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La persona come prospettiva. Dialogo con Pietro Piro

copertinadi Vincenzo Maria Corseri

Ricorderemo l’anno che volge al termine come l’annus horribilis del Covid-19, ovvero un anno capace di porci al cospetto di una fragilità – umana troppo umana – di cui quasi nessuno aveva, almeno sul piano esperienziale, più consapevolezza. Un anno che, attraverso la potenza rivelativa di una malattia invisibile e onnipervasiva, ha messo a dura prova la stabilità di un Occidente (esiste ancora un’alternativa orientale cui appellarsi?) arrogante e sfrontatamente individualista, in cui il processo di desacralizzazione del mondo ha raggiunto in maniera incontrovertibile un punto di estrema tensione.

Il Coronavirus, seppur incidentalmente, ha segnato una fase cruciale in cui l’uomo è portato, anche partendo dalle ordinarie precauzioni sanitarie, a prendere consapevolezza delle proprie esigenze vitali. Ed è bene, almeno in questo senso, che si torni a parlare di comunione sociale, per quanto concerne sia l’individuo bisognoso di aiuto, sia la persona che trova centralità e compimento nella relazione con gli altri. Pertanto si fa sempre più urgente il bisogno di riflettere sulla nostra condizione umana e sullo scenario di libertà che si prospetta da alcuni decenni, con i suoi molteplici percorsi e le sue elevazioni, ma anche con le sue cadute e le sue patologie.

Incontrare in un momento così complesso Pietro Piro – saggista, traduttore, sociologo e, attualmente, responsabile del settore “Ricerca e Sviluppo Area Sociale e Formativa” dell’Opera Don Calabria di Verona – in occasione della pubblicazione del suo ultimo volume, L’uomo nell’ingranaggio. Occasioni di critica (Edizioni La Zisa, Palermo 2019), è un’opportunità preziosa per approfondire alcuni percorsi di riflessione sul mondo contemporaneo e sul costante cambiamento di categorie di valori e di rapporti di potere su cui si regge la “dialettica tremenda tra oppressori e oppressi”. Una dialettica che, ancora una volta, si mostra incapace di restituire all’umanità l’intrinseca peculiarità che un interprete profondo della nostra civiltà come Jacques Maritain ha considerato alla stregua di «un’esistenza nobile e ricca: la sovraesistenza spirituale propria della conoscenza e dell’amore».

Cominciamo col presentare il libro, quali sono le finalità di questo tuo progetto editoriale e in che termini possiamo inserirlo nel tuo recente percorso di ricerca e di scrittura?

«Questo libro raccoglie saggi, interventi, interviste, meditazioni, aggregati su quattro grandi temi: Comunità, Lavoro, Tecnica, Chiesa. È evidente che si tratta di temi-cardine del mio ragionare. C’è nell’apparente discontinuità dei temi trattati una tensione di fondo che accomuna tutti gli scritti e che lega questo libro a tutti gli altri: un interesse sincero e generoso per la condizione dell’uomo, per la sua fragilità, per il tentativo mai riuscito di trovare un compimento. Come non provare una profonda compassione per la condizione dell’uomo che continuamente subisce le ingiurie del tempo, la frammentazione dei legami, il divenire continuo e logorante, la disintegrazione delle energie più pure? Ecco, direi che questo è un libro centrato tutto sulla pietas che va intesa proprio nel senso di un doppio impegno nei confronti degli uomini e del divino».

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Honduras (@Agence France-Presse)

La struttura del volume, tenendo conto anche dell’ampia sezione introduttiva, si articola nelle quattro aree tematiche suelencate in cui presenti un quadro della società contemporanea di grande tensione argomentativa. In epigrafe riporti una eloquente frase di Ignazio Silone, che funge poi da manifesto dell’intero tuo lavoro: “La sola realtà che veramente mi ha sempre interessato è la condizione dell’uomo nell’ingranaggio del mondo attuale”. Credi che l’uomo della società globalizzata in cui siamo immersi vada ancora inteso come parte di un ingranaggio o, a tuo vedere, date le continue ibridazioni culturali cui siamo sottoposti, possiamo preconizzare nuovi orizzonti antropologici?

«Questa affermazione, che ho trovato in un saggio sul progresso e il benessere di Ignazio Silone, è stata folgorante per me. Mi sono chiesto molte volte quale fosse la mia vocazione allo scrivere. Quale fosse il mio grande interesse. Per molto tempo ho scritto in una condizione di furore senza avere ben chiaro quale fosse il mio principale obiettivo. Oggi questo obiettivo mi è chiarissimo: la condizione dell’uomo. Questa centratura di senso fa passare in secondo piano l’analisi dell’ingranaggio. L’ingranaggio esiste da moltissimi anni. Basti pensare alla società cinese antica o a quella egiziana che ha portato alla costruzione delle grandi piramidi. Megamacchine sociali che si sono sempre più specializzate, ingigantite, disumanizzate. Oggi viviamo immersi nel sistema tecnico, in un orizzonte di mobilitazione totale. Non c’è frammento del mondo che non sia coinvolto in una dinamica di sfruttamento. Oppure, ed è strettamente legato al primo modus operandi, di marginalizzazione e scarto. L’ingranaggio ci spreme fino all’esaurimento. Attinge alle nostre fonti più profonde dove si genera il desiderio. Ma chi ha costruito l’ingranaggio? Noi stessi. Per quale motivo? Per un folle tentativo di mettere il mondo in un dispositivo di controllo che sia capace di dominare la paura e l’angoscia del nulla. In questa condizione tragica, che ho cercato di analizzare in questo e in altri miei libri precedenti, quello che veramente conta per me è la condizione dell’uomo. Per questo motivo, anche in un prossimo futuro, dove l’ibridazione uomo-macchina sarà certamente maggiore rispetto a quella di oggi, credo sarà importante riflettere sulla condizione umana. L’uomo resta orizzonte, traccia, fine e speranza di senso per me».

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Una scena di Io Daniel Blake, di Ken Loach

Una delle sezioni più interessanti del testo è sicuramente quella dedicata al lavoro. Tu sei uno studioso particolarmente attento alle dinamiche sociali che attraversano il nostro Paese in relazione alla continua trasformazione del mercato del lavoro e dei complessi processi socio-economici a esso correlati. Tenendo conto anche della tua attività di educatore, mi piacerebbe che provassi a tracciare per i nostri lettori un quadro sintetico della situazione che stiamo vivendo.

«Credo sia molto difficile fare un quadro complessivo della questione “lavoro” oggi. Sarebbe necessario un intero volume solo per cominciare a ragionare. Posso dire, senza nessuna pretesa di dire nulla di nuovo, che troppe persone si trovano “fuori dal lavoro” abitando in un orizzonte psicologico senza prospettive, senza slancio, senza idealità. Una condizione tragica di “spreco” che nega il “fondamento” della nostra Carta Costituzionale. Non solo non siamo, di fatto, una “Repubblica fondata sul lavoro” ma sembra si stia facendo sempre più strada una convinzione: che si possa vivere senza lavorare, senza impegnarsi in nulla, senza progettare niente per sé stessi e per gli altri. A me pare sia una questione gravissima, questa svalutazione del senso del lavoro. C’è un attacco alla radice stessa della relazione sociale, al principio di cittadinanza basato sull’attività. Se prevale la passività deresponsabilizzante non riusciamo più a fare comunità. Demolire il lavoro significa annichilire il potere di relazione trasformativa della realtà. In questa “crisi del lavoro e dei lavoratori” si fanno strada nuovi caporali, nuovi strozzini, nuovi usurai. Un esercito di nuovi avvoltoi pronti a sostituirsi allo Stato, ai Diritti, alle Regole, duramente conquistate dalle lotte sociali dei lavoratori. Il lavoro è sempre più un “bene scarso” e come tale diventa sempre più difficile costruire un’identità che sia centrata sul lavoro. La pandemia genererà una delle peggiori crisi occupazionali che abbiamo mai visto. Come possiamo affrontare questa situazione? Non inventando altre forme di sussidio che non prevedano una progettualità occupazionale immediata. Da tempo sono convinto (con André Gorz) che abbiamo tutti i mezzi tecnici per “pensare l’esodo dalla società del lavoro e della merce”, ma occorre immaginare nuove sintesi dialogiche tra uomo e ambiente. Mettere in totale discussione il rapporto malato che abbiamo con il Pianeta. Altrimenti, restiamo intrappolati nella dinamica lavoro-profitto-sfruttamento che, se ho capito bene leggendo Marx, è strutturale al processo di accumulazione capitalistico e non può essere eliminata con formule leggere di capitalismo gentile».

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Illustrazione di Steve Cutts

La questione della tecnica è certamente essenziale per comprendere il mondo di oggi, sempre più caratterizzato dalla globalizzazione e dalla spasmodica ricerca di nuovi dispositivi funzionali al controllo sociale. In un’acuta osservazione di Lucetta Scaraffia riferita a Jacques Ellul – pensatore a cui dedichi buona parte della sezione centrale del tuo libro – si ricorda che in diversi ambienti culturali si sta sempre più affermando l’idea che il progresso non debba essere lasciato in balìa di sé stesso. In che termini possiamo seguire questo nuovo filone della ricerca sociale attuale e con quale atteggiamento?

«Ho scritto molte volte – e non mi stancherò mai di ripeterlo – che abbiamo bisogno urgente di una politica per l’organizzazione della tecnica. Nel Programma del Partito Socialdemocratico di Berlino del 1989 ho trovato indicazioni chiare che avrebbero potuto guidarci nella riflessione e nell’elaborazione di piani per affrontare le enormi contraddizioni che lo sviluppo tecnologico ci pone innanzi. Per i socialdemocratici tedeschi era chiaro allora che: “la mera somma contabile dei passi avanti finora compiuti non ha più come risultato il futuro” e che: “non tutte le innovazioni tecniche rappresentano un progresso”. L’innovazione non è sempre un bene se non trova nella società una applicazione conveniente che non consista unicamente nella crescita del profitto di qualche multinazionale. Il Programma di Berlino rifletteva sull’urgenza di operare delle selezioni rispetto alle innovazioni da introdurre nel corpo sociale e di verificarne i criteri che le ispirano e gli interessi (soprattutto economici). Purtroppo oggi non vedo una politica all’altezza del compito. In questo vuoto si fanno strada gli affaristi di ogni genere che spacciano per progresso “strumenti tecnici” che nel migliore dei casi non servono proprio a nulla. Se non si apre una grande discussione sul senso profondo della parola progresso, saremo sommersi dai rifiuti di una società bulimica sempre più ansiosa, sempre più depressa, sempre più paranoica. Abbiamo bisogno di fare progressi nell’ambito della mente profonda, delle relazioni affettive, nel rispetto della diversità. Abbiamo bisogno di progresso nel rispetto dell’ambiente, del cibo, del paesaggio. Abbiamo bisogno di nutrire la vita. Ci tocca, invece, solo accettare passivamente l’imposizione di un qualche attrezzo tecnico?»

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Don Milani e i ragazzi di Barbiana

La parte finale del libro è dedicata ad alcune figure cardine della Chiesa degli ultimi decenni (Don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira, Papa Francesco). Si tratta di pagine avvincenti e ricche di spunti di riflessione, in particolare sul potenziale dialogico del cristianesimo attuale: un patrimonio di spiritualità e di valori che la Chiesa offre indistintamente all’umanità intera, all’insegna di un principio di condivisione che è la cifra più concreta ed essenziale di ogni testimonianza. Ha senso, al giorno d’oggi, parlare ancora di “profezia”?

«Ha senso nella misura in cui la profezia non è delirio mistico ma metodo di liberazione. Strategia per liberare finalmente l’oppresso. Percorso chiaro, semplice, diretto, immediato, facilmente riproducibile per dire all’uomo come liberarsi dalla paura. Gesù e Buddha hanno parlato molto chiaramente all’uomo. Non ho più trovato una chiarezza così disarmante in nessun’altra fonte. Applicando alla lettera i consigli di questi due grandi profeti, l’ingranaggio si sgretola, la paura è vinta, il dolore scompare. Eppure, invece di vivere come i gigli nei campi, cerchiamo sempre più di essere integrati in una visione meccanica, ossessiva, disumana. Che ben vengano i profeti, se riescono a liberarci dalla vecchie e dalle nuove catene. Abbiamo bisogno di libertà dai condizionamenti. Quanto sono lucide e profonde queste parole di Jiddu Krishnamurti: “La verità è una terra senza sentieri. L’uomo non la può raggiungere attraverso alcuna organizzazione, alcun credo, alcun dogma, prete o rito; né tramite alcuna conoscenza filosofica o tecnica psicologica. Deve trovarla tramite lo specchio della relazione, tramite la comprensione dei contenuti della propria mente, attraverso l’osservazione e non con l’analisi intellettuale o una dissezione introspettiva”.  

Grazie per lo spazio che mi avete dedicato. Spero di non aver rubato tempo prezioso alla vostra ricerca di senso».

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020

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 Vincenzo Maria Corseri, dottore di ricerca in Filosofia, ha svolto attività seminariali presso la cattedra di Storia della filosofia medievale dell’Università degli Studi di Palermo e insegnato Estetica, come docente a contratto, presso l’Accademia di Belle Arti “Kandinskij” di Trapani. È stato collaboratore della Facoltà Teologica di Sicilia per la redazione del Dizionario Enciclopedico dei Pensatori e Teologi di Sicilia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni. Recentemente ha curato, insieme a Giuseppe L. Bonanno, il volume Cultura storica e tradizioni religiose tra Selinunte e Castelvetrano, una raccolta di studi sulla storia religiosa e culturale del territorio selinuntino (Edizioni dell’Istituto Euroarabo, Mazara del Vallo 2018).

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