Quando si pensa alle Genealogie di Giovanni Boccaccio, un trattato scritto in latino sugli dèi pagani, l’ultimo pensiero del lettore va al ruolo che il Mediterraneo svolge nell’opera e nell’immaginario di Boccaccio. Un recente studio che ho dedicato al mare nelle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, mi ha permesso di riproporre in italiano alcune riflessioni sul ruolo che il Mediterraneo svolge nelle Genealogie [1].
In occasione dell’uscita di questo lavoro, vorrei condividere con il lettore di Dialoghi Mediterranei, una delle pagine più belle che siano state scritte sul ruolo del Mediterraneo come mare-ponte, un mare utile i cui benefici si pongono alle origini della civiltà con l’invenzione dell’imbarcazione.
Boccaccio, con il nome di Giovanni, è il marinaio che dall’Elsa, fiume di Certaldo, e dall’Arno toscano, si mette in mare per mostrare a Ugo, re di Gerusalemme e di Cipro, che le favole degli antichi non sono inutili. Per mostrare la verità della poesia dunque, nella finzione delle Genealogie, Giovanni attraversa il Mediterraneo a bordo di una piccola navicella per raggiungere i siti in cui sono avvenute le invenzioni di cui ci hanno raccontato i poeti dell’antichità, invenzioni che narrano come l’uomo sia uscito dalla caverna e dallo stato ferino. Se la navigazione del poeta-marinaio su una navicella trasmette tutta l’essenza e funzione della poesia che raccoglie di costa in costa, e salva dall’oblio gli sparsi frammenti delle favole antiche, essa celebra anche il mare come specchio dell’industria umana e la poesia che testimonia le meraviglie di cui è capace il suo ingegno.
Boccaccio apre il Libro X descrivendo i benefici di questo mare per l’umanità in una bellissima pagina che elogia l’invenzione della barca e gli effetti della navigazione nel Mediterraneo. Leggiamolo nella bella e commovente traduzione di Vittorio Zaccaria:
«Credettero i più antichi uomini che il mare Mediterraneo, delimitato dai lidi africano, asiatico ed europeo, cospicuo per le moltissime isole, per opera di Ercole, o inclito re, fosse stato immesso dall’oceano tra Abila e Calpe, promontori occidentali, che Pomponio chiama colonne d’Ercole, nelle nostre terre. Da questo fatto – poiché Dio provvede con la sua liberalità alle nostre necessità – grandi vantaggi conseguirono agli uomini. Meravigliosa cosa è guardare, coll’aiuto della luce di Dio, le navi, ideate dall’ingegno e costruite dall’arte dell’uomo, solcare le onde spinte dal soffio dei venti, ora coi remi, ora con le vele spiegate, e portare grandi carichi. E che meraviglia pensare l’ardire di coloro che, per la prima volta, si affidarono al mare sconosciuto e ai venti non ancora provati? Spettacolo che davvero suscita orrore. Grande fu tuttavia per lo più, anche se non sempre, la fede o fortuna di questi audaci che con lunghi viaggi attraversarono il mare, lanciati non solo in corsa, ma in rapido volo; e vennero, carichi di oro e altri metalli, per gli orientali, e di vesti purpuree e di aromi, di pietre preziose e di avorio; per gli occidentali, di uccelli e di balsami, di legni sconosciuti alle nostre selve, di gomme e di altri umori di alberi, di radici non comuni ad ogni suolo, dalle quali derivano innumerevoli medicamenti e rimedi, tanto ai corpi sani, quanto agli ammalati; e – ciò che costituisce non piccolo vantaggio a tutto il genere umano – per queste navigazioni sul mare accade che il Cimbro e il Celta, dal capo opposto del mondo, talora sappiano chi sono gli Arabi, che cosa il mar Rosso, o ciò che trasudano gli alberi dei boschi Sabei; accade che gli abitanti dell’Ircania e della zona del Tanai conoscano quelli dell’Atlante ed occidente, e gustino le mele d’oro delle Esperidi e che l’abitante del freddo settentrione e il Sarmata percorrano la calda Etiopia e il Nilo e il clima insalubre della Libia; e così lo Spagnolo e il Mauro, visitati, visitino la Persia l’India e il Caucaso; e quelli dell’ultima Tule calchino i lidi di Ceylon; e mentre tutti questi si scambiano a vicenda i propri beni, accade che non solo ammirino i costumi le leggi e le abitudini; ma anzi che colui che, mentre guarda l’altro, lo crede di un diverso mondo e crede di non essere circondato con lui dallo stesso oceano, comunichi il credito con scambi di merci, mescolando gli usi, e congiunga amzicizie; e accade che quei popoli, mentre insegnano le loro lingue, imparino anche le straniere; e così che la navigazione congiunga e renda concordi coloro che dalla distanza dei luoghi eran resi estranei. Ci sono inoltre molti altri vantaggi che, se non altrettanto ammirevoli, sono forse più cari per continua utilità. Questo mare offre alle imbarcazioni infinite opportunità per la pesca, per la quale accade che le laute mense dei ricchi si carichino di pesci saporiti e i poveri siano nutriti con le specie più vili. Se inoltre il mare si offre tranquillo, dalle isole fertili sono trasportate da un continente all’ altro pecore, giumenti e grano e tutto quanto è necessario al vitto. Questo mare offre lavacri ai sani e ai malati e col suo sale dà sapore alle cose insipide, e bagna le terre d’ogni parte vicine, e coi suoi meati sotterranei riempie le condotte, dalle quali nascono poi i fonti e i fiumi che, se il mare non li ricevesse, marcirebbero nelle bassure, portando agli uomini grandi pestilenze. A che dire tante cose? Questo straordinario bene di tutti – come finsero gli antichi poeti – toccò, nella divisione fra i tre figli di Saturno, a Nettuno, che ne fu detto il dio» (X Proem.: 1,6).
Tutti i libri delle Genealogie si aprono con Giovanni poeta-marinaio che, novello Ulisse sulla sua navicella, attraversa tutto il Mediterraneo fino a superare quelle colonne d’Ercole dove l’Ulisse dantesco (Inferno XXVI), aveva miseramente naufragato. Il X Libro, l’unico a non inziare con la metafora acquatica della nave del poeta, celebra il mare come uno spazio privilegiato che narra gli sforzi che gli antichi si proponevano per organizzarsi in comunità civili, per acquisire per la prima volta consapevolezza di sé stessi e “dell’altro”, e di altri spazi e razze. «Fa tremare» – scrive Boccaccio – pensare a tutti i benefici derivati dall’invenzione della barca e dai vantaggi della navigazione e a come essa riduca la distanza geografica che aveva reso estranei l’uno all’altro, favorito lo scambio di merci e di rimedi medici, portato “la meraviglia”, i costumi e le leggi dell’altro, la consapevolezza di un “altro” mondo diverso dal proprio, e un’altra lingua, che aveva insegnato a mescolare pratiche, condividere la fiducia attraverso lo scambio di merci e unirsi in amicizie. Celebrando Nettuno, Boccaccio spiega attraverso i suoi discendenti, i Ciclopi, l’artigianato che lega la creatività umana e la laboriosità al mondo marittimo, sostenendo con numerosi esempi, che quasi tutti i modelli delle tecniche sembrano essere derivati dal mare o dall’acqua, e che i prodotti del mare sono atti ad istruire gli ingegni degli artefici, uomini esperti dell’arte (X xvi 3-4).
Sono davvero molte le invenzioni degli antichi, come aveva notato prima di Boccaccio, il Minorita Paolino Veneto, eppure Boccaccio sottolinea quelli che trasmettono sforzi per portare l’umanità fuori dalla natura feroce e selvaggia.
Un esempio è Iarba, ricordato per aver spostato il suo popolo, i Getuli, dalle estreme solitudini e dalle sabbie infuocate dell’Etiopia sul lido d’Africa istruendoli «in molte cose che riguardano il vivere umano» (XI xi, 3). Con la sua opera ha mitigato le loro feroci abitudini «perché attraverso eccellenti istituzioni ha domato i loro modi selvaggi» (XI xi, 4). Boccaccio ha sempre visto pericolose conseguenze dell’isolamento e le ha stigmatizzate nel Decameron nel personaggio di Rustico, il cui nome aveva lo scopo di trasmettere la natura selvaggia di coloro che erano stati allontanati dall’umanità e che conservavano soltanto l’aspetto degli umani (Decameron III, 10). Teorizza sistematicamente ciò nelle Genealogie IV lxvi nella figura di Licaone, re dell’Arcadia, in una storia che illustra le conseguenze dell’avarizia e del furto sul consorzio umano. Secondo Leonzio, Licaone visse aggredendo i viaggiatori e derubandoli nella foresta, dando origine alla favola che fu trasformato in un lupo. Boccaccio sottolinea le connotazioni culturali di questa favola, osservando che quando siamo allontanati dall’umanità, ci vestiamo immediatamente come lupi e preserviamo solo le fattezza umane (IV l xvi, 6).
L’importanza del vivere una vita comunitaria civilizzata è un leitmotiv ricorrente in tutte le Genealogie. Ad un certo punto la costruzione delle città accompagna la celebrazione da parte del poeta dell’utilità della musica per la comunità. Boccaccio narra che Anfione era così esperto nell’arte della musica che, secondo Lattanzio, ricevette la cetra direttamente da Mercurio e con questa costruì le mura di Tebe (si veda anche Seneca, Hercules furens).
Con Mercurio, il poeta trova l’occasione di considerare il valore dell’amicizia per il benessere della vita civile, la fondazione delle città, delle arti e delle professioni e in particolare quella dei commercianti il cui protettore è Mercurio. Infatti, nelle Genealogie (II vii, 10), Mercurio è un negoziatore, mercatorum kyrios, il signore dei commercianti, come Ugo di San Vittore lo descrive, il dio del commercio, degli scambi e dei profitti del commercio (il suo nome latino deriva probabilmente dal termine merx o mercator, commerciante appunto). Boccaccio apprezza il ruolo dei mercanti, poiché la loro mobilità incentiva la produzione e il benessere delle città, e non a caso i mercanti e il loro mondo ravvivano le pagine del Decameron.
Opera erudita, le Genealogie lette in chiave marittima, seguendo il viaggio di Giovanni, ci raccontano la verità della poesia in una maniera poetica e fluida allo stesso tempo, e lo fa in chiave geografica, offrendo una mappa, tappa dopo tappa, degli spazi dove si sono snodate le vicende mitologiche, le stesse che raccontano l’ingegno dell’uomo e la sua capacità di inventare un mondo vivibile a partire dall’invenzione dell’imbarcazione. Con la navigazione, l’uomo ha potuto infatti raggiungere i luoghi più lontani, ricongiungere dunque e riavvicinare culture e popoli diversi, scambiare merci, portare farmaci e salvare vite, pescare e dunque contribuire al nutrimento e sostentamento dell’uomo. Questo così straordinario bene di tutti, con il suo sale non solo offre lavacri ai sani e ai malati scrive Boccaccio, ma dà sapore alle cose insipide e ricorda, nella sua sapidità, le eccellenti conquiste dell’uomo. In tempo di pandemia, l’invito è di specchiarsi in questo mare in cui si riflette l’idea chiave della sostenibilità e dell’industria e generosità umana, la sua capacità di inventarsi un mondo civile all’insegna del rispetto di culture diverse dalla propria, dello scambio solidale e sostenibile, sotto il segno della responsabilità e della compassione.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
[1] R. Morosini, Il mare salato. Il Mediterraneo di Dante, Petrarca e Boccaccio, Viella, 2020; il seguente studio della stessa Morosini è in procinto di essere pubblicato in italiano: “Boccaccio’s Cartography of Poetry or the Geocritical Navigation of the Genealogy of the Pagan Gods,” in Ends of Poetry for California Italian Studies, eds. T. Harrison – G.M. Novi, 8 (2019). https://escholarship.org/uc/ismrg_cisj.
____________________________________________________________________________
Roberta Morosini, Full Professor, Professore Ordinario di Lingue e letterature romanze presso Wake Forest University, ha insegnato Filologia Romanza presso UNIUPO e insegnerà Narrare e leggere il Mediterraneo come Speroni Visiting Professor presso UCLA (autunno 2019). Si occupa di rapporti tra testo e immagine nel Trecento e in particolare dei rapporti cristiani-musulmani nell’ambito di studio pan-mediterraneo.
_______________________________________________________________