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La poesia che scioglie i nodi sul filo di un dialogo tra vivi e morti

 61gwewqqedldi   Sebastiano Burgaretta                                               

L’ultimo romanzo di Paolo Di Stefano, Noi, uscito quest’anno per Bompiani, presenta un ampio spaccato storico-antropologico della società italiana, che va dagli anni della seconda guerra mondiale ai nostri giorni, abbracciando quattro generazioni di uomini. Il titolo, pur partendo il libro da una storia personale e familiare riguardante l’autore, assume una valenza assai più ampia, perché i fatti narrati attraversano i cambiamenti avvenuti in Italia sul piano economico, su quello del costumi e su quello delle relazioni interpersonali fra le varie generazioni che si sono succedute. Per l’autore rappresenta un solido punto di arrivo di un lungo percorso, le cui tappe sono costituite da quasi tutti i suoi libri precedenti, anche quelli che apparentemente ne sembrerebbero distanti. Vi si può leggere una sorta di dolorosa discesa agli inferi o, se si vuole, anche alle madri, grazie alla quale alcune ferite lasciate dalla vita mostrano di sanare, anche se è vero che il dolore, come il rimorso, non si cancella mai del tutto.

La nota che qui si pubblica guarda al romanzo di Di Stefano da un punto di vista appartato e al tempo stesso privilegiato, stante il fatto che l’autore è amico di vecchissima data di Di Stefano e della sua famiglia d’origine e in virtù del fatto che ha potuto seguire la genesi letteraria del romanzo e accompagnarne amichevolmente lo sviluppo.

Si può, senza ombra di dubbio, affermare che il romanzo di Paolo Di Stefano Noi ha radici antiche. Si configura infatti come un lavoro maturato, nel corso degli anni, in una sorta di palinsesto, work in progress, che ha richiesto attenzione continua e sempre nuovi apporti, che ne dessero in modo plausibile le intime ragioni umane e ne individuassero la giusta, esatta collocazione storica e socio-antropologica. È il frutto di un lavoro continuo, si può dire di sempre, l’esito di una fatica non configuratasi in questi ultimi anni ma generatasi e protrattasi sin dal tempo del primo romanzo e rimasta finora senza un totale compimento. Baci da non ripetere (1994), Tutti contenti (2003), Ogni altra vita (2015), persino La parrucchiera di Pizzuta (2017), libro uscito sotto lo pseudonimo Nino Motta, che è il protagonista di Tutti contenti, e lo stesso Giallo d’Avola (2013) con la sparizione di un fratello anche lì come in Noi, sono, a guardare retrospettivamente, gli atti di un’unica ricerca artistico-creativa, e ancor prima umana, che non trovava sosta né soluzione alcuna. Tutti questi lavori erano come dei frammenti di una tormentosa ricerca sempre in itinere, in un insoddisfacente fieri, che, nel corso degli anni e dietro alla maturazione umana ed esistenziale dell’autore, cercavano, più o meno inconsapevolmente, una loro composizione unitaria.

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Avola, 1919 (coll. Comune di Avola)

A parte ogni altra considerazione, c’è da dire che il romanzo si snoda come un fecondo, e forse riparatore, dialogo tra viventi e defunti, dico forse, perché il dolore non è mai del tutto risolto, e la letteratura, quando non è menzogna, solo in parte è terapia. Se si guarda bene alla radice prima di questo romanzo, quella costituita da Baci da non ripetere, si potrebbe affermare che probabilmente, senza la morte del fratello Claudio, Di Stefano non sarebbe diventato lo scrittore che è. Quella tragedia familiare, infatti, segnò la storia della famiglia tutta nella sua complessità ma soprattutto nelle relazioni interpersonali fra i suoi componenti e, per l’autore, anche nel rapporto col fratellino morto.

Ha dovuto scrivere Paolo Di Stefano, ha dovuto farlo, per ragioni intime, strettamente personali, prima ancora che per rispondere ad aspettative e a stimoli provenienti dai familiari, padre e madre innanzitutto. L’invito reiterato della signora Dina, sua madre, che è andata ripetendo con insistenza: Scrivi, Paolo, scrivi. La nostra storia è un romanzo…, ha indotto, infine, una impellenza che ha trovato parallelo e complementare sostegno in un imprevisto, del tutto nuovo sfogo memoriale del padre, Vannuzzo, alla data del 13 ottobre 2012, sei mesi prima che questi morisse: «E parlava parlava parlava finché, improvvisamente, è precipitato nel pianto. Un evento allarmante era veder piangere nostro padre. Strano sentirlo raccontare rarissimo vederlo in lacrime».

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Avola, 1920 ca. (coll. Sebastiano Consiglio)

Noi è la storia di una saga familiare che attraversa quattro generazioni di uomini in un arco di tempo che va dagli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso ai nostri giorni. Il titolo dato al romanzo potrebbe, a una lettura frettolosa, apparire generico e fuorviante, in realtà rappresenta bene la pluralità di voci rivestita dall’io, o meglio dal noi, parlante. È il noi riguardante i singoli familiari, i parenti dei due rami della famiglia, i fratelli dell’autore, il quale scrive sempre noi figli e nostro padre, ma è anche il noi che attiene alla società tutta, a italiani e siciliani investiti da forti trasformazioni epocali, che hanno, a volte drammaticamente, attraversato e pervaso la società dal secondo dopoguerra in poi. Sotto questo profilo Noi è un romanzo che narra bene le fratture generazionali consumatesi tra gli anni Cinquanta e i Settanta del secolo scorso. Il romanzo registra, sì, un drammatico lessico familiare, ma è anche, soprattutto, romanzo storico, in virtù dei riflessi che sulla vita dei singoli componenti della famiglia chiamati in causa hanno avuto gli eventi storici, politici, antropologici e di costume prodottisi nei decenni scorsi.

Microstoria e macrostoria vanno di pari passo, intrecciandosi e rincorrendosi, intime se tenentes in questo lungo romanzo. Che è una grande storia di dolore, che non si risolve ed esaurisce nei singoli personaggi, ma che si trasmette e propaga in tutti i protagonisti e con essi nella società lungo il corso del tempo. È un dolore affrontato e guardato negli occhi in una spietata analisi personale e collettiva. Da un’esperienza di morte e di dolore si va verso un’esperienza di vita, se vogliamo, anche di vitalità, per cui il romanzo familiare diventa, giocoforza, romanzo della collettività coeva. Per questo si può affermare che Noi non è nato oggi, ma che era in nuce nel destino del narratore Di Stefano. Tutti gli altri romanzi convergono verso questa summa costituita da Noi.

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Avola, 1932 (coll. Sebastiano Confalonieri)

È un Noi che riguarda anche il microcosmo di Avola, con la sua cultura antropologica, le sue tradizioni, la sua lingua, e ciò dall’interno di un’altra storia, che si gioca tra micro e macrostoria, quella costituita e rappresentata dalla guerra, dal dopoguerra, dal boom economico, dallo stravolgimento delle abitudini degli italiani, dalla pasoliniana scomparsa delle lucciole, dal fenomeno migratorio, che ha spezzato e/o indebolito o rafforzato il rapporto con la terra d’origine. Quest’ultimo aspetto è uno dei nodi principali di tutto il nesso strutturale del romanzo. Il rapporto viscerale intercorso tra Vannuzzo e Avola non è stato, per forza di cose, lo stesso che i suoi figli hanno vissuto sulla loro pelle di giovani formatisi altrove, per di più in un paese straniero. Il padre dell’io narrante, ammesso che l’io narrante sia uno solo, viveva un naturale rapporto di odio e amore con Avola e con ciò che lo legava a questa città. I figli, che andavano formandosi secondo costumi e abitudini lontane da quelle dell’Isola d’origine, subivano i riflessi e le conseguenze di questo già problematico rapporto ed erano, di fatto, costretti a tornare immancabilmente, da adolescenti e anche da giovani uomini, ad Avola almeno tre volte all’anno: a Pasqua, in estate e a Natale.

E Vannuzzo non capiva, e, se la capiva, non la ammetteva, la contrarietà della nuova generazione, quella dei suoi figli, a questa sua abitudine, che per lui era un’esigenza esistenziale, di primaria importanza. – Picciotti mei..! Sti mê figghji… ca num-monu vèniri ‘n Sicilia..! – chissà quante volte se lo sono sentito dire i suoi figli. E confermo i figli, perché, come ho accennato, nel romanzo non c’è presente e vivo criticamente solo l’autore ma ci sono anche i suoi fratelli, e persino la figlioletta Maria, a interloquire direttamente o indirettamente per bocca dell’io narrante.

Quello con Avola è un rapporto che lo scrittore ha recuperato poi nel tempo a poco a poco, indotto, molto probabilmente anche, dal suo rapporto con la scrittura, che si è rivelata per lui àncora di sopravvivenza esistenziale e di salvezza psicologica oltre che semplicemente umana e culturale. Avola è stata recuperata, riconquistata e fatta propria, ormai, nel volgere degli anni, con foga e insistenza, e forse anche col tardivo rammarico di non aver preso di più, in merito, da Vannuzzo. Chissà quante cose Paolo avrebbe voluto ancora chiedergli, senza l’impedimento dello schermo che ha condizionato per tutta la vita il rapporto dialogico tra padre e figli?!

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Avola, 1940 ca. (coll. Sebastiano Confalonieri)

Ora queste seicento pagine tentano di riparare la falla e recuperare quanto, da parte di tutti, si è lasciato sfuggire. Come si vorrebbe che continuasse il racconto inaspettato del 13 ottobre 2012! Da qui per l’autore l’obbedienza interiore al consiglio reiterato della madre, da qui la ricerca tra le carte e le agende lasciate da Vannuzzo, da qui le ricerche d’archivio, dei giornali e delle riviste dell’epoca, e la lettura contemporanea degli eventi privati e familiari in contemporanea e in parallelo con gli eventi narrati, attraverso le precise e dettagliate notizie le più varie, da quelle sportive a quelle artistiche e canore nell’arco di un sessantennio. Da qui l’inseguimento degli amici di Vannuzzo e di quanti ne possono, in certo qual modo, surrogare, almeno in parte, il ruolo di musa di vita in questo finalmente realizzato recupero di memoria personale, familiare e storica, che fa da sottofondo e da perno strutturale alla saga narrata nel romanzo.

C’è tanta Avola nel romanzo, ci sono tanti avolesi, del passato e del presente. Come non citare Venerina Toscano, con la sua istintiva capacità di affabulazione e con la sua “santa morte”, così definita dal figlio Peppino e da chi era presente al momento del trapasso della donna? Come non citare, ma sarebbero molti di più, gli amici e i colleghi di Vannuzzo, da Peppino Agricola a Ciccino Piccione, da Sebastiano Andolina a Paolo Caruso a Turuzzo Martorana e altri ancora? È questo rapporto recuperato con Avola che forse permette a Paolo Di Stefano di guardare in faccia al dolore, senza più paura né remora alcuna, e così poter iniziare a sciogliere il nodo che si portava dentro. Tutto si è snodato fra due decessi, quello di Claudio, avvenuto il 9 aprile 1967, e quello di Vannuzzo, avvenuto il 24 aprile del 2014. Due decessi che costituiscono i poli del filo conduttore, dell’asse portante del romanzo, perché già prima costituiscono l’asse di una vita personale di un uomo e di un padre pesate gravemente su quella familiare. Si rilegga, a tale proposito, Baci da non ripetere, che fu, e a ragione, il la d’inizio alla scrittura creativa di Paolo Di Stefano.

Solo dopo la chiusura di questo lungo asse di vita è stato possibile cominciare a dipanare in modo risolutivo, totale, e non più parziale, il nodo che Di Stefano si portava dentro. L’asse del romanzo si dispone e si dipana letterariamente e, mi si permetta, poeticamente, sul filo di un dialogo tra vivi e morti, il solo dialogo che può rendere giustizia e dare pace allo spirito inquieto grazie al silenzio di qualcuno, che forse ha già parlato troppo, o meglio, troppo pervasivamente, e alla parola di qualcun altro, che non ha parlato per niente e ora si è conquistato, trovandolo libero e appetibile, il suo campo d’intervento salutare e riequilibratore. Venuto meno l’impositivo Vannuzzo, è avanzato il timido ma sapiente e dolcemente ironico Claudio, con quanto nella sua figura proietta di sé e dei suoi fantasmi l’autore.

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Avola, 1957 (coll. Gaetana Ambrogio)

E qui sta forse il successo della scrittura di Di Stefano in questo lavoro, che si stenta a definire quanto al genere. È romanzo, è biografia, è autobiografia, è lungo e articolato racconto di un’epoca storica filtrata attraverso il setaccio spietato della microstoria? Non saprei come definirlo. A me pare anche una sorta di lustrale discesa gli inferi, dalla quale a uscire bene, a tutto tondo, sono le donne, rappresentate, tranne in qualche caso, in modo esemplare da alcune figure, come, ad esempio, quella di zia ‘Nzula, della già citata Venerina Toscano, di Dina Confalonieri, vestale, quest’ultima, discreta e saggia, che sa sovrintendere alla gestione del nucleo familiare di Vannuzzo, facendo da micaelica bilancia tra i buoni e felici, nel senso etimologico di questo termine, rapporti con la propria famiglia d’origine, quella del maresciallo Paolino Confalonieri, e quelli problematici e difficili, sempre sul filo del rasoio dell’incomprensione e dell’intolleranza, con la famiglia d’origine di Vannuzzo. Gli uomini, invece, risultano, nei casi migliori, tutti imbrattati da chiazze di chiaro-scuro.

Una cosa è certa in questo romanzo, perché essa è evidentissima. Il lavoro è in gran parte opera di poesia, di una poesia generata dalla sofferenza e dal sangue. Ne è segno eclatante il ruolo, di capitale importanza, rivestito da Claudio, la cui presenza vigile, attenta e attiva, ora sorniona, ora divertita, ora ironica e anche impertinente, è poesia essa stessa in sé, nel linguaggio e nello stile con i quali è descritta. Cosa rara simili accorgimenti formali nei testi di narrativa, qui la stessa componente visiva col colore rosso del sangue e con la perfezione estetica della simmetrica composizione al centro della pagina, che di per sé simbolicamente rimanda ad altra superiore perfezione, ne è la diretta, esplicita, eloquente conferma.

A questo dettaglio mi permetto di aggiungere una postilla. A mio avviso, il successo, o meglio, l’esito finale della felice e fortunata composizione delle seicento pagine che compongono il libro dipende proprio dal ruolo affidato alla figura di Claudio, che riesce a convogliare unitariamente, ad armonizzare, a comporre artisticamente bene la struttura globale che diversamente il magma di tanto materiale avrebbe stentato, forse, a trovare e imboccare. Oso un azzardo, affermando che, se fosse possibile separare la prosa “narrativa” stampata in nero e la poesia “narrativa” stampata in rosso, ci accorgeremmo probabilmente che, mentre la poesia “narrativa” stampata in rosso da sola continuerebbe a reggere nella sua autonomia, grazie a una sua interna ragione d’essere e alla sua forma, la prosa “narrativa” invece risulterebbe mutila di una parte che per essa sarebbe essenziale.

Si potrebbe dantescamente dire che cielo e terra, defunti e viventi abbiano saputo collaborare alla riuscita di quest’opera narrativa. E, come succede sempre nella dimensione della poesia, la parola efficace, la parola risolutiva sboccia dal silenzio e dalla capacità di ascolto nel e del silenzio. Si direbbe che, Vannuzzo locuto in vita, nel silenzio in cui, dopo il primo disorientamento, sarà caduto Paolo, ha parlato, infine, Claudio. Pertanto il magma, che magari stava lì a riposare, velatamente tonitruante sotto la superficie esterna, chissà magari in articulo damnationis e pericolo di distruzione, ha preso forma e con essa sostanza, per di più, di poesia.

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Avola, 1950 ca. (coll. Gaetana Ambrogio)

S’è sciolto, così, il nodo del problema scritturale e s’è sciolto, cosa ancora più importante, il nodo complessivo e articolato che l’autore si portava dentro: rapporti totalizzanti e non del tutto risolti o adeguatamente affrontati col padre e col fratello, sensi di colpa, rammarichi, incubi conseguenti e autoanalisi ad essi collegati. Discesa agli inferi, ma anche, forse, odissiaca espiazione di colpe introiettate e ora, infine, tirate fuori e guardate in viso.

Anche se la scrittura è solo in parte terapeutica, non sempre tuttavia essa è menzogna. Lo dimostra questo romanzo con la fiducia, in esso presente, nel ruolo della scrittura e della narrazione. Per questo Paolo Di Stefano ha ubbidito, ha interiormente dovuto ubbidire all’esortazione di Dina Confalonieri, sua madre, unica, direi, storica testimone della produzione del magma memoriale ed esistenziale cui si è accennato: Scrivi, Paolo, scrivi. La nostra storia è un romanzo… E Paolo, in verità, si era già preparato a recepire e fare sua questa esortazione, se è vero, com’è vero, che già nella Parrucchiera di Pizzuta la protagonista, Rosa Lentini, guarda caso attenta filologa come il nostro autore, coltiva un positivo e proficuo rapporto creativo con la signora Evelina, sua madre. Il rapporto tra Evelina e Rosa è una chiara anticipazione di quello che corre fra Dina e l’autore di Noi. Il che, assieme al fatto che lo pseudonimo autorale Nino Motta è tratto dal nome del protagonista di Tutti contenti e all’altro che colloca l’abitazione di Rosa Lentini nella via Catania a pochi metri dalla casa in cui don Giovanni Crucifissu, pervasivo capostipite dell’intera saga, confezionava e vendeva, assistito dalla moglie Mariannina, la ricotta alla gente, conferma, a parte tanti altri aspetti, l’unitarietà della produzione narrativa di Paolo Di Stefano, anche per quei lavori che vogliono timidamente presentarsi con discrezione e senso della misura.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020

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Sebastiano Burgaretta, poeta e studioso di tradizioni popolari, ha collaborato con Antonino Uccello e, come cultore della materia, con la cattedra di Storia delle Tradizioni Popolari dell’Università di Catania. Ha curato varie mostre di argomento etnoantropologico in collaborazione col Museo delle Genti dell’Etna, con la Villa-museo di Nunzio Bruno, con la Casa-museo “A. Uccello”, col Museo teatrale alla Scala di Milano. Ha pubblicato centinaia di saggi e articoli su quotidiani, riviste e raccolte varie. Tra i suoi volumi di saggistica: Api e miele in Sicilia (1982); Avola festaiola (1988); Mattia Di Martino nelle lettere inedite al Pitrè (1992); Festa (1996); Sapienza del fare (1996); Retablo siciliano (1997); Cultura materiale e tradizioni popolari nel Siracusano (2002); Sicilia intima (2007); La memoria e la parola (2008); Non è cosa malcreata (2009); Avola. Note di cultura popolare (2012).

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