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Napoli, il Senegal e l’Islam: un incontro reale?

provacopdinuzzo4di Virginia Napoli [*]

NapolIslam è un documentario di Ernesto Pagano del 2015 che ritraccia la storia di dieci napoletani convertiti alla religione musulmana. La prima volta che l’ho visto vivevo in Senegal già da due anni. Il Senegal è un Paese a maggioranza Islamica, pur essendo costituzionalmente laico, la sua vita pubblica e politica è fortemente influenzata dalla religione. Negli anni vissuti a sud del Sahara ho riscoperto la maniera in cui un culto modella il tessuto sociale e l’immaginario collettivo di praticanti e non praticanti. Pur non essendo credente, il contatto quotidiano con le forme simboliche e le istituzioni della società senegalese mi hanno costretto a fare i conti con la mia educazione cattolica. Mi sono trovata a riflettere su un insieme di credenze radicate nel mio inconscio occidentale, in particolare sulle immagini legate alla dimensione religiosa. Una riflessione profonda è scaturita dall’interazione quotidiana con gli spazi rituali locali, incoraggiata dall’apertura alla condivisione di alcune correnti dell’Islam sufi radicate in Senegal. Su questo sfondo vissuto, il documentario di Ernesto Pagano è stato una sorta di cortocircuito tra emico ed etico: l’idea che quell’alterità, che tanto mi aveva affascinato, lontana dal mio orizzonte domestico, fosse in realtà così presente e viva, radicata nella società che conoscevo, suscitava la mia curiosità ma al contempo aveva un qualcosa di perturbante, mi trasmetteva una nota di disagio di fondo che non riuscivo a identificare. Indagando sul quel disagio mi sono chiesta se la chiave di volta per comprendere ed esorcizzare quell’elemento “perturbante” non fosse una decostruzione delle narrazioni mediatiche e mainstream che nell’ultimo quarto di secolo hanno esasperato una supposta inconciliabilità tra le forme storiche, le strutture sociali occidentali e la pratica religiosa musulmana. Una presunta incompatibilità forse radicata in un immaginario più antico nascosto nell’inconscio di un Occidente che, nei secoli, ha utilizzato l’Islam come elemento dialettico per costruire la propria identità su base oppositiva.

Le mie ricerche sul sufismo senegalese, in anni recenti, mi hanno spinto a considerare la possibilità che il mio primo incontro con l’Islam, che si tratti della “via africana” o di quella napoletana, sia stato viziato da due errori prospettici fondamentali. Il primo sarebbe quello di aver pensato alla religione musulmana in maniera statica, al singolare, senza considerare le varie declinazioni geografiche del culto e le epoche storiche che ha attraversato. Il secondo sarebbe quello di non aver compreso che anche l’Islam, così come il cattolicesimo, è una parte fondamentale della mia storia culturale e personale. In questo processo di “contaminazione” il Senegal è stato il miglior “campo” possibile. Il fatto che l’Islam possa essere “meticcio”, ibrido, e conciliarsi con società profondamente diverse rispetto a quella araba, è un’idea che nell’’Africa a sud del Sahara è stata elaborata e digerita da diversi decenni. Questa zona geografica è stata, prima ancora di Napoli, territorio di elezione e incubazione di incontri e scontri tra realtà apparentemente incompatibili. Alcuni territori del continente nero, già da prima che si parlasse di mondializzazione e «identità fluide transnazionali» (Glick Schiller 1992) sono stati crocevia di scambi, migrazioni e culture in movimento. In Costa d’Avorio o in Senegal ogni cittadino parla almeno due lingue e diversi culti religiosi convivono anche all’interno delle stesse famiglie. Tali dati sono sufficienti a mettere in discussione l’idea diffusa che l’Africa rappresenti il nostro passato: molti elementi che per l’Occidente sono simbolo di una modernizzazione, erano già presenti nelle società decolonizzate da più di un secolo[1]. In questo quadro si inserisce la via africana all’Islam, Islam noir per alcuni[2], che è stata oggetto delle mie ricerche. Sulle tracce di questa realtà complessa che, attraverso flussi e contaminazioni di vario genere, è arrivata fino a Napoli e alla Campania, nascono alcune delle riflessioni che riporto di seguito e che si muovono su due piani: uno di carattere generale, storico e sociologico, e l’altro che riguarda molto più da vicino il mio vissuto personale.

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Dahira di San Nicola La Strada (ph. V. Napoli)

I murid di San Nicola La Strada

Tra il 2017 e il 2019, le mie ricerche sulla religione in Senegal mi hanno condotto in uno dei luoghi dell’Islam campano: la comunità di San Nicola La Strada. Il piccolo centro in provincia di Caserta ospita una delle sedi di un’importante confraternita sufi musulmana dell’Africa subsahariana: la Muridiyya. Nata in Senegal alla fine del XX secolo ad opera del leader religioso Cheikh Amadou Bamba, la Muridiyya viene canonicamente definita come una tariqa sufi[3]. Nel panorama di studi italiano è trattata soprattutto come esempio della profonda commistione tra religione e flussi migratori nell’epoca della globalizzazione, in particolare a partire dagli anni ‘70/’80, periodo in cui l’Europa diventa meta rilevante per i senegalesi. Diverse ragioni socio-economiche sono alla base dell’aumento dei flussi diretti verso il continente in quegli anni: la crisi agricola causata da una severa siccità nell’area saheliana, la crescita costante della popolazione e la saturazione del mercato del lavoro nelle aree urbane del paese (Tall 2009).

Fino agli anni ‘80 l’esodo migratorio proveniente dal Senegal si dirige soprattutto in Francia. Nei trent’anni successivi, con l’inasprirsi delle politiche sull’immigrazione, la scelta dei paesi di destinazione cambia a favore del Sud dell’Europa. Nel corso di un ventennio la presenza senegalese in Italia si triplica: a tutto il 2018 i senegalesi rappresentano la dodicesima comunità per numero di residenti regolari e la prima tra quelle dell’Africa subsahariana (ANPAL – ISTAT 2018). Fino al 2011 la presenza senegalese in Italia è particolarmente importante nella regione Lombardia (42,8% contro l’1,4% in Campania. Fonti ISTAT). Negli ultimi anni si è registrato un incremento della popolazione migrante nel Sud Italia e particolarmente in Campania, Sicilia e Calabria (ISTAT 2018). Dal punto di vista dell’appartenenza etnica, le prime comunità stabilitesi in Francia sono composte per la maggior parte da soninkè e haal pulaar, provenienti dalle zone più colpite dalla siccità. In Italia, invece, vi è una predominanza dei wolof, particolarmente concentrati nelle zone urbane del Senegal e nella regione di Diourbel, luogo d’origine della Muridiyya. L’appartenenza etnica, tuttavia, negli anni ha sempre meno incidenza: la confraternita murid è ormai trasversale rispetto alla provenienza geografica e socio-culturale dei suoi fedeli.

La transnazionalizzazione della Muridiyya ha portato alla creazione di complesse reti di scambio fra la comunità della diaspora e la madrepatria. Organi della confraternita e strutture associative già presenti in Senegal si sono a poco a poco ricreate e adattate alle realtà dei territori. A tutt’oggi, l’interazione tra i migranti e la società di approdo passa per la mediazione delle autorità spirituali e delle strutture semi-formali dislocate e gestite dalle comunità della diaspora. In seno alla Umma islamica, la parabola della Muridiyya, dalla nascita in contesto rurale fino alla costruzione di uno «spazio del sacro transnazionale», rimette in discussione e modifica i presupposti e la gestione della nozione di distanza nella pratica di un culto (Riccio 2006). Le comunità murid reinventano e riadattano al contesto diasporico i propri rituali dando vita a quello che Sophie Bava ha definito un «savoir-faire religieux decentralisé» (Bava 2003). Perno di questo processo sono le dahira, associazioni religiose nate nei territori urbani del Senegal, che si impiantano e si moltiplicano successivamente nei contesti di approdo. In particolare all’estero, la dahira si presenta come «un’organizzazione religiosa che struttura tanto uno spazio di comunione nella fede quanto uno spazio di solidarietà socio-economica» (Lanza 2013). Le dahira, nella diaspora, organizzano le pratiche rituali, le cerimonie murid e gli incontri di preghiera periodici in locali presi in affitto per l’occasione oppure all’interno di strutture appartenenti alla comunità murid.

Tali strutture, riferimento per le attività collettive, sono chiamate Keur Serigne Touba[4], e sono gestite e create da una o più associazioni. La dahira di Caserta, Touba Campania, gestisce la più grande Keur Serigne Touba del sud Italia e fa da riferimento per tutta l’area geografica in occasione di celebrazioni e incontri collettivi. Il nome deriva dalla città di Touba, centro nevralgico della Muridiyya in Senegal e sede di un imponente pellegrinaggio annuale, il Grand Magal [5].

La struttura di San Nicola adibita al culto ed agli incontri è uno di quei luoghi che non ti aspetti di trovare a pochi chilometri da casa. Acquistata nel giugno 2013 grazie ai contributi dei fedeli, è un edificio di tre piani collocato tra l’ingresso del centro abitato e l’autostrada. I muri sono un po’fatiscenti, alcune stanze sono ancora spoglie. L’ampio cortile antistante che ospita la moschea, inaugurata nel 2017, era probabilmente sede di un magazzino o un’officina per le auto. L’intero complesso è una peculiare testimonianza di come il “religioso” modifica il tessuto urbano e le usanze locali. Così come il giorno della preghiera dell’Eid-el-Kebir[6] l’intera Piazza Garibaldi si riempie di fedeli di ogni provenienza, nei giorni delle principali feste musulmane e delle celebrazioni più importanti della confraternita murid, la zona si anima di un via-vai continuo di uomini e donne: la dahira diviene punto focale per scambi economici e spirituali.

Una versione «deterritorializzata»[7] del pellegrinaggio annuale dei murid, il Grand Magal, nel 2018 è stata per me l’occasione di osservare come le pratiche religiose dell’Islam senegalese si incontrano e si fondono con la vita quotidiana di Napoli e della Campania. Mentre in Senegal, milioni di fedeli murid si dirigono in pellegrinaggio a Touba, sede di una delle più grandi moschee dell’Africa subsahariana, ogni comunità della diaspora nel mondo si organizza con una celebrazione in versione locale. In particolare l’aspetto fieristico e “profano” del grande pellegrinaggio trova nuove declinazioni nei territori di approdo. All’entrata del cortile della Keur Serigne Touba di San Nicola La Strada, una serie di bancarelle commerciano oggetti sacri, libri di preghiera ma anche prodotti tipici importati direttamente dal Senegal. I commerci sono più o meno gli stessi che si trovano nel mercato di via Bologna, zona adiacente Piazza Garibaldi. Dai servizi di “navetta”, improvvisati tra Napoli centrale e San Nicola, fino alle abitudini legate ai pasti rituali, l’intero rito si modella su un canovaccio singolare. Nelle cucine da campo allestite per i festeggiamenti un gruppetto di donne scherza con me sul menu del giorno: – «In Senegal nelle feste si mangia carne perché costa di più. Qui è il contrario…anche noi oggi facciamo il pesce. Stiamo diventando napoletani!» – (Diario di campo, San Nicola La Strada 2018). Riporto di seguito uno stralcio della prima intervista ad Assane Wade, uno dei portavoce di questa singolare realtà:

«Touba Campania esiste da 18 anni e non pensavamo di acquistare questa casa [il palazzo in cui ci troviamo, sede dell’associazione] ma poi ci siamo resi conto che ce n’era un gran bisogno. Per le feste eravamo costretti a fittare ogni volta dei locali. Il problema era la spesa e il fatto che non ci trovavamo con gli orari: lo sai che in Senegal abbiamo tempi lunghi [ride] e dovevamo preoccuparci di finire per gli orari di chiusura. [...] Prima di avere questa sede facevano le feste nei locali di fronte alla CGIL a Napoli…molte persone vengono da Napoli per le attività, anche io lavoro lì. Da quando abbiamo la sede le attività sono qui. Ci sono dei guardiani e dei ragazzi che se ne occupano e spesso ci dormono. Se qualcuno appena arrivato ha necessità può passare la notte da noi… massimo per tre giorni [...] Questo posto ci è sembrato ideale perché è spazioso e isolato. Sai che durante le feste si cucina, ci sono i thiant [8] e la musica e non vogliamo dare fastidio [...] Dahira vuol dire “associazione”. Abbiamo circa 500 membri che pagano la loro quota che è di 100 euro all’anno e circa 300 persone che gravitano intorno all’associazione ma non pagano l’iscrizione. Prima la quota era di 265 euro all’anno. Abbiamo deciso di abbassarla per far partecipare più persone. Sai con la crisi le persone non ce la fanno […] A volte vengono in visita qui anche i membri delle altre dahira campane o italiane. I presidenti delle dahira vengono a visitarci. Quando ci sono avvenimenti importanti invitiamo anche le autorità. Il vescovo verrà all’inaugurazione della moschea il 19. Il sindaco di San Nicola è stato invitato. [...] Il nostro comitato direttivo è composto da circa 25 persone. Io sono tesoriere e portavoce dell’associazione. Anche le donne partecipano. Hanno la loro associazione, Maam Diara si chiama. Si riuniscono e discutono delle loro cose. A volte coinvolgono anche noi uomini. A volte partecipiamo ai loro incontri per consigliare e discutere con loro» (Assane Wade, intervista, San Nicola La Strada 2017).
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Visita di Serigne Maam More Mbacké a San Nicola La Strada (ph. V. Napoli)

Esiste davvero un “modello di integrazione napoletano”?

A prima vista, la comunità murid di Napoli e Caserta sembra essere un esempio calzante di quel modello di integrazione “mediterraneo” di cui Annalisa Di Nuzzo parla in più luoghi del suo contributo. Un modello che tuttavia non è privo di un “lato oscuro” che si gioca sul crinale di rispecchiamenti e immagini distorte del “proprio” e dell’“alieno” da parte della comunità e delle società di approdo. Dietro la narrazione lineare e, in un certo senso rassicurante, di Assane e dei discorsi tra il serio e il faceto nelle cucine della dahira, vi sono in realtà alcune crepe e retroscena che traspaiono da altri tipi di interviste e altri vissuti sul campo. Parole dette e non dette, questioni accennate ma non esplicitate dipingono una realtà dei fatti molto complessa e, talvolta, contraddittoria. Come nota Bruno Riccio a proposito dei migranti senegalesi in Italia, «la religion est un critère de référence pour la construction de l’identité mais aussi pour le processus de représentation de l’autre » (Riccio 2006). La funzione di appiglio identitario e psicologico è cruciale nel caso dell’associazione di Caserta per molti membri della diaspora campana. Tale funzione è supportata dalle visite periodiche delle guide religiose senegalesi, i cosiddetti cheick itineranti (Bava 2003), il più famoso dei quali è Serigne Maam Mor Mbacké di passaggio a San Nicola nel giugno 2017. Il sermone, pronunciato in quell’occasione di fronte ad una nutrita assemblea nel cortile della sede della dahira, richiamava alla necessità di seguire l’esempio dalle prime generazioni di migranti: non prendere “abitudini occidentali”, dedicarsi al lavoro, non perdere la propria identità murid e musulmana pur rispettando il contesto circostante. Il discorso sull’identità ritorna spesso anche nelle parole dei singoli che frequentano la dahira.

«Quando vieni qui [alla dahira] non hai sempre un sostegno economico ma trovi un sostegno morale…persone come te che possono darti consigli e aiutarti. Noi siamo qui come ambasciatori dell’opera di Cheikh Amadou Bamba. Dobbiamo far capire agli italiani, ai francesi, a tutti quelli che ci osservano, che […] quando il profeta Mohammed è andato a Medina, cristiani, musulmani, ebrei vivevano insieme e in pace. Noi murid in Europa vogliamo mostrare che l’Islam non è violento. Se un murid abita in un palazzo anche per vent’anni, non sentirai mai niente di male su di lui, lo rispetteranno. I bambini del mio vicino mi chiamano zio e io ho insegnato ai miei figli il rispetto. Ho insegnato a chiamare zio tutte le persone più anziane che sono nel palazzo. Ai miei figli ho insegnato chi è Cheikh Amadou Bamba e ho fatto capire l’importanza di comportarsi bene. L’Islam può ripartire in Europa ma in maniera diversa. Tutti quelli che sono venuti qui […] hanno sbagliato. Hanno pensato che potessero insegnare cosa è il vero Islam. Hanno pensato di essere meglio degli altri» (Intervista, San Nicola la Strada 2017).

Nel corso delle mie ricerche in Senegal e in Italia, la preoccupazione di “legittimare” il proprio credo ai miei occhi di occidentale non musulmano e il riferimento alla percezione dell’Islam degli europei e degli italiani sono gli stilemi costanti di molte interviste. Il racconto dell’integrazione vissuta nei territori di approdo in maniera lineare e spontanea, fatto su misura per giornalisti o ricercatori di turno, è emblema di un fenomeno che, in altri luoghi e contesti, Valerio Petrarca definisce come una «falsa coscienza complementare». Secondo Petrarca si tratterebbe di un atteggiamento che interessa la comunità migrante e quella ospitante in un territorio condiviso che «obbliga entrambe le parti a mentire, almeno un po’, proprio nei confronti della società di provenienza e di appartenenza, per adeguare il senso delle loro azioni ai valori culturali di cui restano portatori» (Petrarca 2016: 7). Nel nostro caso la narrazione si gioca introno alla religione musulmana.

Un disagio di fondo tangibile seppure non dichiarato, nel quadro di questo “Islam vissuto”, trova inoltre espressione nell’accettazione (o non accettazione) sociale degli italiani convertiti. Nelle mie visite alla dahira ne ho incontrati diversi. Riporto qui di seguito la testimonianza di una giovane donna, che chiameremo Miriam, intervistata durante una celebrazione a San Nicola La Strada:

«Da quando ho scelto di convertirmi ho incontrato enormi difficoltà nel far capire a chi mi sta intorno…Non mi sento in obbligo di spiegare ma a volte familiari, amici…mi costringono! Pensano che io abbia rinunciato alle mie origini, alla mia identità. Non riescono a capire come sia possibile che io mi senta una donna italiana del sud e al contempo musulmana» (Intervista, San Nicola La Strada 2018).
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Cucina da campo a San Nicola La Strada (ph. V. Napoli)

L’incontro con queste donne e uomini mi ha spinto a riflettere anche sul mio vissuto personale: da quando nel 2018 ho scelto come compagno di vita un uomo musulmano e murid mi sono trovata spesso a dover, in qualche modo, rispondere alle aspettative sociali o alla curiosità di chi mi circonda. Negli anni ho notato che molte delle persone intorno a noi sono convinte che, più che la sua identità in quanto africano e senegalese, il suo credo musulmano sia un fattore che pervade ogni aspetto della nostra vita in comune. Paradossalmente le conversazioni sulla religione e sulla possibilità di conciliare le nostre diverse visioni del reale con l’educazione dei figli e la vita matrimoniale sono molto più frequenti con gli estranei che tra di noi. Indirettamente anche io, come Assane, come Miriam e tanti altri, provo una sorta di disagio. Ho l’impressione che la religione di mio marito sia considerata un tratto determinante a tal punto che le altre componenti della sua identità, e della nostra in quanto coppia e unità sociale, vengono messe in secondo piano. L’approccio di chi interviene rispetto alla questione della religione e le opinioni del nostro entourage, nella maggior parte dei casi, non sono respingenti o negativi. Al limite sono animati da una sincera, per quanto a volte invadente, curiosità. Nonostante ciò, l’attitudine percepita nell’ambiente circostante, negli anni, ci ha reso piuttosto diffidenti, nostro malgrado, rispetto alla condivisione delle esperienze personali e della nostra spiritualità con gli altri. Il sospetto di una delegittimazione della fede di mio marito o della genuinità del nostro rapporto è sempre dietro l’angolo. Espressioni come: «lui è diverso, è un musulmano “moderato”» fino a: «vedrai che dopo il matrimonio cambierà, sarai obbligata a mettere il velo», sono state purtroppo molto frequenti nei primi anni del nostro soggiorno in Italia. Proprio ricordando il mio spaesamento la prima volta che ho sentito parlare dei musulmani napoletani, mi sono resa conto che il problema ha radici ben più profonde e trasversali rispetto all’esperienza individuale. Si tratti di ragioni politiche, sociali o storiche, lo stesso sospetto di delegittimazione delle proprie scelte di vita è un comune denominatore che interessa la quasi totalità delle persone che ho intervistato. Pur riconoscendo il forte peso che la decisione di convertirsi ha avuto sulla propria idea del “sé”, gli uomini e le donne incontrati tra Napoli e Caserta non sempre si sono mostrati entusiasti della possibilità di parlare di un “Islam napoletano”. Riporto qui di seguito una testimonianza abbastanza esemplare di un convertito napoletano rispetto al documentario di Pagano:

«Quello che davvero non mi piace è una sorta di folklorizzazione delle conversioni che fa NapolIslam. Mi pare una versione in salsa musulmana di pizza, mandolino e Vesuvio. Io mi sono convertito dopo anni di studio e un processo di introspezione molto profondo…visto nel documentario tutto questo mi sembra banalizzato…» (Intervista, Napoli 2017).

In realtà il regista, in particolare nel testo che segue l’uscita del documentario, dimostra una certa consapevolezza rispetto ai rischi connessi alla sua opera:

«L’interesse che il mio documentario NapolIslam ha suscitato si è basato, almeno in parte, su un equivoco. Vedere dei musulmani che parlavano napoletano è stato immediatamente interpretato come un esempio di successo della “via napoletana” all’integrazione […] In realtà quando ho messo mano al progetto […] la mia ambizione era molto più banale: raccontare i musulmani per quello che sono, uomini e donne» (Pagano 2016: 214).

napolislam-100x140_palmaNel corso delle interviste mi sono spesso chiesta se questa sorta di ostilità non fosse influenzata, al di là delle intenzioni dell’autore, dal contesto entro il quale alcune di queste persone si trovano a vivere la propria fede e le proprie scelte. Il sospetto declassamento del fenomeno ad una manifestazione del folklore è forse lo specchio generalizzato di quel disagio legato alla mutua ma continua richiesta sociale di giustificare una scelta personale? Una sorta di disappunto, se non di rabbia, nel sentir parlare di integrazione “alla napoletana” è legittima in chi vive ogni giorno lo stigma e il pregiudizio. Le parole di Miriam sono esemplari rispetto alla difficoltà e diffidenza che tutt’ora esiste all’interno della nostra società rispetto alle identità multiple che nella contemporaneità attingono a registri che abitualmente non sono nello stesso insieme. La questione del religioso diviene una tematica trasversale che fa precipitare e catalizza le peculiarità di una società non sempre pronta a riconoscere il cambiamento, a prendere atto del fatto che l’immagine che ha di sé e la realtà dei fatti sono profondamente disgiunte. Chi è allora “l’altro” che secondo il già citato Riccio viene percepito sulla base di una costruzione dialettica che, nel caso dei musulmani senegalesi, è improntata ai dettami della religione?

Nello stesso anno in cui viene presentato il documentario NapolIslam, Luisa Ciffolilli scrive sull’Internazionale:

«Non esistono solo musulmani moderati contro musulmani fondamentalisti. Esistono musulmani e musulmane laici, in conflitto o in accordo con i loro governi o le loro famiglie, praticanti, non praticanti e certo anche musulmani intransigenti, fondamentalisti. […] È un discorso, questo, che li avvicina, che assottiglia le differenze, ce li fa sentire fratelli e sorelle, capaci di fallire ma anche di vivere dignitosamente e in pace. Non funziona per alimentare il rancore, l’odio e la vendetta. Continuare a parlare solo di musulmani moderati e musulmani terroristi presuppone che l’Islam sia, tranne rare eccezioni, una religione terribile fatta solo di uomini barbuti e armati, di donne velate e sottomesse, di stragi di bambini e sentenze inappellabili. E le eccezioni sarebbero i moderati, cioè quelli un po’ meno violenti, quelli con cui si può parlare con un certo timore ma senza essere sparati, quelli che cercano di adeguarsi alle nostre regole democratiche senza controbattere troppo. Come dire che tutti gli italiani e le italiane che negli anni Settanta non erano nelle brigate rosse erano italiani moderati» (Internazionale, 10 gennaio 2015).

Parlando di Islam nell’Italia contemporanea, il vissuto individuale si incontra con un errore prospettico generale: l’idea che le persone e le religioni abbiano delle identità fisse e monolitiche. In diversi parti del testo omonimo che accompagna il suo documentario Ernesto Pagano parla dell’Islam come di una realtà complessa i cui «livelli di lettura sono molteplici e spesso contrastanti ma il protocollo di adesione uniforme: cinque preghiere, la zakat, il digiuno durante il Ramadan» (Pagano 2016: 212). Ma la realtà dei fatti è davvero così lineare? Oltre a dover tenere in conto, come fa notare la Ciffolilli, le peculiarità delle singole realtà individuali, dal punto di vista storico, più che di Islam al singolare, dovremmo parlare al plurale degli islamismi e delle interpretazioni che hanno spinto alcune correnti a mettere in discussione lo stesso “protocollo di adesione” di cui ci parla Pagano. Il corpo dottrinale musulmano, la Chari ‘a, è molto meno compatto e uniforme rispetto alla percezione che ne ha l’Occidente.

«Al Qu’ran, comme parole de Dieu révélée au Prophète Muhammad est considéré comme un code de conduite religieux, moral et social pour tout musulman. […] Face à l’évolution historique et politique des communautés musulmanes et à l’obligation de répondre à leurs nouvelles interrogations, les ‘Ulama, savants de la Loi, ont du recourir à la Sunna comme deuxième source de la Loi. […] L’ijtihad, comme effort de réflexion et interprétation, a permis, au cours de siècles, de discuter de (re)construire et de renforcer le discours musulman, en permettant […] de recourir à une certaine flexibilité face aux coutumes locales» (Sow 2005: 287).

L’Islam, sin dalle sue origini, porta con sé la necessità di un adattamento storico e sociologico di un sostrato che, lungi dall’essere immutabile, è strutturalmente duttile. Alla fine degli anni ‘60 Clifford Geertz pubblica un saggio che in italiano è stato tradotto con il titolo di Islam. Analisi socio-culturale dello sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia. Nelle premesse teoriche Geertz distingue fra un’attitudine religiosa verso l’esperienza e i tipi di apparati sociali che sostengono tale atteggiamento del singolo. Secondo l’autore le metafore e le immagini della vita dei seguaci di una religione vanno separate, in una fase analitica, dal corso storico di un credo che poggia su istituzioni concrete che incarnano quelle immagini e le rendono accessibili. Il nucleo intenzionale di significato del messaggio religioso può concretizzarsi in forme a volte antipodiche nel momento in cui entra in contatto nel concreto con realtà storiche e culturali diverse. L’autore prende a modello il corso storico del culto in due Paesi che sebbene «entrambi rivolti verso la Mecca [sono] agli antipodi del mondo musulmano, si incurvano in direzioni opposte». Il Marocco e l’Indonesia divengono esempi paradigmatici delle infinite possibilità di declinare un sistema religioso. Nei Paesi in cui è praticato l’Islam, le forme di adattamento della pratica sono la risultante dalla convergenza tra istanze differenti e peculiari ad ogni società: le forme politiche, le strutture simboliche, i modelli sociali danno vita ad un unicum all’interno di un popolo, di un paese, di una communitas (Geertz 1968). Ma cosa succede se il nucleo intenzionale originario è apparentemente incompatibile con la società in cui si impianta? Nell’analisi di Geertz, il rigorismo dell’Islam marocchino e, all’opposto, l’approccio pragmatico e gradualista dell’Indonesia, hanno come risultato un’eterogeneità tale da spingere a chiedersi se la religione musulmana non sia inscindibile dalla società e dal contesto storico in cui nasce.

L’eterogeneità che risulta da questi differenti islamismi è ben messa in luce dall’autore che è consapevole delle spinte centrifughe che rischiano di stravolgere la coerenza interna del “sistema religioso”. In buona sostanza potremmo domandarci se l’Islam meticcio sia ancora Islam. Geertz ci parla di adattamento comunitario dell’Islam in un periodo in cui sono fortemente presenti nella ricerca quelle che Olivier de Sardan definisce «sovra-rappresentazioni dei fenomeni sociali», ossia delle riduzioni di alcuni fenomeni sociologici ad una lettura che riconduce ogni elemento ad un nucleo ideologico di base (Olivier de Sardan 2008). Nella «modernità in polvere» di oggi che Appadurai descrive come un sistema di flussi in movimento entro il quale sono fortemente in crisi gli oggetti culturali statici come lo Stato, la nazione e le istituzioni (Appadurai 2001), le conversioni e la religione vissuta diventano anch’esse una questione individuale della quale esistono tante forme di adattamento quanti sono gli individui coinvolti. La novità del fenomeno in alcune zone geografiche e contesti sociali è proporzionale alla difficoltà di inquadrare da parte degli studiosi queste nuove forme di pratica religiosa in maniera inclusiva e organica. Il risultato di questo processo è un Islam vissuto inedito come quello raccontato da Annalisa di Nuzzo, figlio di incontri e scontri che si snodano al crocevia tra la storia mondiale e la miriade di micro-storie individuali che emergono dall’incontro etnografico. Storie di vita che testimoniano nuove e inaspettate identità del popolo napoletano.

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La moschea di Touba (ph. Luigi Zullino)

Nuove identità o vecchie storie?

Alcuni autori hanno individuato in una comune matrice ellenistica un terreno di incontro possibile tra Islam e cristianesimo. Per quanto suggestiva e pregnante tale idea potrebbe presiedere ad un ulteriore equivoco: alcune interpretazioni dell’Islam arabo conservano della cultura ellenistica modalità epistemologiche peculiari che si traducono in concezioni “magiche” della realtà. Tali aspetti sono stati esclusi dal paradigma scientista e su tale rigetto si fonda la concezione del reale dell’Occidente. Una serie di pratiche fortemente radicate nella società d’origine della religione musulmana ne influenzano l’articolazione anche nelle elaborazioni successive. Scrive a tal proposito Hames:

«Une bonne partie de ce qui deviendra magie Islamique se trouve déjà là, au point de départ. En effet, l’Islam démarre en Arabie et incorpore, dès le Coran, dès les faits, gestes et paroles du Prophète, l’incantation thérapeutique (ruqiya), l’imprécation (licân), le rite de propitiation, de guérison ou d’ensorcellement (sihr), les techniques de divination (fa’l), la croyance en des esprits supérieurs efficaces (jinn), toutes pratiques et croyances qui ont cours dans les sociétés de la péninsule arabique(Fahd 1987)» (Hames 2008: 190).

L’autore riflette in particolare sulle declinazioni del culto musulmano in Africa subsahariana e ipotizza che proprio questa serie di caratteristiche avrebbe permesso all’Islam di trovare in quelle zone geografiche, più che in Occidente, un terreno fertile. Portando tale ragionamento alle sue estreme conseguenze, dunque, la religione musulmana troverebbe un milieu più accogliente nei Sud del mondo, lontano da quella «fortezza Europa» che, secondo l’antropologo napoletano Ernesto de Martino, da Hegel in poi ha fondato la sua stessa condizione di esistenza sull’ antitesi fittizia fra “cultura” e “magia” (de Martino [1948] 2007: 221). Su questa scia è forte la tentazione di postulare l’idea che il micro-cosmo culturale napoletano sia il posto più accogliente, tra le società occidentali, per la visione magica del reale che accompagna la religione musulmana. Seguire questa traccia, tuttavia, significherebbe inerpicarsi su un terreno scivoloso e ambiguo. L’errore, se così si può chiamare, che viene imputato al documentario NapolIslam da diversi praticanti napoletani è la facile equazione che dipinge come direttamente proporzionali la crescita delle conversioni in terra partenopea e una forte presenza di miseria sociale ed intellettuale. L’incontro, a tratti quasi esasperato nel documentario, tra un sostrato di cultura “popolare” e un credo religioso che poco ha a che fare nella mentalità comune con queste zone geografiche si scontra con un contesto già influenzato da precedenti storici e ideologici rispetto all’idea comune della religione musulmana. L’autore sottolinea in più di un’occasione che l’Islam è vissuto come una risposta possibile ai vuoti simbolici in una società sempre più alla ricerca di senso. Tuttavia la “cattiva coscienza” di un’Occidente che accomuna sempre più religione e superstizione instilla il sospetto, negli attori coinvolti, che la “via napoletana” all’Islam venga declassata a fenomeno di costume.

In questo gioco di specchi e riflessi identitari, l’ipotesi che vi sia una correlazione tra la concezione magica del reale e la presenza in crescita dei convertiti alla religione musulmana in terra partenopea è quanto mai sospetto. L’associazione tra pratica dell’Islam e superstizione popolare, il declassamento della fede a folklore sono alcune delle obiezioni che molti degli intervistati hanno mosso all’idea che esista una “via napoletana”. Nella ricerca contemporanea è necessaria una riflessione critica che “prenda sul serio” questo sostrato popolare. In tal senso il contributo di Annalisa Di Nuzzo è un’opera pionieristica nel suo genere: attraverso «l’incontro sul terreno con umanità viventi» (de Martino [1977] 2002: 393) l’autrice coglie le sfaccettature multiple delle nuove identità religiose guardando oltre la narrazione ufficiale. Narrazione che classifica le nuove forme di religiosità, le conversioni in primis, esclusivamente come il risultato di un conflitto o di un vuoto di senso alimentando una sorta di scontento da parte di chi vive l’Islam nel quotidiano e si rifiuta di assurgere a simbolo di una realtà di fatto complessa e contraddittoria come lo sono ogni individuo e ogni società. Una narrazione mediatica che, inoltre, riduce la religione musulmana ad elemento perturbante e incompatibile con l’Occidente e che ha finito per esasperare il discorso sull’Islam e la distinzione tra le questioni teologiche e il loro corso storico. Una narrazione che si discosta dal “modello mediterraneo” di integrazione che, seppure esiste nella realtà dei fatti, non sempre trova voce nella comunicazione istituzionale e nella vita vissuta. Nell’immagine che ha di sé, una parte della popolazione del sud Italia si percepisce sulla base del “modello mitteleuropeo”. Un modello che, in particolare, in relazione alle comunità musulmane, si colloca all’opposto rispetto alla “modernità” di una parte dell’Africa subsahariana citato in apertura: legittima ma al contempo confina nelle maglie di una classificazione tanto precisa quanto claustrofobica chi non fa parte della “comunità”. Lo straniero resta tale a prescindere dai diritti che può esercitare. La costruzione politico-ideologica dello “scontro di civiltà” che ne consegue è stata relativizzata negli ultimi decenni da diversi storici e antropologi, tra i quali Franco Cardini (2010) e Giuliana Boccadamo (1999), che hanno dimostrato storicamente come un metissage e un incontro tra cristianesimo e Islam sia sempre esistito.

abluzioni-prima-della-preghiera-san-nicola

San Nicola La Strada, abluzioni prima della preghiera (ph. V. Napoli)

Un elemento molto importante che la Di Nuzzo mette in luce nella sua opera è il fatto che l’Islam a Napoli, che la stessa autrice ha definito in altro luogo come pluri-etnico e pluri-nazionale (Di Nuzzo 2017), diviene volano di nuove identità ibride, post-moderne. Identità non convenzionali che, secondo l’esperienza di chi scrive, faticano ancora ad emergere nella narrazione istituzionale e nell’immaginario comune. Di questo incontro apparentemente impossibile tra Islam e Occidente, Napoli diviene la cartina tornasole e il simbolo. Nella Napoli contemporanea, così come in altre società post-coloniali, la religione musulmana si fa viatico e baluardo di nuove narrazioni. Narrazioni che, tuttavia, vanno collocate al crocevia tra la realtà dei fatti e le immagini multiple e contraddittorie che il sud Italia ha di sé. Nel suo contributo l’autrice dimostra che mettersi realmente in ascolto di queste identità, per l’etnologo, vuol dire relativizzare alcune delle sue convinzioni sull’interpretazione del reale: l’appartenenza di genere, la tematizzazione della storia propria e altrui, la questione della verità e della menzogna rispetto al discorso religioso, la correlazione tra conflitto e cambiamento. I suoi incontri sul campo possono essere perturbanti, il vissuto etnografico autentico «mette in discussione le memorie culturali dell’osservatore» (de Martino [1977] 2002: 393) introducendo nella narrazione del domestico, della realtà che ci circonda, declinazioni inedite e a volte scomode del modo di vivere la cultura, la cittadinanza, la comunità. Accogliere e descrivere questi fenomeni cercando di preservarne la dignità e la complessità vuol dire mettere in atto quello che Ernesto de Martino definisce un «umanesimo etnografico», un tipo di approccio che «nell’atto del misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio sistema di misura» (de Martino [1977] 2002: 490). Nel caso dell’Islam napoletano, tale presa di coscienza vuol dire prendere sul serio delle commistioni apparentemente incompatibili solo perché in contrasto con le narrazioni abituali, avvicinarsi senza pregiudizio alle realtà ibridate che la Di Nuzzo ci descrive. I convertiti narrati da Pagano, i murid di San Nicola La Strada, il personale vissuto di chi scrive sono la testimonianza di tante declinazioni possibili dell’incontro con l’alterità, la dimostrazione che può esistere legittimamente, anche ciò che sembra contro-intuitivo, attraverso una continua invenzione del quotidiano.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
[*] Per gentile concessione dell’editore Cisu, si pubblica un saggio di Virginia Napoli, estratto dal volume di Annalisa Di Nuzzo, Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio. Etnografie transculturali, con prefazione di Antonino Cusumano, prossimamente in libreria.
Note
[1] L’idea che sia necessario un capovolgimento di prospettiva rispetto alla considerazione dell’Africa subsahariana è stata così argomentata da Valerio Petrarca nel corso della conferenza Noi e gli altri: costruzioni simboliche dell’identità nel mondo antico e moderno a cura della Biblioteca Universitaria di Napoli (27 febbraio 2019).
[2] L’idea che esista un islam noir, una versione edulcorata e “animista” dell’originale arabo, nasce alla fine del XX secolo nelle colonie francesi. Tale costrutto teorico viene criticato dagli intellettuali africani dopo le Indipendenze e reinterpretata sull’onda delle rivendicazioni identitarie, in anni recenti, di nuovi movimenti confessionali panafricanisti (cfr. Samson F., 2012; Roy O., 2002).
[3] Il termine tariqa (pl. turuq) dall’arabo, viene comunemente tradotto come “confraternita” o “setta musulmana”. Si tratta di gruppi informali nati sulla scia delle prime correnti sufi musulmane e formalizzatisi in veri e propri ordini a partire dal XIII secolo (Cfr. Popovic – Veinstein 1995).
[4] Letteralmente “Casa di Serigne Touba” ossia “Casa del marabout di Touba”, altro appellativo utilizzato per Cheikh Amadou Bamba.
[5] Per approfondimenti cfr. Coulon 1999; Bava-Gueye 2001.
[6] Si tratta della cosiddetta Festa del Sacrificio, la ricorrenza più importante nel calendario musulmano che celebra il patto di Abramo con Dio. Nell’Africa Ovest viene chiamata comunemente Tabaski.
[7] Rispetto alla definizione del concetto di «rito deterritorializzato» cfr. Riccio 2007.
[8] Nome che sta ad indicare una tipologia di preghiera, tipicamente murid, che unisce canto e tecniche del corpo coreutiche.
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Sitografia
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Virginia Napoli, laureata in Scienze Filosofiche nel 2012 presso l’Università Federico II di Napoli con una tesi su Ernesto de Martino, la passione per gli studi antropologici si consolida e vira sull’africanistica tra il 2013 e il 2016. Durante questo periodo vive e lavora in Senegal presso l’ONG italiana CPS – Comunità Promozione e Sviluppo – e si avvicina allo studio della storia delle religioni e dell’Islam sufi. Nel 2020 consegue un dottorato di ricerca in Scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Il suo lavoro di ricerca verte sull’Islam nell’Africa Subsahariana e in particolare sulle confraternite sufi in Senegal e nelle comunità della diaspora in Europa.

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