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Riscoperte, contaminazioni, riappropriazioni contemporanee: oralità, scrittura e danza nei canti di Pomigliano d’Arco

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Gruppo musicale ZeZi (dall’Archivio ZeZi)

di Annalisa Di Nuzzo 

Premessa

Questo lavoro nasce da una ricerca svolta negli ultimi anni nell’area metropolitana di Napoli, in particolare nella zona vesuviana e del comune di Pomigliano d’Arco. Nelle pagine che seguono si definiscono e ricostruiscono i caratteri specifici dei testi di alcuni gruppi di “cantori” di Pomigliano d’Arco che agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso ripresero ad eseguire canti popolari di tradizione orale. L’ interesse per questa riscoperta e la ricerca che ne seguì diedero vita  ad una ripresa della tradizione della tipologia melodica delle “tammurriate” che, in questa fase,  rinascevano come testi scritti con contenuti di impegno politico e di denuncia, proponendo una forma composita di parola, musica e danza legata al mondo delle fabbriche, segnatamente all’industria automobilistica, che si insediarono in quegli anni e che rapidamente trasformarono insieme al territorio  l’antica comunità da agricola in operaia.

Nell’ultimo anno la ricerca è stata inserita come parte integrante e significativa del progetto di alternanza scuola/lavoro PomigliAMO, proposto e coordinato da chi scrive in qualità di antropologa del comitato scientifico dell’associazione Festival della filosofia in Magna Grecia. Il percorso progettuale (tutt’ora aperto ) prevede di ricostruire e realizzare  una parish map (cfr. Clifford, Maggi, & Murtas, 2006) e rileggere e riscoprire luoghi, contesti storici, urbanistici e architettonici ma soprattutto patrimoni immateriali, così come da più parti richiede la stessa Unione Europea per valorizzare e riappropriarsi di quanto un territorio e la una comunità che lo abita, hanno espresso al fine di salvaguardare la diversità culturale e promuovere  una cittadinanza consapevole . Le Parish Maps rappresentano i luoghi come sono percepiti da coloro che li abitano e che ne hanno un’esperienza diretta, e che sono quindi i maggiori esperti. Sono stati coinvolti 106 studenti del Liceo “Matilde Serao” di Pomigliano d’Arco con indirizzo in Scienze Umane, che hanno lavorato “sul campo” per conoscere e mettere in valore il patrimonio materiale e immateriale del loro territorio e aprirsi ad una dinamica culturale autenticamente glocale con una mentalità di imprenditorialità culturale sostenibile.

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Assemblea operaia a Pomigliano d’Arco

Il contesto e i luoghi

Vale la pena di chiarire le origini e la nascita della moderna Pomigliano d’Arco e del territorio che la circonda. La prima grande trasformazione può farsi risalire alla metà del secolo scorso, con lo sviluppo di una rete ferroviaria che cominciò a collegare i comuni dell’area vesuviana. Nel 1839 era stato realizzato il primo collegamento Napoli-Portici, prima linea in assoluto in Italia, e solo pochi anni dopo il treno iniziò a muoversi nell’intera zona, favorendo lo sviluppo non solo di Pomigliano ma anche di Acerra, Nola, Marigliano, Brusciano e altri paesi dell’entroterra. I mercati di Nola e Pomigliano cominciarono a crescere di importanza, divenendo crocevia di merci e di uomini; fino ad allora gli scambi commerciali erano rimasti ancorati ad una dimensione arcaica.

Con l’Unità d’Italia poche cose cambiarono, la vita degli abitanti continuò secondo modalità tradizionali e le attività economiche, prevalentemente connesse all’agricoltura, si svolgevano ancora con sistemi molto tradizionali. Prima dell’avvento dell’industria automobilistica, la maggior parte dei pomiglianesi era ancora impiegata in mestieri artigianali tradizionali: potatori, funari, arrotini, stagnini, impagliatori di sedie, sarti, sellai, spaccalegna. Le donne si dedicavano a lavori di tessitura e di ricamo, ai raccolti, alla spannocchiatura. La vita quotidiana scorreva lungo percorsi secolari in un quadro di costante precarietà, in cui tuttavia non mancavano esperienze cicliche di festa e di solidarietà collettiva. I matrimoni coinvolgevano ancora l’intera collettività, mentre le unioni non legalizzate, o comunque anomale, erano sanzionate dalle cosiddette ‘tufiate’ (da ‘tofa’, grande conchiglia di mare in cui soffiando si ottiene un potente suono), vere e proprie serenate alla rovescia, fatte con strumenti a percussione, fischietti e grida (usanze già presenti nella Napoli secentesca).

Il tempo e il paesaggio scandivano lo stare al mondo, i ritmi e i suoni erano perfettamente congrui a quelle condizioni della modernità che affondavano in culti sincretici relativi alla terra, ai cicli delle stagioni e a danze propiziatorie. In particolare, per esempio, nei cortili delle masserie e in luoghi aperti delle zone in questione si svolgevano prevalentemente durante il periodo del Carnevale e non solo, rappresentazioni legate alla Zeza ad opera di popolani, di attori occasionali o compagnie di quartiere, che si facevano annunciare a suon di tamburo e di fischietto. Questo particolare “ciclo” era riconducibile ai temi delle “pulcinellate” in cui i personaggi tra gli altri sono Vincenzella, e Don Nicola e Pulcinella che mettevano in scena intrecci comico-realistici nei quali sessualità (con tutte le possibili ambiguità), cibo, inganno e perfidia erano protagonisti.   

Il teatro del Carnevale in tal modo metteva a nudo, in una sorta di confessione pubblica, le trasgressioni della vita coniugale, aggiungendovi il gusto dell’aggressione sadica e dell’esibizione oscena, e, mentre le esorcizzava con 1’immancabile lieto fine, invitava a prenderne realisticamente atto e le integrava nel sistema culturale. Tutto questo universo sembrava dover sparire di fronte all’avanzare in queste zone della grande fabbrica automobilistica dell’Alfa Sud e delle altre realtà industriali che ad essa si affiancavano. Il paesaggio sarebbe stato di lì a poco radicalmente stravolto: nuovi nuclei abitativi, nuovi agglomerati suburbani, perdita di produzioni agricole. Per alcuni sembrava l’annuncio dell’avvento del benessere e della modernizzazione, mentre per altri si riconosceva una qualche apocalisse culturale. 

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Manifestazione operaia con picchetti ai cancelli della Fiat di Pomigliano d’Arco

Dal mondo agropastorale alla fabbrica

Il progetto di impiantare uno stabilimento automobilistico di grandi dimensioni nel napoletano fu ideato nel 1966, nel quadro di una riemergente competizione tra industria privata e industria di Stato. L’iniziativa fu presa dall’Istituto Ricostruzione Industriale che, attraverso la Finmeccanica controllava l’Alfa Romeo, sulla base di un’indagine di mercato che sembrava assicurare all’auto privata una domanda superiore alla produzione allora esistente in Italia, e nel pieno di un ciclo economico espansivo che investiva particolarmente il nord. L’iniziativa si inquadrava nel piano ASI (Aree di sviluppo industriale) avviato nel 1957 con la legge 634, un progetto in parte frutto di quell’idea visionaria e futurista che allora si aveva della modernizzazione: grandi trasformazioni sociali, spostamenti della popolazione in base a logiche produttive, razionalizzazione delle attività economiche, gigantismo delle strutture. Il programma di “industrializzazione accelerata” fu sostenuto dai partiti di governo e non vide pregiudizialmente ostile la sinistra che, oltre a sostenere la necessità dell’espansione dell’industria di Stato, ravvisava l’opportunità di accrescere la propria influenza politica attraverso la nascita di nuovi e consistenti nuclei di classe operaia. Nel giro di pochi anni si trovarono a condividere lo spazio e il tempo scandito dai nuovi ritmi lavorativi: studenti, operai, artigiani e contadini che avrebbero dato vita ad una originale operazione culturale e sociale.

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Gruppo musicale ZeZi (dall’Archivio ZeZi)

I protagonisti, ovvero i nuovi cantori

In questo clima di aspro confronto sul destino delle culture delle classi subalterne (cfr. Cirese 1973), come si diceva allora, si apre un forte dibattito in Italia tra intellettuali e politici. A partire dall’inizio degli anni Settanta si diffuse da parte di una generazione di antropologi la necessità di intervenire, con le loro competenze disciplinari, nella ricognizione della fenomenologia culturale delle società contemporanee, spinti dal desiderio di conoscere il paese autentico, con i suoi squilibri, le sue difficoltà, le sue radici. Si trattava di osservare i processi raccogliendo testimoni e frammenti di quanto persisteva e di quanto nasceva dai fenomeni di acculturazione relativi a modernizzazioni che stavano rapidamente mutando le società tradizionali in particolare al Sud.

Alcuni gruppi di studiosi e di artisti focalizzarono i loro interessi su alcuni aspetti della cultura contadina ovvero canti e ballate, suoni e musicalità e diedero vita ad associazioni ed enti per coordinare esperienze diffuse in diverse zone del Sud Italia, quali l’Istituto Ernesto De Martino e il Nuovo Canzoniere italiano. Molti giovani intellettuali e artisti diventarono ricercatori e puntuali raccoglitori nonché interpreti di questi materiali: Otello Profazio, Dodi Moscati, Giovanna Marini, Maria Monti, Eugenio Bennato, e soprattutto l’etnomusicologo Roberto De Simone che avrà un ruolo importante nell’area di Pomigliano d’Arco come chiarirò in seguito.

Pasolini difende la memoria e la riappropriazione di «una cultura agricola povera (agricola, feudale, dialettale)» la quale «conosce realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale condizione economica allora quella cultura è in crisi» (Pasolini 1975: 226). Nel nostro caso piuttosto che l’abiura e l’annichilimento l’antica omogeneità della società contadina con tutte le sue contraddizioni, nonostante sia investita dal mutamento e dalla rottura del suo equilibrio, non arretra.  Questi “nuovi operai” si propongono non solo come portatori degli antichi canti e riti che raccolgono e “salvano” ma anche come compositori di nuovi, riplasmati sugli stessi stilemi.

Le nuove produzioni nascono coralmente dall’uso di un dialetto che esprime i nuovi disagi e il nuovo ritmo della vita della fabbrica. Si realizza una acculturazione che seppure rapida e forse violenta, vuole uscire da una dicotomia complementare che si inscriveva nella logica dell’osservatore intellettuale, spesso inconsapevolmente carico del proprio senso di superiorità, che aveva il corrispettivo nel senso di inferiorità degli osservati. Gli osservati si sono trasformati in altro, si sentono chiamati a proteggere e gestire la loro appartenenza e promuovono nuove contaminazioni. Nascono così “Gruppo Folk” Asilia, Collettivo Operaio Nacchere Rosse e soprattutto “Gruppo operaio È Zezi”. Quest’ultimo è il più longevo e quello da cui partiranno ulteriori trasformazioni che continuano ad avere una persistenza nel corso degli anni.

e-zezi-di-pomigliano-darco-1Dalle interviste raccolte emerge subito il motivo della loro nascita e aggregazione ben chiara già dal nome. La Zeza ovvero i Zezi escono dai cortili delle masserie, dalle feste dei culti agrari e del Carnevale ed entrano nei piazzali della fabbrica senza dimenticare la loro vocazione originaria. In particolare sono significative le riflessioni di Pasquale Testa, uno degli animatori del gruppo, anche se non direttamente protagonista, che mi hanno dato l’opportunità di comprendere le dinamiche interne e le relazioni che si delineavano in quei momenti. Emerge prima di tutto una grande nostalgia per quei tempi con il rimpianto di non essere stati in grado di mantenere al meglio quell’esperienza e di aver perso un’occasione importante. Testa ricostruisce con precisione la geografia dei gruppi riconoscendone peraltro anche la faziosità e le reciproche diffidenze. Per quanto riguarda la composizione dei testi conferma la paternità corale della composizione come per la più autentica tradizione orale, anche se ciascuno rivendica la propria paternità e tutti interpretano tutto. Un forte coinvolgimento si avverte quando ricorda le prime proteste a partire dal disastro della “Flobert” e ribadisce il rimpianto per una certa dissipazione del patrimonio. Molto è stato disperso e non esiste una completa e consapevole storicizzazione del fenomeno. Rievoca i generi delle composizioni come il lamento funebre e soprattutto il ritmo che evoca non più i riti e i tempi della realtà contadina ma la fabbrica con la catena di montaggio e le sirene.  L’oggi per lui è solo una rievocazione di se stessi da parte dei gruppi, e una celebrazione che talvolta scade nel folklorismo, e, anche se riconosce che i tempi sono cambiati, rimpiange la significativa componente ideologica.

Al di là delle critiche e delle ricostruzioni a posteriori, in quel momento fondativo la comunità – rappresentata da quel gruppo di giovani e meno giovani che venivano assunti nella fabbrica – aveva deciso di riprendersi il suo patrimonio e di vivificarlo avendo ricevuto un input dagli osservatori esterni e ricostruito la tradizione. Questa esperienza e questa consapevolezza danno loro una ragione nuova di appartenenza e danno senso ad una realtà ormai depauperata.  Nella loro perdita di senso da un mondo in declino al nuovo che avanzava, non naufragano ma si costituiscono in gruppo sia per applicare quanto aveva insegnato loro l’esperienza dell’etnomusicologo Roberto De Simone che stava raccogliendo e reinterpretando quel patrimonio musicale, sia successivamente, per reagire al nuovo mondo sociale presentando nuovi testi ed elaborandoli in proprio.

Si riuniscono in quella che definiscono ‘a casarella, un piccolo appartamento che diventerà il loro centro di riunione, dopo le ore di fabbrica e cercano di superare lo shock che il lavoro alla catena di montaggio, a cui non sono abituati, li sottopone. Quasi tutti i protagonisti di quella fase ne esaltano la forte componente aggregativa per arginare il processo di deculturazione provocato dal lavoro in fabbrica, dagli incontri da bar di una provincia degradata e dalle chiacchiere di fronte ad una televisione.  Questi operai-contadini, come l’antica tradizione insegnava, facevano nascere i loro testi da una condivisione di gruppo. In una delle interviste uno dei fondatori mi descrive come veniva scelto il tema: ciascuno segnava su dei fogli la propria riflessione e componeva dei versi in genere su fatti che coinvolgevano la fabbrica o il loro quotidiano e successivamente i testi venivano letti insieme. Una sorta di suggestivo sincretismo anche in relazione ai ritmi e alle ritualità della nuova realtà. Nascono le nuove tammurriate. Questo tipo di canto è sicuramente tra i più noti della tradizione popolare campana ma non è certamente l’unico. 

hqdefaultI testi

Incerte sono le origini delle tammurriate e dei canti ad esse ispirate. Si possono far risalire addirittura ai Greci, e la danza delle Baccanti o Menadi, cioè delle donne seguaci di Dioniso, era detta turbé, una danza fortemente oscena eseguita di solito durante i riti auspicanti fecondità. Nella schematizzazione della danza dionisiaca confluì anche la gestualità della pirrica greca, anch’essa presente, seppure travisata, anche in alcuni tipi di tammurriata. Altro importante elemento di questo tipo di danze rituali è il luogo dove si svolgono. Per i popoli antichi era lo spazio antistante il tempio del dio, le tammuriate in una ideale continuità con il paganesimo, hanno come spazio di rappresentazione, il sagrato o la piazza antistante la chiesa della madonna o del santo.

Alcune pitture di origine greca mostrano donne nell’atto di suonare un tamburo simile all’attuale tammorra denominato tympanon. Questo strumento ha quasi sempre due pelli tese su un telaio circolare di legno o di bronzo tenuto verticalmente e percosso con la mano nuda. Presso i romani, lo ritroviamo col nome di timpanum. In un mosaico di Pompei conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli tale tamburo è raffigurato in mano ad uno strumentista, forse un ambulante, che lo percuote tenendo la pelle rivolta verso il basso. In Campania viene utilizzato come parte integrante della cultura orale contadina connessa a credenze e culti arcaici. Il ballo sul tamburo si svolgeva e si svolge ancora oggi principalmente nell’ambito delle feste, delle celebrazioni stagionali di ritualità collettiva associate alla religiosità popolare e soprattutto al culto devozionale rivolto alle Madonne venerate nelle campagne.

Forse è anche per questo che la zona di Pomigliano mantiene un forte legame con queste musicalità, per la presenza di santuari mariani nel suo territorio limitrofo come quello della Madonna dell’Arco. Sussiste dunque una ulteriore singolarità che va oltre i canti tradizionali contadini; Pomigliano è terra di forte devozione religiosa e di culti mariani ovvero di una delle sette Madonne più note in Campania legate ancora una volta ad antiche ritualità delle divinità della natura precristiane. Ritualità sacre e profane si coniugano rafforzando nella comunità il valore di questa tradizione. I canti legati alla tammorra nascevano nei campi e venivano tramandati intorno al focolare da contadini e pastori ed hanno una loro naturale interconnessione con il ballo e con il suono, canti spesso improvvisati per esprimere sensualità e corteggiamento amoroso, oppure sfida ai canoni sociali o devozione religiosa.  I canti venivano accompagnati, da rudimentali strumenti musicali, che non davano il motivo, bensì servivano solo per segnarne il ritmo e accennare la melodia di base. Nel 1814, Vincenzo Gatti, di Laureana, così scriveva: «Non si conoscono altri strumenti che la zampogna, la ciaramella, il fischietto, la chitarra battente, il pandolino, il violino, il tamburo, le nacchere».

In relazione alle tammurriate è possibile correlare il canto a fronna ‘e limone e “a figliola” Questa forma di canto ha un aspetto melodico alquanto difficile. Presenta una fioritura libera e complessa, è fatto di intervalli e ritmi del tutto personali. Quasi sempre questo canto è eseguito a due o più cantanti che rispondono l’uno all’altro con grande libertà di variazione e d’improvvisazione a secondo delle circostanze. L’espressione “fronne ‘e limone” è quasi sempre intonata all’inizio del canto, ma può anche essere sostituita da libere variazioni quasi sempre onomatopeiche Queste espressioni hanno come funzione la preparazione di assonanze con i versi che seguiranno. Il repertorio è quello classico dell’amore, della morte o del sesso. Molto spesso le “fronne” erano usate dalle mogli dei carcerati che, recandosi sotto le mura del carcere, mandavano messaggi canori o anche ordini, con un linguaggio figurato o cifrato. Si può, quindi affermare che “fronna ‘e limone” è un modo di dire napoletano, che significa fare musica così come ti viene: urlando, agitando liberamente le tammorre, cioè quei tamburi con pelle molto lenta che producono un suono profondo capace di penetrare nelle viscere della coscienza, rumoreggiando a colpi di cucchiaio, di piatti, di qualsiasi oggetto che ti capita in mano e articolando versi e motivi con la massima libertà. Libertà di espressione sonora e di percussione di oggetti viene mantenuta ed incrementata dai nuovi cantori della vita della fabbrica che teatralizzeranno al massimo questa possibilità musicale durante le loro performance. 

Le principali tematiche dei canti sono: la donna, la madre, il sesso e la morte, insomma un tessuto verbale di autentici canti popolari della Campania in cui è principalmente funzionale la comunicazione collettiva. Questa particolare forma è eseguita a distesa e senza accompagnamento strumentale. Per quel che riguarda i testi, in genere si attinge ad un vasto repertorio di ‘fronne’ che però, a seconda della circostanza, potevano e possono essere variate, rimescolate o improvvisate in parte dall’esecutore (e ciò avviene massimamente quando le ‘fronne’ sono articolate tra due o tre persone che si rispondono e dialogano con tali canti). Per questa loro disponibilità al dialogo, le ‘fronne’ furono anche utilizzate come comunicazione con i carcerati. Infatti in passato, era abbastanza frequente sentire il cantare sotto le carceri alcuni tipi di ‘fronne’, articolate da parenti o amici di reclusi. Spesso erano informazioni che si davano al carcerato, messaggi d’amore, parole di conforto, il tutto articolato con un linguaggio oscuro e gergale che sfuggiva anche alla comprensione dei secondini.  

Se nella tradizione più classica, esiste un repertorio di ‘fronne’ più ritualizzate, le cui tematiche si riferiscono all’amore, a fatti sessuali e alla morte, la nuova tammurriata pomiglianese in che cosa cambia rispetto a queste linee tradizionali nei contenuti, nei suoni e nei ritmi? Secondo i protagonisti e secondo quanto evidenziano i testi di seguito riportati, diventa prioritaria la funzione di portavoce della protesta e del disagio senza eliminare la carica di vitalità, di ironia mista alla dolorosa e rabbiosa consapevolezza del quotidiano che si rimodula con la vita della fabbrica e delle nuove sonorità che essa produceva. Emergono i ritmi ossessivi della catena di montaggio, il percuotere il ferro e l’acciaio che dava vita all’automobile, il suono acuto della sirena che indicava la fine del turno.

e-zeziLo scopo dei gruppi di Pomigliano era quello, quindi, di denunciare l’atteggiamento delle classi dominanti, di dare voce e restituire speranza alle aspettative delle classi più deboli, che sembravano già compromesse. Ne seguì, così il ricorso sempre più incisivo nei testi alla satira e ad assonanze talvolta scurrili ed oscene. Musicalmente il riferimento principale restava quello della “tammurriata”. I titoli più significativi fanno riferimento al lavoro, alla condizione dei senza lavoro, ai rischi delle attività della fabbrica, al costo della vita. Alcuni dei versi avranno una particolare efficacia e diventeranno slogan archetipici delle manifestazioni sindacali e dei cortei che ancora oggi vengono ripetuti come patrimonio orale della protesta sociale. Mi soffermerei su tre dei testi che scandiscono tre aspetti della fabbrica: ovvero la vita della stessa e lo straniamento che produce dai ritmi di vita consueti in ‘A tammurriata e l’Alfa Sud’; la mancanza ormai di opportunità di lavoro se non si entra in quel processo produttivo e lavorativo in ‘Pe’ campà da cristiano’ e infine il tragico rischio di incidenti in fabbrica in ‘A Flobert [1].  Quest’ ultimo titolo fa riferimento ad una delle sciagure sul lavoro  più terribili di quegli anni. Riporto testualmente la notizia ANSA di quel momento:

«Venerdì 11 aprile 1975, alle 13,25, una terribile esplosione distrugge la Flobert, una fabbrica che produce proiettili d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, situata alla contrada Romani a Sant’Anastasia, alle pendici del Monte Somma, nel vesuviano poco distante dalla fabbrica automobilistica dell’Alfa Sud.  Dodici le vittime accertate».

Dalle parole di uno dei compositori del gruppo dei Zezi, che al momento dell’esplosione era in fabbrica all’Alfa Sud, si ricostruiscono le sensazioni ma soprattutto le emozioni che spinsero i più ad abbandonare il lavoro in quel momento e a dare solidarietà alle famiglie fino a comporre una sorta di canto funebre che celebrerà le vittime in tutta Italia. Pasquale Terracciano, cosi ricorda:

«Era già passato mezzogiorno, uno scoppio aveva catturato la nostra attenzione, e dalla piazza di Pomigliano si intravedeva una nube di fumo… ed un silenzio “assordante” regnava; curiosi di sapere e con la speranza di apportare aiuto ci dirigemmo verso il luogo suggerito dalle prime notizie, ovvero la masseria Romani. Al nostro arrivo ci risulta impossibile arrivare fino al posto dello scoppio: c’era un cordone di sicurezza delle forze armate, e tante autoambulanze che a sirene spiegate si dirigevano proprio lì; il blocco iniziava davanti alla Chiesa dei Romani. Intorno a noi solo silenzio interrotto da grida strazianti… Dopo qualche ora ci si rendeva conto della gravità dell’accaduto; la non sicurezza del lavoro ed il continuo perseguire dell’utile da parte dei chi voleva a tutti i costi guadagnare, faceva sì che regnasse la morte e che ancora una volta altri lavoratori perdessero la vita laddove volevano invece procurarsi di che vivere. Decidemmo di scrivere un testo e di teatralizzare quanto era successo con la musica che sapevo comporre e con la rabbia di non dimenticare quanto era successo».

Nasce così un canto funebre a tratti macabro in cui le modalità di vita della fabbrica e le reazioni della comunità alle morti bianche è coinvolgente. Il dolore dei parenti e delle madri è sintetizzato in due versi:

Quann’ arrivano ‘e pariente/’e chilli puverielle/chiagnevano disperati/pè ‘lloro figlie perdute. /«‘O figlio mio addò stà/aiutateme a cercà/facitelo pè pietà/pè fforza ccà adda stà». (Poi arrivano i parenti/di quei poverini/piangono disperati/per i loro figli perduti. / «Mio figlio dove sta/aiutatemi a cercare/fatelo per pietà/per forza deve stare qua»./«Signora, non urlate/che forse s’è salvato»).

Il dolore della comunità e la rabbia per l’assurdità del morire mentre si lavora sono quasi urlati:

«l’ajmm’ accumpagnat’/cu arraggiar’a ‘ncuorpo/e ‘ncopp’ ‘a chisti muort’/giurammo ll’ata pavà../.E chi và ‘a faticà/pur’ ‘a morte addà affruntà/murimm’ ‘a uno ‘a uno/p’e colpa ‘e ‘sti padrune./A chi ajmma aspettà/sti padrune a’ cundannà/ca ce fanno faticà/ cu ‘o pericolo ‘e schiattà./Sta ggente senza core/cu ‘a bandiera tricolore/cerca d’arriparà/tutt’ ‘e sbagli ca fà./Ma vuje nun’ò sapite/qual’è ‘o dolore nuosto/cummigliate cu ‘o tricolore/sti durici lavoratori.Ma nuje l’ajmm’ capito/cagnamm’ sti culuri/pigliammo a sti padrune/e mannammel’ ‘affanculo» (traduzione completa in nota).

10La rabbia per le morti non può essere compensata dalle ritualità civili delle commemorazioni ufficiali proteggendosi dietro la bandiera nazionale. Non si può “coprire” la responsabilità della sicurezza in fabbrica con il drappo tricolore che copre le bare.  Quel mondo della fabbrica che aveva dato tante speranze, come viene cantato nella tammurriata dell’Alfa sud, con tutte le ambivalenze sottolineate, sintetizzano un processo di acculturazione che rompe con i vissuti precedenti.  Questa tammurriata fu un vero manifesto di quel passaggio, un inno sintetizzato anche nel titolo della raccolta dei canti incisi in quel momento. Il mostro che vomita macchine e che nel giro di qualche ora consegna l’automobile finita viene percepito come una sorta di manifestazione magica in cui si resta contemporaneamente stupiti e atterriti. Una sorta di nuova declinazione del pensiero selvaggio come aveva sottolineato Scafoglio (1996: 49-60) nel suo saggio “Carlo Levi, Lèvy-Brull e la Lucania selvaggia”, potrei definirlo quasi un animismo tecnologico.

«Na’ lotta agg’avuta ‘fa/ Na’ lotta agg’avuta ‘fa/ Pe’ncè trasì/ E quand so trasuto/ Mamm’e’ll’Arca/ Ch’nbression ccaggià’avuto/ Uè nu mostr’ij ‘ vrietta/ O’primm’iorn ccà trasietta/ E che paura cca facietta/ Uè na’ machin’o’ minuto/ Cacciav’na machin’a’ furnuta/lj’ nun’sacio’cca’aggia’fa» ( Una lotta ho dovuto fare /Una lotta ho dovuto fare/ E quando sono entrato Madonna dell’Arco/ Che impressione ho avuto/ Ho visto un mostro /  il primo giorno che entrai/ E che paura ebbi/ Una macchina al minuto / Cacciava fuori una macchina completa/ non so che cosa fare).

e in seguito i versi chiariscono la potenza del mostro tecnologico :

«Guard’alla’nce’staà’ na pressa/ E tutt’e iuorn’vott’pressa/ se mangi’a ‘o sang’dde cristian’/ E va’ vatten’ primm’e ‘dimana/ Uè ma tu ch’staij’ dicenn/ Ca’nun poz’chiù vnì/ setticientmilalir’agg’a’ cacciat pe trasì/ E tirìa’cca e vott’alla/E manc’o tiemp’ ppe fumà»  ( Guarda là ci sta una pressa / e tutti i giorni spinge in fretta/si mangia il sangue dei cristiani / E vattene prima di domani/ Ma tu che stai dicendo / che non posso più venire / settecento mila lire ho pagato per entrare/ e tira di qua  e spingi di là/ non c’è tempo neanche per fumà).

La pressa che modella l’automobile con i suoi tempi «si mangia il sangue degli uomini». Più avanti viene sottolineata la lotta per accedere a quel processo produttivo, che doveva essere l’ingresso nella storia e nel progresso come da più parti veniva detto, ma che nascondeva il terribile e disumano rapporto con i ritmi di produzione, a quel “posto di lavoro” che in alcuni casi era stato comprato.

«E manc’o tiemp’ ppe fumà/E nu prmess’aja crcà/ Uè ncè vonn’sti curnut/ pe’ passà dint’ a ‘ nu tavut/ Uè se tu vuoi mangiare / pe forrz’ cca’aja crpare» (E neanche il tempo per fumare/ e un permesso devi cercare / ci vogliono questi cornuti / per passare nella bara / se vuoi mangiare / per forza qua devi crepare).

Infine la terza tammurriata potrei definirla la tammurriata del disoccupato ovvero “Per campare da cristiano”, in cui cristiano è sinonimo di essere umano, rispettabile e riconosciuto dalla comunità, nella quale prende forma un verso tra i più famosi composti in quel periodo: «La fatica ci sta e non ce la vogliono dare». Diventerà un mantra ossessivo, ricorrente, di grande efficacia teatrale e sonora.  Un successo condiviso che apre le porte a piazze e palcoscenici nazionali e internazionali.  

12I successi, la spettacolarizzazione, l’oggi

I cantori della fabbrica stanno assumendo consapevolezze e nuove capacità di esecuzione che inevitabilmente suscitano incomprensioni e tensioni interne ai quei gruppi musicali insieme al confronto proiettato verso nuove definizioni del loro ruolo. Sono ancora operai, sono artisti, o operatori culturali? Solo nel gruppo dei Zezi, negli anni, si avvicenderanno circa 120 persone di diversa estrazione culturale e tra questi molti musicisti professionisti o quanto meno conoscitori del linguaggio musicale. Si costruisce via via una spettacolarizzazione con conseguente teatralizzazione. Angelo De Falco, detto ‘o professore, è il più convinto assertore dell’esigenza di costruire trame teatrali durante le esibizioni canore. Del resto, è sua l’idea di rappresentare la Zeza ovvero il Carnevale integrandolo nel mondo operaio e di estrapolarlo dal tempo ciclico dei culti agrari per mantenere il suo carattere eversivo dell’ordine sociale e di spazio dell’infrazione delle regole sociali e dei ruoli sessuali. La Zeza e tutti gli altri personaggi femminili erano e sono interpretati da uomini travestiti da donna. 

Dalle interviste più volte rilasciate conferma questa suo convincimento che ancora oggi anima una discussione all’interno dei gruppi tra tradizione, innovazione, autenticità, cultura popolare, cultura intellettuale. Il dibattito, molto sentito in quegli anni, investiva l’antropologia culturale italiana e la riflessione politica di tutta la sinistra. Dopo la stagione dei grandi successi e della incisività dell’azione scenica con la rinnovata diffusione dei canti cosa resta e cosa è cambiato di quella esperienza? Sicuramente quella esperienza aveva oltrepassato il tessuto sociale di appartenenza ed era stata condivisa con altre classi sociali che avevano accolto queste forme culturali. L’eco di questa esperienza supererà gli stessi confini nazionali e susciterà l’interesse anche di grandi artisti della musica pop anglosassone come Peter Gabriel. I gruppi della prima ora vivono un fase travagliata: si dividono, si sciolgono e nascono nuove costole con nuovi soggetti. In particolare sembra significativa l’esperienza di Franco Romano che per un certo periodo condivide l’esperienza dei Zezi ma, a seguito di incomprensioni e polemiche, preferirà un percorso diverso che oggi si sostanzia nella fondazione di un gruppo autonomo i Rarekanova, in cui i nuovi temi dei testi sui ritmi tradizionali saranno quelli di denuncia del degrado del paesaggio, della terra dei fuochi e delle nuove violenze consumate contro il diritto alla salute e il benessere psico-fisico. L’ecosostenibilità assume un nuovo valore di universalità come diritto alla vita.

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Gruppo musicale di operai di Pomigliano d’Arco (dall’Archivio ZeZi)

Finita la stagione delle grandi ideologie politiche si rimodula una nuova presenza della tradizione e dell’oralità cantata nelle piazze e nei quartieri. In questo percorso di continua riplasmazione della tradizione Franco Romano, se a tratti indulge ad un nostalgico sguardo agli anni trascorsi, non abdica alla sua funzione, anche attraverso il suo ruolo professionale (insegna in una scuola media), e si fa portatore ancora una volta di cultura, nel più autentico senso antropologico, e costruttore di memorie mai statiche ma dinamicamente definite utili alla costruzione di identità complesse e partecipi dei processi di globalizzazione.

Incontrando i protagonisti ho riscontrato una forte autorappresentazione, un sorta di autoetnografia che ha a che fare con quanto è spesso accaduto per l’antropologia riflessiva e, come dire, prodotta dagli stessi osservati che sembrano aedi e cantori che rappresentano la loro stessa cultura in una circolarità di emico-etico in cui è praticamente impossibile cogliere ciò che è stato appreso dagli osservatori e ciò che era il processo di inculturazione.  Difficile uscire da questa contrapposizione se non considerando gli effetti prodotti da questa circolarità e valutare quanto sia stata importante questa esperienza per quei luoghi, quanto lo è ancora e quanto si sia diffusa oltre il localismo che la caratterizzava. Un risultato guardato a distanza di un trentennio che forse ci fa essere meno pessimisti sulla necessità di non disperdere le radici profonde della appartenenze e sulla possibilità di una coesistenza feconda delle culture.

Un’ultima riflessione specifica mi sembra ineludibile nel mio rapporto con il campo di indagine in relazione ai giovani protagonisti del progetto PomigliAMO. Per circa un anno questi studenti si sono confrontati con i testi, la musica, i luoghi; hanno appreso e riconosciuto linguaggi per loro sconosciuti e soprattutto hanno vissuto, attraverso filmati dell’epoca, momenti di forte aggregazione che nessuno aveva loro trasmesso.  Li ho ascoltati ed osservati, ho letto il loro stupore e anche l’ironica curiosità con cui prendevano per un verso distanza da un mondo a loro estraneo, per l’altro poi ne entravano in contatto e lo condividevano fino a voler approfondire e progettare eventi, incontri con le altre scuole del territorio per ricomporre una frattura della memoria del recente passato di cui volevano riappropriarsi per trasmetterla agli altri. Attraverso questo processo, si è sviluppato il sentimento di appartenenza degli abitanti per il luogo, il genius loci ritrovato. Le Mappe di Comunità ritracciano un percorso creativo, una riflessione locale, collettiva e inclusiva nei diversi contesti che le sperimentano. In questo modo la scuola si offre come luogo propulsore e peculiare di un territorio e l’antropologia culturale, troppo spesso relegata sullo sfondo del panorama della scienze sociali nell’ambito delle discipline della scuola superiore, si riprende lo spazio necessario per attivare dinamiche educative innovative e applicare i paradigmi teorici della etnografia e della conoscenza dell’altro.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Sono riportati di seguito i testi integrali delle tre canzoni:
A Flobert: Viernarì 11 aprile a Sant’Anastasia / Nu tratto nu Viernarì unnice aprile/’a Sant’Anastasia/nu tratto nu rummore/sentiett’ ‘e ch’ paura./Je ascevo ‘a faticà/manc’a forza ‘e cammenà/p’à via addumandà/sta botta che sarrà./’A Massaria ‘e Rumano/na fabbrica è scuppiata/e ‘a ggente ca fujeva/e ll’ate ca chiagneva./Chi jeva e chi turnava/p’à paura e ll’ati botte/ma arrivato nnanz’ ‘o canciello/maronn’ e ch’ maciello!/Din’t vuliette trasì/me sentiette ‘ e svenì/’nterr’ na capa steva/e ‘o cuorpo n’ ‘o teneva./Cammino e ch’ tristezza/m’avoto e ncopp’ ‘a rezza/dduje pover’ operaje/cu ‘e carne tutt’abbruciat’./e«Signò nun alluccate/ca forse s’è salvato»/e ‘a mamma se và avvutà/sott’ ‘a terra ‘ o vede piglià./Sò state duricie ‘ e muorte/p’è famiglie e ch’ scunfuorto/ma uno nun s’è trovato/povera mamma scunzulata./Sò arrivat’ ‘e tavule/e ‘a chiesa simmo jute/p’ò l’urdemo saluto/p’e cumpagne sfurtunate./P’e mmane/nuje pigliammo/tutti sti telegrammi/sò lettere ‘e condoglianze/mannate pè crianza./Atterrà l’ajmm’ accumpagnat’/cu arraggiar’a ‘ncuorpo/e ‘ncopp’ ‘a chisti muort’/giurammo ll’ata pavà../.E chi và ‘a faticà/pur’ ‘a morte addà affruntà/murimm’ ‘a uno ‘a uno/p’e colpa ‘e ‘sti padrune./A chi ajmma aspettà/sti padrune a’ cundannà/ca ce fanno faticà/cu ‘o pericolo ‘e schiattà./Sta ggente senza core/cu ‘a bandiera tricolore/cerca d’arriparà/tutt’ ‘e sbagli ca fà./Ma vuje nun’ò sapite/qual’è ‘o dolore nuosto/cummigliate cu ‘o tricolore/sti durici lavoratori.Ma nuje l’ajmm’ capito/cagnamm’ sti culuri/pigliammo a sti padrune/e mannammel’ ‘affanculo./E cu ‘a disperazion’/sti fascisti e sti padrune/facimmo un ‘ muntone/nu grand’ fucarone./Cert’ chisto è ‘o mumento/e ‘o mumento ‘e cagnà/e ‘a guida nostra è grossa/è ‘a bandiera rossa./Compagni pè luttà/nun s’adda avè pietà/me chesta è ‘a verità/’o comunismo è ‘a libertà. (Venerdì undici aprile/a Sant’Anastasia/ad un tratto un rumore/sentii, e che paura/Stavo uscendo a lavorare/nemmeno la forza per camminare/e per la strada chiedo/questa botta che sarà/La Masseria dei romani/una fabbrica è scoppiata/la gente che scappava/ed altra che piangeva/Chi andava e chi tornava/per paura d’altri scoppi/arrivato davanti al cancello/madonna, e che macello!/Volli andare dentro/mi sentii di svenire/a terra c’era una testa/che stava senza corpo/Cammino e che tristezza/mi giro e sulla rete/due poveri operai/tutte le carni bruciate./Poi arrivano i parenti/di quei poverini/piangono disperati/per i loro figli perduti./«Mio figlio dove sta/aiutatemi a cercare/fatelo per pietà/per forza deve stare qua»./«Signora, non urlate/che forse s’è salvato»/e la mamma va a girarsi/sotto terra lo stanno prendendo./Sono stati dodici i morti/per le famiglie che sconforto/ed uno non s’è trovato/povera mamma sconsolata../Sono arrivate la bare/ed alla chiesa siamo andati/per gli ultimi saluti/ai compagni sfortunati../Prendiamo tra le mani/tutti questi telegrammi/son lettere di condoglianza/mandate per buona educazione/li accompagniamo a seppellirli/e con la rabbia in corpo/sopra a questi morti/giuriamo: dovrete pagarla./Chi va a faticare/pure la morte deve affrontare/moriamo uno ad uno/per colpa di questi padroni./Chi dobbiamo aspettare/per condannare questi padroni/che ci fanno lavorare/col pericolo di schiattare. Questa gente senza cuore/con la bandiera tricolore/cerca di riparare/a tutti gli sbagli che fa./Ma voi non lo sapete/qual è il dolore nostro, avvolgete con il tricolore/questi dodici lavoratori./Ma noi l’abbiamo capito:/cambiamo questi colori/pigliamo questi padroni/e mandiamoli affanculo./E con la disperazione/di fascisti e di padroni/facciamone un montone,/un grande fuoco/Certo questo è il momento/quello di cambiare/e la guida nostra è grossa,/è la bandiera rossa./Compagni, per lottare/non s’ha da aver pietà/ma questa è la verità/il comunismo è libertà.)
Tammurriata dell’Alfa Sud: Na’ lotta agg’avuta ‘fa/ Na’ lotta agg’avuta ‘fa/ Pe’ncè trasì/ E quand so trasuto/Mamm’e’ll’Arca/Ch’nbression ccaggià’avuto/ Uè nu mostr’ij ’ vrietta/ O’primm’iorn ccà trasietta/ E che paura cca facietta/ Uè na’ machin’o’ minuto/Cacciav’na machin’a’ furnuta/lj’ nun’sacio’cca’aggia’fa/Ma cu’cchi’aggia’risciatà/ Nu’ cumpagn’ij’vrietta/ E cche’suspir’cca’ facietta/ E vicin’me’ venetta/ E’ tutte’e cos’me dicetta/ Guard’alla’nce’staà’ na pressa/ Etutt’e iuorn’vott’pressa/ se mangi’a ‘o sang’dde cristian’/ E va’ vatten’ primm’e ‘dimana/ Uè ma tu ch’staij’ dicenn/ Ca’nun poz’chiù vnì/ setticientmilalir’agg’a’ cacciat pe trasì/ E tirìa’cca e vott’alla/E manc’o tiemp’ ppe fumà/E nu prmess’aja crcà/ Uè ncè vonn’sti curnut/ pe’ passà dint’ a ‘ nu tavut/ Uè se tu vuoi mangiare / pe forrz’ cca’aja crpare/ Uè ma tu patron mij/ Ch’Maronn’stij ricenn/ lj’ nun song’nanimal’e ne nu schiavo/ Guard’a’ lun’e ij ta’donco/ E puozz’avè na pallanfront/ ma ij vogl’ tutte’e sold/ E tutt’cchell cca mme serve.
Pe’ campà dda’ crstiano: A canzone de disoccuopati/-a fatica ncestà e nun cià ‘vonn da-/E tantu tiemp can un faticammo/ Ma quann mai avimm fatcato?/E’ o’ vero ca nuije nce murimm’ e ‘famma/ Pecchè sta mafia e stì padrune nzisti / S’hanno mangiato Napule cu Cristo/ -a fatica ncestà e nun cià ‘vonn da-/Accumminciajene na’ matin’a’ambresse/ Sette  cunpagni accumminciajiene ‘a lotta/E chi crereva’ a sti disoccupati/ Ma po’ chiù tard’ addiventajiene tant/ E allor’ accummingiajn’ alluccà/-a fatica ncestà e nun cià ‘vonn da-/Furmajieme o comitat’organizzato/E accummingiajiene’a’ scennere pè strade/E che dicevan’ stì disoccupati? Dicevano ca’ vulimme faticà / E nun vulimme chiù i’ a rubbà! /-a fatica ncestà e nun cià ‘vonn da-/ Ciamm’scuntrat cu’ a polizia / E chi fujetl’e chi po l’affruntaje / Na’ gipp cà venett’ a  miez’a via/ Pecchè o’ quistor’ a ‘carica urdinaje/ Nce’ accerett’o cumpagno Custantino -a fatica ncestà e nun cià ‘vonn da-/ E nnata vota ancor’a piazza Dante / Hann sparat’a nnuije disoccupati/ Pecchè avimo ragion’e stì padrun/ Se crerne ca’ nce’ hanno mpapucchiati/ Forza rumpimm’o cul’ a sti padrun/ -a fatica ncestà e nun cià ‘vonn da-/ addà frnì stà mafia e sta DC/ Sta’vot stu guvern’a ‘mma caccià/ Ormai nuije simme stanc d’aspettà/ Vulimm’  ‘ambress’ambress faticà/ E allora vien nziem’a nuje a’ luttà/
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale e di Geografia delle lingue e delle migrazioni presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’Ateneo di Salerno, fa parte del gruppo di esperti del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale e il turismo diretto da Simona De Luna della stessa università; ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È autrice di numerosi studi. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana (2009); Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati (2013); Il mare, la torre le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile (2014). Minori migranti, nuove identità transnazionali (2020).

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