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Flessibilità, riflessività

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Panchina come contesto riflessivo (ph. Stefano Montes)

di Stefano Montes

La panchina (e la foto) come contesto di riflessività

Ho bisogno di un contesto per le mie riflessioni, ne ho bisogno per non perdermi nelle – sempre – incombenti e spesso nefaste generalizzazioni. Una panchina (e una foto) può essere un contesto adeguato: non una panchina qualsiasi, ma una panchina che mi è cara, una panchina che si trova nei dintorni di un giardino di Palermo dove vado, di tanto in tanto, a correre e riposare le membra stanche. E, da questa panchina, passerei – passerò – a un’altra panchina in un’altra città: di contesto in contesto, di riflessione in riflessione. D’altronde, l’idea è semplice ma allettante: ancorare le riflessioni sulla flessibilità a partire da quel contesto, preciso e delimitato, che è la panchina (e la foto che la ritrae o la suggerisce). Ci si potrebbe chiedere: perché la panchina più particolarmente e non qualsiasi altro oggetto del mondo? Perché la panchina mi rilassa, mi consente di riposare, mi aiuta a meglio osservare ciò che ho intorno e al mio interno: uno stato d’animo interiore e il mondo circostante, me stesso e gli altri.A ben vedere, quale migliore luogo per parlare di flessibilità e di riflessività? Su una panchina ci si può riposare; si può riflettere; si può inoltre essere flessibili proprio mentre ci si interroga sul senso della flessibilità e dei suoi vari contesti d’uso: senza perdersi in astruse teorie o rimbalzi metalinguistici. A ogni contesto, quindi, assocerò – in questo breve saggio suddiviso in tre parti, in tre foto – una panchina; a ogni panchina, di conseguenza, assocerò una foto specifica che mi rimanderà al momento in cui ho vissuto l’esperienza e in cui ho pure avuto l’occasione di prendere appunti su quel che mi succedeva e pensavo.

Parto da Palermo: parto dalla panchina del giardino dove vado di tanto in tanto. Che succede di solito? Di solito mi siedo, allungo le gambe, chiudo gli occhi e lascio correre i pensieri. I pensieri corrono a briglia sciolta e io, di converso, mi rilasso mentre le mani tamburellano sulle gambe a ritmo vario, in funzione dello stato d’animo del momento. A volte, in via del tutto preliminare, leggo un breve frammento del testo che ho con me, giusto per dare il corretto avvio ai miei pensieri o, forse piuttosto, per compensare l’attività fisica con l’impegno sotterraneo volto a fissare seducenti idee altrui e gioirne. L’altra volta, non so per quale ragione – forse avevo corso più a lungo del solito oppure non avevo il solito libro con me che dà piacevole avvio alla mia meditazione – mi sono lanciato a corpo morto sulla panchina e ho preso posizione in modo tale da potere vedere gli alberi dal basso, in fila, con tutta quella massa verde in alto che rasserenava il mio spirito grazie anche al delizioso contrappunto creatosi con il battito del mio cuore, ancora accelerato per la corsa. Era come se, al mio interno, parlassero due voci distinte, ma ben accordate: un dialogo improvvisato che mi faceva pensare al contrappunto di Said e all’idea di polifonia come svelamento di realtà camuffate o etero-dirette. Strano a dirsi, per di più, era la prima volta che, nonostante la frequenza, notavo questa bella composizione di alberi marrone e foglie verdi nel loro armonico insieme. Strano, inoltre, che io pensi e dica, tuttora, ‘composizione’ e non cambi idea. Il fatto è che il tutto, pur così reale, pur così prossimo, sembrava il risultato del tocco esemplare di un pittore.

Insomma, mi dibattevo tra la realtà effettiva e la potenziale commisurazione artistica. Non ho nessuna reticenza nel dire che, inizialmente, il mio mondo interiore tendeva a tratti a imporsi sul resto seguendo il filo delle mie passioni letterarie e filosofiche: lo sguardo si è infatti soffermato sulle radici ben visibili dell’albero. Panchina e radici in un unico blocco? C’era il rischio che mi mettessi a pensare a Sartre e ai diversi modi attraverso cui la realtà si manifesta – può manifestarsi – al soggetto in quella solida e sofferta concretezza materiale che dà persino la nausea. Se così fosse stato, sarebbe stato un tutt’altro andazzo cognitivo e descrittivo! Ho scartato d’istinto il percorso mentale immaginato, quasi senza rendermene conto, che mi si offriva, proprio nel momento stesso in cui ho notato con maggior enfasi lo slancio in avanti dell’albero alla mia destra e la fila degli alberi che scorrevano, l’uno dopo l’altro, in lontananza, fino alla fine del marciapiede.

Devo confessare che sono stato tentato dall’idea – memore dell’esperimento relativo alla resa del quotidiano da parte di Perec – di mettermi a descrivere ciò che vedevo nell’intento di esaurire il visibile attraverso una forma di scrittura come atto. Il titolo del volumetto di Perec è, per l’appunto, Tentative d’épuisement d’un lieu parisien. Sarebbe stato divertente – declinandolo in rapporto al mio contesto – intitolarlo Tentativo di esaurimento di un luogo palermitano. Non avrei dovuto fare altro che osservare attentamente e descrivere minuziosamente ciò che rientrava nel campo del visibile in quel momento. O no? Forse non così semplice come dico e penso, ma avrei potuto tentarci comunque. Chissà perché, però, altri pensieri hanno preso il sopravvento e l’ipotesi è venuta meno! Mi sono accontentato di uno scatto fotografico per mantenere traccia di questa possibilità in futuro e mi sono allungato nuovamente sulla panchina nell’intento di continuare a fermare – per diletto, per esplorarne percettività inusuali – l’attenzione sul contrappunto creatosi tra il battito del cuore e la massa di verde, tra l’interno e l’esterno, tra il ritmo e la forma. Niente di più gradevole, direi. Una volta arrivato a casa, poi, ho guardato ancora una volta la foto e mi sono accorto – lasciando correre lo sguardo nel corridoio vuoto ricavato tra gli alberi e la panchina – che in lontananza, minuscolo ma visibile, si trovava un individuo con una maglietta viola e una borsa a tracolla. Non è che un dettaglio, a mala pena visibile, di cui non mi ero nemmeno accorto, in sito, quando ho scattato la foto. Sembra una quisquilia, questa, ma la questione è centrale, soprattutto a proposito di flessibilità e riflessività.

Voglio ricordare che Antonioni, a partire da una situazione simile – descritta in un racconto di Cortázar – ne ha tratto un film che ha fatto molto discutere a riguardo. E io? In questo contesto? Che bel rapporto – ho esclamato io – si è venuto a creare tra la totalità ben in mostra e il dettaglio quasi invisibile! Com’è noto, infatti, ci sono diverse teorie sul dettaglio e questa mia esclamazione potrebbe essere in qualche modo contraddittoria in termini contenutistici. Tendo a privilegiare, giusto per fare un esempio, il dettaglio o la totalità? Per farla semplice, direi che il ‘dettaglio’, in questo caso, non è altro che il risultato di un lento processo di scoperta avvenuto attraverso l’osservazione, più della realtà vera e propria, della sua forma rappresentata dalla foto: a mano a mano che guardavo la foto, sempre più io mi rendevo conto del dettaglio e ne prendevo coscienza. Il valore di composizione dell’insieme, dopo tutto, ripensandoci, non è nemmeno messo in dubbio. Ciò che fa riflettere è il fatto che me ne sono accorto, del dettaglio, a posteriori: attraverso una foto che io stesso avevo scattato diligentemente.

Ma non è finita qui. Il dettaglio non ha avuto soltanto un ruolo nella dimensione temporale legata al presente e all’osservazione diretta e rivissuta: il dettaglio mi ha inoltre proiettato nel passato. In un attimo, senza volerlo, sono stato proiettato indietro nel tempo, allorquando seguivo, a Parigi, i corsi di Philippe Hamon sul realismo e le varie concezioni dello spazio in architettura e in letteratura, sull’emergenza del realismo nel tempo e il valore del dettaglio, sulla parte e l’insieme. Mi è passata per la testa poi, quasi in parallelo, la definizione di Tylor secondo il quale la cultura è un insieme complesso. (E il dettaglio – attenzione! – che fine fa nella definizione di Tylor?) Ho pensato che avrei potuto essere cavilloso e fare un collegamento tra una cosa e l’altra, tra il valore dell’insieme e quello del dettaglio proprio a partire dalla definizione di Tylor. Poi, mi sono detto: non è forse il ‘cavilloso’ una delle tante figure del dettaglio incarnate direttamente da un soggetto? Allora ho desistito, ho cercato rifugio nella flessibilità e nella fotografia, e ovviamente in un’altra panchina: quella che racconto di seguito, in forma riflessiva, al fine di continuare la mia esplorazione della nozione di flessibilità a partire da contesti precisi.

Prima di spostarmi su un’altra panchina e ancorarmi a un altro contesto fotografico, tuttavia, desidero dare qualche breve accenno riepilogativo rispetto a quanto da me scritto. È soltanto qualche accenno conciso perché, altrimenti, il mio esercizio di riflessività si trasformerebbe in un lavoro di esplicitazione interpretativa protratta per diverse pagine. E non voglio che sia così. È soltanto qualche accenno perché, in definitiva, la foto e la mia stessa esperienza valgono come ipotesi per il lettore che può trarre le sue conclusioni e, soprattutto, le sue riflessioni su un’altrui esperienza (quella mia, da me vissuta). Ciò che mi interessa invece ribadire a piene mani è la questione seguente: più si osserva, più si notano i dettagli e si comprende meglio il rapporto tra l’insieme e le parti, tra la totalità e l’elemento singolo. Non sempre è così, ma la pratica di cui parlo è comunque collegata alla flessibilità. La flessibilità dipende – anche – dalla prospettiva dalla quale si guarda e si osserva se stessi e il mondo (e lo si descrive).

Con ogni evidenza, più in generale, si può pure affermare che esistono molti modi di osservare e di descrivere. Io ho accennato, en passant, a quelli di Sartre e di Perec più particolarmente. I due diversi modi di osservare e di descrivere di Sartre e di Perec non sono che un piccolo – per quanto geniale ed efficace – esempio rispetto all’ampia varietà delle possibilità di situarsi nel mondo dei soggetti e di renderne conto. Sartre, nella Nausea, associa la descrizione a una sorta di epifania in negativo di un soggetto mentre Perec, nella sua descrizione in Tentative, sembra svuotarsi di qualsiasi intervento relativo alla soggettività spicciola e si proietta invece in ciò che vede in un modo che sembra quasi neutralizzato dalla stessa composizione descrittiva proposta. Due diversi modi di osservare, quelli di Sartre e Perec, sui quali tornerò in futuro in chiave anche antropologica; in questo breve saggio, mi limito soltanto a segnalare la varietà d’approccio e di fini e la sua rilevanza per una teoria della flessibilità. Riflettiamoci, dunque, fin da ora! Per quanto riguarda il mio testo, fin qui, ci sarebbe da discutere, tra le altre cose, l’accenno che ho fatto alla nozione di polifonia a me – e a tanti altri antropologi – cara. Non lo farò in lungo e largo: per non incappare nella generalizzazione, per attenermi il più possibile al filo del mio vissuto esperienziale (la panchina e la foto) e per lasciare inoltre al lettore il piacere della lettura – come direbbe Barthes – che rimanda (qui) al mio testo e (altrove) alle altrui proposte di altri autori. Credo che un ‘campo’, per un antropologo, sia collegato non soltanto al suo diretto vissuto etnografico – benché, in questo singolo caso, io lo privilegi a fini sperimentali – ma all’insieme delle pratiche discorsive che sono, in ultima analisi, il risultato di letture e contro-letture del mondo e delle interazioni intersoggettive. Non soltanto, infatti, siamo proiettati nel mondo con i nostri sensi, ma lo siamo pure con le nostre letture e contro-letture! Ricordo al lettore che Clifford – uno degli antropologi che più ha insistito sulla nozione e pratica di polifonia – scriveva che il «campo è anche un insieme di pratiche discorsive» (Clifford 1997: 33). Passiamo, quindi, senza esitare oltre, a un’altra panchina, a un’altra foto, a un’altra versione della flessibilità.

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Spazio alla flessibilità (ph. Stefano Montes)

Spazio aperto alla flessibilità

Io guardo. Guardo la foto e non mi convince. È la foto di una panchina, scattata da me stesso in un paese del sud della Sicilia qualche tempo fa. Un bambino guarda in avanti, di spalle rispetto al fotografo. La guardo e la riguardo. Guardo la foto e sono in dubbio. C’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non mi piace. C’è qualcosa di storto che dà fastidio all’occhio, a quell’occhio che non è più mio, è il risultato di sguardi stereotipati, depositati nel tempo, dal tempo. Prima di dire qualsiasi cosa, dovrei pensare a ripensare il mio stesso sguardo. Prima di emettere un qualsiasi giudizio, dunque dovrei lasciare spazio alla flessibilità: alla possibilità di un accomodamento e riaggiustamento del mio stesso gusto generato dal mio modo di vedere cristallizzatosi nel tempo, a mia insaputa, mentre mi occupo d’altro, e lui – lo sguardo – prende certe abitudini, trasformandole in verità assolute.

In quanto essere umano, debole e vulnerabile, è inutile pensare il contrario: sono il risultato del tempo che passa e trasforma la mia elasticità in irrigidimento, in automatismo, in fatto indubbio. Devo prendere, se non altro di tanto in tanto, le mie contromisure. Devo cercare di essere flessibile, devo attendere, devo sottopormi all’influsso del contrappunto che lima asperità e sporgenze: quel contrappunto – di cui parlava Said (Said 1998) – che mette a fronte le pluralità di voci, persino le voci interiori del singolo individuo che aiutano a rendere conto della molteplicità delle prospettive, che disancorano automatismi e cristallizzazioni. Devo sottopormi al piacere della flessibilità piena. Che sarà mai in fondo? Un concetto o una pratica? Devo chiedermelo andando all’origine della questione. Devo interrogarmi sulla flessibilità, sui suoi tratti, visto che ci sono: sono al suo cospetto, non mi tiro indietro, non demordo. Inutile, d’altronde, aggirarsi nei paraggi del sentito dire: meglio parlarne a viso aperto, meglio sondare i miei propositi e quelli altrui. Non ho un dizionario per le mani, non ne trovo nei dintorni. Sono in vacanza, sono a passeggio per intrecci di concetti e percetti. Così, più che intrattenermi con il concetto in sé a partire da un testo scritto, mi lascerò briosamente trasportare da quelle associazioni che mi vengono in mente senza una ragione precisa: mentre mi interrogo e ci ragiono senza fretta, mentre il tempo scorre e la vita corre. Fretta non ne ho. Mi sono liberato del mio dovere quotidiano e persino lavorativo; posso fare in modo che il piacere estivo della scrittura – a casaccio, in disordine, per piacevoli flussi, nella modalità più prossima alla scrittura automatica – prenda avvio senza pormi lo scrupolo del senno anticipatore del detto. In che ordine dunque? Con quale intento particolare? Il senno prima e l’atto dopo? Il piano avanti e la scrittura a seguire? Lo ammetto: non ho un progetto, non ho un fine, i miei intenti sono tensione verso altro. E allora? Mi concedo – mi concedo a – quella cura che consiste nel pensare per associazioni, nel pensare per automatismi da smontare, nel pensare come se l’io fosse quello di un altro, come se io fossi quell’ombra che prende la distanze da se stessa.

Quali relazioni, dunque, per tornare, a bomba, sull’argomento in corso? Quali associazioni si mettono in opera, nella mia testa, a proposito di flessibilità? A quali autori posso chiedere aiuto? Autori? Io, per quanto mi riguarda, penso automaticamente a una pianta che si flette ma non si spezza. Penso, ancora, alle articolazioni del corpo che vanno al di là del solito, meccanico movimento quotidiano. Penso, infine, all’acqua marina che ti – ci – lascia scivolare opponendo quella giusta resistenza che si trasforma in piacevole carezza e massaggio del corpo. Se ci torno su, approfondendo, tessendo a fondo il filo delle associazioni spontanee che mi passano per la testa, suppongo – certezze non ne avanzo – che mi piace pensare a una pianta che si flette e non si spezza perché l’associo a una sorta di resilienza naturale del mondo vegetale che forse manca a noi umani in carne e ossa: la pianta, flettendosi all’imperversare del vento o della tempesta, scongiura il pericolo principale che è quello di spezzarsi e morire.

Flettersi, in fondo, in questo contesto, prende in contropiede il morire; flettersi è la possibilità di ritornare verso ciò che si era prima – pace priva di attriti – senza doversi rompere per sempre, più consapevoli; flettersi è un cedere parziale che lascia spazio all’intervento riparatore del tempo. In questa prospettiva, la flessione – il concedersi all’atto da parte della flessibilità – costituirebbe forse uno degli ambiti più spontanei e naturali per pensare il possibile e l’atto. È un’immagine, si potrebbe dire. È un’immagine, tuttavia, il cui filo narrativo opportunamente svolto consente di interrogarsi, di andare al di là di una ricezione passiva. E ciò per quanto riguarda la flessione della pianta! E per le articolazioni? Perché mi vengono in mente proprio le articolazioni in particolare? Se penso alla flessibilità delle articolazioni corporee, non posso fare a meno di prendere in considerazione l’esercizio fisico e mentale che consiste nel voler andare al di là di se stessi: questo è, almeno, quello che io intendo per esercizio.

Ho sempre pensato che non bisogna cedere a qualsiasi forma di rigidità che, col tempo, tende a impadronirsi delle nostre azioni e cognizioni. Non dico di essere esente da rigidità e durezze. Magari! Tendo però a scrollarmele di dosso in qualche modo. In quale luogo è più facile, più bello, scrollarsi le rigidità corporee e mentali? Dove, per me, se non a mare? Mare e scivolare, mare e liquidità, mare e immersione, mare e riorientamento, mare e ininterrotto movimento, mare e percezione corporea. Ovviamente, parlo per me, parlo perché nuotare – e, anche più, andare al fondo, dimenticarsi della superficie – è un ottimo modo per lasciarsi andare al flusso dei pensieri mentre il corpo scivola senza grandi attriti. Scivolare, per quanto strano possa sembrare, nel mio universo semantico ed esistenziale, ha un rapporto con l’antropologia. Una delle correnti antropologiche che, più di tutte, ha messo in dubbio prospettive monolitiche e rivelato camuffamenti di rapporti tra poteri e sapere è il postmodernismo. Crapanzano arriva al punto di dire che, nel complesso, «l’antropologia dovrebbe […] aiutarci a dubitare delle nostre certezze, non a confermarle» ciecamente (Crapanzano 1980: 21). Da parte sua, Geertz (che non è un postmodernista, ma ne condivide e anticipa alcune inclinazioni), facendo riferimento a Wittgenstein e alle Ricerche filosofiche, scrive: «io volevo insomma camminare. Per lo meno volevo girovagare. Muovendosi tra luoghi e popoli […] non si costruisce tanto una posizione […] quanto piuttosto una serie di posizionamenti» (Geertz 2001: 11). Geertz non è interessato alla costruzione di una posizione per sé, ma al movimento: ai vari posizionamenti flessibili che si creano muovendosi da un posto all’altro. In fondo, per quanto sia lontano da quell’idea di esperienza sottolineata da alcuni postmodernisti (o dallo stesso girovagare di Geertz), Lévi-Strauss non si rifugia – nemmeno lui alla ricerca delle leggi dello spirito – nel cantuccio statico dell’unicità del significato. Per Lévi-Strauss, infatti, il significato non è immobilismo o prospettiva radicata nell’unicità del posizionamento immutato, ma rimando e movimento continuo: «il significato non è altro che questo mettere in relazione» (Lévi-Strauss 1988: 198).

Insomma, in molte correnti antropologiche, anche quelle in apparenza opposte tra loro, la relazione ha una funzione essenziale. E la flessibilità ha a che vedere, a mio parere, con la nozione di relazione. Parlo in prima persona. Parlo per me ovviamente, per il mio mondo di associazioni. Parlo tirando in ballo immagini a me care, facendo riferimento al mio immaginario e ai miei orientamenti. Penso alle piante, penso al mare, penso ai miei contesti. Penso comunque che il mio punto di vista – anche scrivendo – sia da mettere sempre alla prova in relazione al punto di vista degli altri (e viceversa). Scrivo per rilassarmi in fondo. Scrivo per parlare di prospettive e relazioni, di flessibilità e rigidità. Scrivo per parlare di antropologia e foto. In una foto in cui alcune irregolarità inusuali si presentano, non si può che emettere un giudizio valutativo incerto, negativo e assodato? Oppure, memore della misera fallibilità del punto di vista univoco, si può al contrario tendere alla comprensione dell’altro: che sia una foto, un individuo, una pianta, lo scivolare in acqua. Propendo per questa seconda ipotesi.

La fallibilità è conferma di alterità: di un punto di vista che non dovrebbe – proprio per questo – essere mai monologico ma teso alla comprensione dell’altro, in un aperto dialogismo di ipotesi che tiene conto delle irregolarità, dell’inusuale. Una foto che presenta irregolarità mi ricorda che la certezza di opinioni di un individuo qualsiasi dovrebbe essere sempre messa a fronte del valore del dubbio prodotto dal dialogo – interiore e – esteriore con altri individui con posizioni simili e diverse. La cultura stessa è qualcosa di cui parliamo a partire da una posizione che ci consente, nel bene e nel male, di parlare nel modo specifico in cui lo facciamo. Ragione di più per mettere in dubbio un’idea monologica di cultura, rigidamente al singolare, irrigidita nella regolarità stantia. Ciò vuol dire, più specificamente, che si dovrebbe tenere conto della possibilità di – pensare la flessibilità per – andare al fondo di una questione, prendere in conto il proprio punto di vista e, eventualmente, modificarlo opportunamente. A giusto titolo, in etnografia, si parla di riflessività e soggettività. Il «reflexive I of the ethnographer subverts the idea of the observer as impersonal machine» (Okely 1992: 24). Un etnografo non è una macchina operante meccanicamente, ma una persona che si investe in quello che fa, riflettendo e modificando – se necessario – il proprio punto di vista: grazie alle interazioni con altri interlocutori, osservatori e osservati a loro volta, a turno.

Si dovrebbe, dunque, tenere conto della diversità delle culture nel tempo e del posizionamento derivante dall’appartenenza; al contempo, pur essendo posizionati – proprio nella consapevolezza di esserlo – si dovrebbe avere tendenza a liberarsi del proprio posizionamento comparando e astraendo per gradi, mettendo in relazione categorie ed esperienza: senza cedere al cieco piacere dell’astrazione universalizzante che svincolerebbe del tutto dal posizionamento, comunque singolare, di un individuo a confronto con altri individui. Le categorie sono prodotte dall’esperienza reiterata nel tempo, modificabili in tempo; viceversa, l’esperienza si mette in atto grazie – anche – a categorie soggiacenti che la modellano e si rimodellano a loro volta. Si può mai pensare, d’altronde, di versarsi in una situazione senza lasciare interagire l’esperienza e le categorie che la orientano?

Penso che ciò valga per la foto che ho scattato sul bimbo ripreso di spalle. Penso che ciò valga pure per dibattiti d’altro tipo. Penso che ciò valga inoltre per la guerra, male del mondo. La guerra giustifica l’assassinio di un altro individuo con il ricorso – sovente – alle nozioni di confine e di appartenenza. Io posso – devo – uccidere un altro se sta al di là di un confine e mostra un’appartenenza diversa dalla mia? Confine e appartenenza sono due nozioni poste al servizio di un ordine morale conseguente e, viceversa, l’ordine morale trae la sua forza dall’applicazione cieca di queste nozioni. Svanite – flessibilmente decostruite – le nozioni di confine e appartenenza, svanisce pure la (nozione di) guerra tra nazioni e la sua relativa giustificazione. Rimango dunque fedele al principio secondo cui il «significato di una parola è il suo uso nel linguaggio», nel contesto particolare in cui il linguaggio viene adoperato (Wittgenstein 1967: 33). Ciò non impedisce la generalizzazione per gradi. Ciò non impedisce il confronto di linguaggi e culture, così come delle loro possibili riorganizzazioni e rivalutazioni. Per finire con questa seconda sezione, non posso fare a meno di ribadire il fatto che la guerra, a cui ho accennato prima, appare come un fenomeno spesso indeterminato e inevitabile: un fatto avvenuto al di fuori di intenzioni precise. In realtà, ci sono sempre individui specifici dietro la guerra, individui che ne traggono profitto contestuale, che vendono armi o sono interessati alle risorse di un paese o di altri individui. Questi individui non sono interessati alle persone e al valore della vita. Il riguardo per la nozione di flessibilità (e di relazione) è invece un invito a pensare anche alla guerra come a un fatto – da rifiutare – in cui intrecci concettuali precisi si mettono ‘rigidamente’ in forma, richiamando proprio le nozioni a cui ho accennato di confine, appartenenza, profitto, guadagno, interesse personale.

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Resistere all’imposizione (ph. Stefano Montes)

Resistere all’imposizione capitalista di flessibilità apparente

Passiamo adesso a un terzo contesto d’uso: a Londra, alla panchina da cui ho scattato la foto che mi ha consentito, qualche tempo fa, una prospettiva inusuale su una città che ho molto amato in passato. Ero infatti molto legato a questa città, soprattutto quando ero studente; poi, sempre meno. Sempre più ho fatto di altre città la mia casa. Ho studiato altre discipline, altre lingue, altre situazioni; nel tempo, di fatto, il mio interesse si è spostato altrove. Mi chiedo sempre, tuttora, in ogni caso, da cosa dipende il fascino di una città. Perché sono attratto? In molti casi, per me, deve esistere un particolare richiamo per la lingua. Sì, spesso viene prima la lingua, poi la città: prima mi interrogo sulla lingua, dopo sulla città. Non sempre in questo senso, ma il legame è comunque strettissimo. So bene che l’ideale sarebbe conoscere la lingua e potersi muovere in città senza eccessiva intermediazione, proprio per avere un contatto con gli abitanti del posto. L’ideale sarebbe capire gli abitanti direttamente, nella loro lingua. Mi piacerebbe che fosse sempre così. Ovviamente, non è possibile farlo con tutti i luoghi che si visitano, che io visito. Sarebbe infatti bello potere imparare una lingua con uno schiocco della dita. Purtroppo, non esiste nessun metodo accelerato per poterlo fare: per potere imparare una lingua in pochissimo tempo. Per quanto mi riguarda, pur non conoscendo la lingua del posto, comunque sia, ci deve essere però una corrispondenza tra il piacere della lingua e il piacere della città, tra il piacere della chiacchiera e il piacere del tempo trascorso in giro, senza scopo, a non fare un bel niente.

Così, andando a zonzo per la città, per amarla veramente, io devo in qualche modo sentirmi in prossimità della lingua, anche se non la conosco o ne ho soltanto qualche scarna nozione. Le pratiche urbane mi devono riportare, inoltre, alle pratiche linguistiche e ai connotati antropologici. Questa è pure la ragione – ritenuta misteriosa da molti miei amici – per cui, tra le altre attività, non devono mancarne alcune che sembrano ridondanti in viaggio, che si configurano talvolta come uno spreco di tempo: sedersi a lungo nelle panchine e scattare foto ‘inutili’ dei passanti, cercando di coglierne prossemica e cinesica; sostare nei bar, rimanervi per ore, leggere un libro e ascoltare cosa si dice e si fa; perdersi in città senza direzione, senza indicazioni da seguire, e ritrovarsi in angoli inaspettati, non previsti dalle guide ufficiali. Insomma, sono tutte attività che, in un modo o nell’altro, hanno a che vedere con un uso disinvolto del tempo, non massimizzatore, da parte mia. Più in generale, sono d’accordo con Amin e Thrift, secondo i quali vediamo «ancora le città moderne come la culla di invenzioni e creatività» (Amin, Thrift 2005: 217).

Nel mio caso, le città sono soprattutto un modo inventivo per mettere avanti la forza – sovente trascurata a casa propria, talvolta accentuata in vacanza – dei tempi morti, dello spreco temporale, della non-pianificazione, del piacevole smarrimento. Lo dice bene Benjamin: «Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare» (Benjamin 1973: 9). Questo incipit è noto, abbondantemente citato da urbanisti e specialisti dello spazio. Perché lo riporto allora? A quale fine? Tra l’altro, Benjamin accenna pure, pertinentemente, alla dimensione sonora della conoscenza e alla dimensione temporale: «Ché i nomi delle strade devono suonare all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi e le viuzze interne gli devono scandire senza incertezze, come le gole montane, le ore del giorno» (Benjamin 1973: 9). Per quanto mi riguarda, forse diversamente da Benjamin, perdersi nei giochi linguistici, spazialmente situati, di una città non vuol dire recuperare il tempo perduto o ricercare una qualche scansione temporale del passato che anticipa il futuro. Non sono interessato, in genere, alla scansione delle ore del giorno. Al contrario, io mi perdo – amo perdermi nella città – proprio per non capitalizzare sul tempo, per non controllarlo più, per perderne di vista connessioni già date o imposte rigidamente. Un autore che può aiutare in questo senso – per chiarire meglio – è De Certeau. Facendo riferimento a Augoyard, De Certeau parla di due figure stilistiche centrali per quanto riguarda la pratica spaziale del camminare degli utenti del quotidiano: la sineddoche (parte per il tutto) e l’asindeto (eliminazione delle connessioni). La pratica dello spazio per sineddoche serve a rimandare alla totalità attraverso la parte; la pratica dello spazio per asindeto privilegia invece il frammento e i salti discontinui. Da parte mia, se dovessi rifarmi a questa bella distinzione, direi che, soprattutto in vacanza, ho un mio modo specifico di attualizzarla: non tendo a recuperare la totalità e non tendo a privilegiare il frammento slegandolo dal resto. Più che altro, cerco di liberarmi della totalità e sprofondare nella singolarità dei luoghi (a volte considerati inutili in viaggio); più in particolare, cerco di spezzare la continuità prestabilita (per esempio dalle guide turistiche), affondando nel tempo morto, liberandolo e liberandomi, riaffermando congiunzioni inattese.

La mia porzione di storia di vita contestualizzata in chiave auto-etnografica – situata a partire da panchine e scatti fotografici – potrebbe terminare qui, piacevolmente, senza urti d’ordine sociale. Questo mio breve scritto potrebbe essere considerato una breve riflessione d’ordine contrastivo, attraverso alcune mie specifiche pratiche spaziali, sui vari studiosi che ho menzionato. Ci rifletto a partire da me stesso e, viceversa, richiamo alcuni autori per capire meglio i miei ruoli sociali di individuo in mezzo ad altri individui, di soggetto in connessione con gli spazi segmentati del mondo. In realtà, ci si dovrebbe inoltre chiedere perché alcuni di noi – e non soltanto io dunque – amano i tempi morti, amano ribadirne il valore anche laddove non si dovrebbe in potenza. Augé dedica un capitolo a questa questione nel suo volume, sulla globalizzazione, L’antropologo e il mondo globale; il titolo del capitolo è “Non luoghi e tempi morti”. In sostanza, Augé ricorda bene come i tempi morti siano stati, da sempre, ostacolati dal mondo capitalista perché rappresentano una pausa dal lavoro e dalla produzione inarrestabile. In poche pagine, Augé spiega bene che il tempo morto, inteso come sospensione o pausa da un’attività produttiva, è stato motivo di lotta dal basso, per coloro i quali volevamo affermarlo, proprio perché non veniva riconosciuto dal mondo capitalista tutto teso alla massimizzazione dei profitti e del calcolo. Scrive Augé: «il controllo della produzione passa per quello del tempo, il padronato cerca di riprendere il controllo in materia d’impiego del tempo e, in particolare, di gestione dei tempi morti» (Augé 2014: 83).

Questa riflessione di Augé riporta, naturalmente, ancora di più, ai molti lavori odierni in cui il ‘padronato’ afferma di fare il bene dei lavoratori chiedendo – sembrando concedere loro – flessibilità nei lavori a cottimo. Vale, per tutti, a titolo di esempio, il lavoro – odierno e controverso – dei riders. Più che essere favoriti, io direi invece che i riders – così come tanti altri lavoratori oggi – sono sfruttati, ridotti a una vera impossibilità di fruizione di tempi morti che, invece, si meriterebbero. In sostanza, dietro il paravento della flessibilità apparente, si cela invece un’assenza effettiva di tempi morti e di pause previste e integrate dal punto di vista salariale. E per quanto mi riguarda? Per quanto riguarda il camminare e la fruizione del quotidiano di cui parlavo prima, soprattutto in vacanza? Forse, cercare di riaffermare i tempi morti, a casa e in vacanza, non è altro che un modo, nel mio piccolo, di resistere al (cazzo di) capitalismo. Ne ho altri; se ne avrò voglia, ne parlerò un’altra volta. Ciò che conta ribadire qui, comunque, è il fatto che il tempo non è un aspetto neutrale dell’esistere, ma una dimensione attraverso la quale – nella discretizzazione linguistica e antropologica della quale – si incastrano elementi del sapere e del potere sociale e culturale. E sprecare il tempo è talvolta, come direbbe De Certeau, una tattica di resistenza dal basso: una tattica di resistenza per combattere l’imposizione di flessibilità dall’alto. Più esattamente, «la tattica dipende dal tempo, pronta a ‘cogliere al volo’ possibili vantaggi […] Deve giocare continuamente con gli eventi per trasformarli in occasioni» (De Certeau 2001: 15). Nella logica capitalista, il tempo va invece rigidamente recuperato a vantaggio del ‘padronato’; insomma, per dirla in breve, non devono esistere tempi morti. In sostanza, non ci deve essere spazio per i tempi morti: altrimenti, il profitto verrebbe a diminuire.

Per terminare, quindi, il senso della nozione di flessibilità dipende dai contesti d’uso. Nel modo in cui la intendo io, facendo soprattutto riferimento ai primi due casi da me presi in conto, la flessibilità equivale alla possibilità di potere cambiare piani e programmi da parte del soggetto senza risentirne, magari lasciandosi catturare dal caso e dal fascino del suo intervento. Nel terzo caso da me preso in considerazione, invece, la flessibilità è imposta dall’alto e non corrisponde a una vera flessibilità ma a un vincolo da cui traggono vantaggio pochi eletti, pochi individui con tanto potere nelle loro mani. Per il terzo esempio, io ho utilizzato la foto di Londra – ripresa da una panchina – proprio per sottolineare il fatto che si può pure cambiare prospettiva rispetto al proprio gusto e alle inclinazioni esperite nei confronti di una città che si è amata.

In qualche modo la flessibilità, tenuto conto dei diversi contesti d’uso, può essere accostata alla resilienza. Si potrebbe infatti dire che la resilienza è una flessibilità acquisita nel tempo. Inoltre, per richiamare Mary Douglas, la flessibilità – così come, per molti aspetti, la cedevolezza – segue un orientamento culturale. Si potrebbe mai pensare, per esempio, un’arte marziale della flessibilità o della cedevolezza nata in Occidente come il judo che ha, invece, avuto origine in un Paese come Giappone? Arte marziale e cedevolezza sono generalmente, in Occidente, in netta opposizione. Pensiamo al pugilato. In Giappone, al contrario, esistono arti marziali improntate non tanto al contrattacco e alla rigida opposizione quanto ispirate alla flessibilità e all’armonia con il proprio avversario. Si pensi non soltanto al judo, ma anche all’aikido.

In conclusione, la flessibilità e la cedevolezza vanno contestualizzate al fine di recuperare tutti gli intrecci possibili posti tra vissuto e rappresentazione – nel mio caso, rappresentazione fotografica – così come tra uso e possibile astrazione. Per mia inclinazione, ho preferito lasciare spazio soprattutto al (mio) quotidiano e alle mie esperienze dirette, con mie osservazioni specifiche. È comunque altrettanto importante, sempre in una prospettiva aperta, lavorare sul legame concreto e potenziale instaurato, più in generale, tra flessibilità e riflessività. È ciò che ho inteso fare io, benché in poche pagine, in tre sole sezioni e contesti. Per quanto riguarda la foto, più particolarmente, il suo uso mi ha consentito di ribadire il principio che l’esperienza diretta va comunque passata al setaccio delle sue forme di trasposizione e traduzione in immagini. La foto è un punto di partenza, ma anche un punto di arrivo rispetto alle proprie osservazioni e ricordi.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Riferimenti bibliografici
Amin A., Thrift N., Città. Ripensare la dimensione urbana, trad. di F. Santandrea, Il Mulino, Bologna, 2005 (2002)
Augé M., L’antropologo e il mondo globale, trad. di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano, 2014 (2013)
Benjamin W., Infanzia berlinese, trad. di M. Bertolini Peruzzi, Einaudi, Torino, 1973 (1950)
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Crapanzano V., Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, trad. di M. L. Cascone Tombà, Meltemi, Roma, 1995 (1980)
De Certeau M., L’invenzione del quotidiano, trad. di M. Baccianini, Lavoro, Roma 2001 (1980)
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.

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