rimesse del 20% circa per tutto il 2020 (ISMU, 2020).
Riferimenti bibliografici
AAVV, 2020. POLICY BRIEF: COVID-19 AND PEOPLE ON THE MOVE. United Nation. https://www.un.org/sites/un2.un.org/files/sg_policy_brief_on_people_on_the_move.pdf
AAVV, 2020. ISMU, 2020 https://www.ismu.org/limpatto-del-covid-19-sulle-rimesse-degli-immigrati.
Blangiardo, G.C. 2019, In “Fondazione ISMU. XXV Rapporto sulle migrazioni”. FrancoAngeli: Milano.
Border Violence Monitoring Network, 2020. https://www.borderviolence.eu/special-report-covid-19-and-border-violence-along-the-balkan-route/
Menonna, A. 2020, https://www.ismu.org/i-tassi-di-affezione-da-covid-19-tra-le-nazionalita-straniere-in-italia/
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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