il centro in periferia
di Corradino Seddaiu
I pendoli sono sempre stati oggetti affascinanti; nell’infanzia quando avevo la fortuna di osservarli, venivo rapito da queste forza segreta che ne governava la perpetua oscillazione, ignaro che qualche secolo prima uno scienziato pisano di nome Galileo Galilei, osservando le oscillazioni di una lucerna della cattedrale di Pisa dopo la sua accensione o spegnimento, era arrivato a scoprire fenomeni quali l’isocronismo e la risonanza. Forse segnato dalla fascinazione dei pendoli, la mia vita fino ad oggi è stata costellata da diversi pendolarismi.
Nelle nostre società il pendolarismo è un fenomeno frequente che ha assunto un particolare rilievo socio-economico nelle maggiori agglomerazioni urbane, e nel linguaggio della sociologia e della geografia umana coincide nel duplice spostamento quotidiano, o a diversa cadenza temporale, di persone che si muovono alternativamente dal proprio luogo di residenza al luogo di studio, lavoro o ad altra destinazione. In riferimento Vincenzo Leuzzi, direttore dell’Istituto dei Trasporti della Sapienza precisa: «In teoria chiunque si rechi giornalmente al lavoro o allo studio e torni a casa con orario più o meno fisso può essere definito “pendolare”. In pratica, però, vengono chiamati pendolari solamente coloro che compiono questi spostamenti portandosi fuori del comune di residenza»[1].
Il pendolarismo nel mondo ha avuto grossa diffusione in seguito all’evolversi dei mezzi di trasporto. L’ISTAT valuta che in Italia oltre 26 milioni e mezzo di persone (46,8% della popolazione residente) si spostano quotidianamente dall’alloggio di dimora abituale per raggiungere il luogo di studio (36,9% dei casi) o di lavoro (63,1%). I pendolari si spostano soprattutto all’interno dello stesso comune di residenza (61,9%) e verso altri comuni della stessa provincia (31,0%). Percentuali più basse si riscontrano per i flussi verso comuni appartenenti a un’altra provincia della stessa regione (5,2%) e verso comuni di altre regioni (1,9% compresi gli spostamenti verso l’estero, pari a circa 0,2%).
Emigrare senza radicarsi: storie di lavoratori pendolari dal Sud al Nord del paese è un articolo che affronta i molteplici aspetti del fenomeno analizzandone scientificamente tutte le dinamiche. Oltre ai dati esaustivi, alle curve e alle percentuali che ben ne descrivono la portata, nella mia esperienza la parte più interessante è sempre stata quella delle storie delle persone che non possono essere ridotte a fredde e anonime unità statistiche pur fondamentali nelle analisi dei dati. In questo lavoro, G. Caputo e G. D’Onofrio dell’Università Federico II di Napoli raccolgono una serie di testimonianze di persone che raccontano il pendolarismo da luoghi verso altri luoghi.
Gli autogrill prima dell’alba o la sera tardi sono i non luoghi o luoghi del limine dove le persone raccontano le loro esperienze di pendolari. «Partendo da Napoli, San Nicola Est è il primo autogrill in direzione Roma, a pochi chilometri dall’uscita autostradale Caserta Nord. Un autogrill simile a tanti ma che di domenica sera si trasforma in un vero e proprio crocevia di flussi migratori. Da mezzanotte in poi su un perimetro di cento metri quadri di asfalto si intersecano esistenze diverse»[2].
Nella comunità di Sa Pedra Bianca, così come di quasi tutte le frazioni del comune di Padru (nord est Sardegna) fino agli anni Cinquanta il pendolarismo era sporadico e stagionale. Le prime ondate di spostamenti erano state vere e proprie migrazioni soprattutto verso Francia, Belgio e Germania e non contemplavano ritorni a breve termine. I primi pendolarismi furono principalmente verso Olbia, città costiera a circa 40 km di distanza da percorrere in parte a piedi.
Ancora negli anni ‘50 era necessario percorrere un sentiero di circa 10 km per le campagne, che discendeva dalle colline a circa 600 metri di altitudine sino alla valle detta di Lambidu dove iniziava la strada sterrata che portava verso Padru e dove era situata la fermata della corriera che operava solo due corse giornaliere. Le persone più anziane ricordano bene le difficoltà nel raggiungere Lambidu in inverno, sia per la distanza che significava partire in piena notte spesso con i bambini, per non mancare all’appuntamento della corriera intorno alle 5 del mattino, ma soprattutto per la difficoltà durante le piogge di guadare un torrente privo di ponte. A quanto pare frequenti sono stati i bagni fuori stagione e lo smarrimento di effetti personali e mercanzie varie nel tentativo di attraversarlo. Mia nonna a quasi 95 anni ricordava ancora con rammarico l’episodio nel quale aveva perso il borsellino con i soldi e i documenti.
Gli “autogrill” di quel tempo erano la casa-locanda della signora Maria Rosa a Padru, tappa intermedia del tragitto, che accoglieva tutti con la moka e non cessava mai di versare caffè. L’altra era la locanda Forteleoni, tappa finale nella città di Olbia che, come i moderni autogrill, era un crogiuolo di vite dove le persone provenienti da tutto il nord Sardegna trascorrevano il tempo prima di appuntamenti di lavoro e spesso in attesa di visite mediche, specialmente dentistiche, figura quella del dentista assente nel territorio di Padru.
Si passava il tempo degustando pesce di mare che nell’entroterra difficilmente arrivava. Il piatto tipico era il polpo che veniva accompagnato dal vino di Luras in grandi quantità a tal punto che spesso chi aspettava le visite dal dentista si racconta dimenticasse il motivo del viaggio a causa del potente anestetico rosso servito nella locanda che per qualche tempo era in grado di far di calmare il dolore. Anche in quel periodo storico, il pendolarismo ha favorito nei paesi l’accesso di nuove conoscenze, di nuove merci, di nuovi rapporti che hanno contribuito a rompere in parte l’isolamento. Le vecchie locande nelle strade di transito come i moderni autogrill non erano solo rifugi temporanei; al loro interno si incrociavano storie, idee, si siglavano scambi commerciali, si riempivano sacchi di sementi e sacchi di conoscenza che si piantavano al ritorno nei paesi.
Fino a qualche decennio fa i movimenti del pendolarismo erano unidirezionali nella quasi totalità (da sud verso nord, dalla campagna verso la città, dalla periferia verso il centro); oggi, se pur dominanti nel panorama degli spostamenti, non sono più gli unici. Lentamente si assiste a significative inversioni di rotta che dirigono lo sguardo verso sentieri che percorrono la strada a ritroso.
Innovazione in rete
Sono sempre maggiori gli esempi di rivitalizzazione di luoghi grazie all’innovazione portata da ritornanti o da nuovi radicamenti, i quali spesso attraverso nuovi modelli autosostenibili riescono a sfruttare al meglio il capitale del territorio. L’inversione dello sguardo per una nuova rappresentazione territoriale dei nostri paesi apre numerose prospettive, nuove idee, nuove modalità di riabitare i luoghi, nuove avanguardie di pionieri che intravedono nel momento della crisi aprirsi lo spazio del possibile, di altre opportunità.
Il ruolo degli innovatori, fondamentale per le comunità, evidenzia da un lato la sempre maggiore tendenza di questi attori a trovare o ritrovare i propri spazi nelle retrovie, spesso alla ricerca di nuove identità, dall’altro mette in luce il fatto che i luoghi dell’innovazione, dell’arte, della cultura non sono più ad esclusivo appannaggio delle grandi città. Grazie alla tecnologia e spesso grazie ai vuoti si creano gli spazi per ripensare nuove forme di socialità, nuove imprese che ripensano il territorio aggiungendo qualcosa senza cancellarne il passato.
Significativa è personalmente l’esperienza di Pigna, borgo della Balagna nel nord della Corsica, e del suo ripopolamento, dove nell’autunno del 2019 davanti ad un caffè fra i vicoli e le botteghe artistiche T. Casalonga, artefice insieme ad altri di questa rinascita confida il suo pensiero: «quando un posto si spopola si creano dei vuoti, ma sono proprio questi vuoti che creano l’opportunità, che creano nuovi spazi e possibilità di fare» [3]. Così negli ultimi anni, scrive G. Dematteis, «questi vuoti sono diventati laboratori di esperienze che non rifiutano i vantaggi della città, ma cercano di associarli a quelli dell’ambiente naturale e socio culturale montano» [4].
Per le aree interne il nuovo pendolarismo, gli abitanti temporanei, i nuovi modi di abitare i luoghi possono diventare una risorsa preziosa per contrastare lo spopolamento. Per sostenere questa nuova fase si rendono necessari nuovi approcci politici e nuove strategie di sviluppo che possano creare nuove reti tra il centro e la periferia, tra città diverse e fra città e campagna. Una rete intelligente, policentrica, che non livella i piani ma promuove attraverso la rete le peculiarità, le specialità dove la diversificazione diventa ricchezza. Facilita il ritorno o l’ingresso al territorio dei nuovi attori locali che agitano le acque stagnanti della comunità indigena o di quello che ne resta, da accompagnare con il potenziamento delle reti di trasporto, sanitarie e tecnologiche. La rete diventa un’alleanza fra luoghi che ne sancisce la complementarietà, una sorta di Manifesto turistico culturale per città, paesi, località turistiche che annoverano fra le peculiarità la vicinanza del territorio ad altri luoghi con le proprie specializzazioni, agevolando flussi di conoscenza, scambi economici, accogliendo villeggianti temporanei, viaggiatori e nuovi abitanti.
Oscillazioni perpetue
Nel 2016, io e Silvia insieme ad alcuni amici sociologi, grafici, biker escursionisti abbiamo dato vita alla associazione Realtà Virtuose e alla pagina facebook che si occupa della divulgazione di buone pratiche fra le numerose realtà virtuose dell’area mediterranea con particolare riguardo per le due isole sorelle, la Sardegna e la Corsica. Da diversi tempo ormai io e Silvia viviamo questo moto pendolare fra Sa Pedra Bianca e Olbia, osservando i vantaggi che l’abitare temporaneamente in più luoghi ti permette, partecipando alla vita comunitaria in maniera post ideologica senza essere contaminati troppo dai conflitti tipici delle comunità spesso chiuse o asfittiche.
Le prime iniziative pubbliche, I sentieri della memoria, miravano a far riscoprire alla popolazione locale e non solo, alcuni sentieri dimenticati che collegavano a villaggi ormai abbandonati. L’obbiettivo era quello di mostrare non tanto il fascino delle rovine, bensì gli effetti dell’abbandono del territorio da parte dell’uomo e del progressivo avanzare della natura e soprattutto evidenziare la trasformazione del paesaggio sonoro. I sentieri percorsi quotidianamente dai carri trainati da buoi o da asini e cavalli, calpestati dalle transumanze, dal vociare dei bambini erano diventati silenziosi. Alcuni oggi vengono qui per sfuggire dal caos cittadino e rilassarsi nella natura, punto di vista ben diverso da quello dei pochissimi contadini o allevatori rimasti che quando vedono qualcuno in questi sentieri sono ben felici di interrompere quel “triste silenzio” della natura che alimenta la loro solitudine.
L’attività nel territorio con appuntamenti come I sentieri della memoria sono per noi uno spazio di libertà, talvolta frainteso con la nostalgia, dove spesso è il fascino dell’abbandono e dei ruderi che colpisce più che le nostre modalità per proporre una nuova narrazione dei luoghi che parte dal passato per raccontare il presente e il futuro auspicabile. Come dice Pietro Clemente, agli attori locali non indigeni del ritorno «il passato si presenta come bricolage di frammenti per una nuova composizione» [5].
Nasce con questa esigenza comunicativa e creativa l’idea di una mappa sonora del territorio, un bricolage di frammenti sonori che, attraverso registrazioni professionali, potesse preservare il paesaggio sonoro odierno (botteghe artigiane, piccoli allevamenti, lavorazioni della pietra ma anche registrazioni di balli, feste religiose e laiche, e soprattutto i suoni delle antiche e nuove fonti d’acqua), e catturarne le trasformazioni rendendo disponibili in rete la mappa e i suoni per fini artistici (composizioni musicali) e anche turistici nonché per favorire la riscoperta dei territori.
Luoghi post covid
Con la pandemia da Sars-Cov-2, le attività di Realtà Virtuose si sono fermate come tante altre e contemporaneamente abbiamo vissuto nuove situazioni, alcune auspicate altre meno. Anche nelle nostre famiglie la pandemia ha portato dei cambiamenti.
I miei genitori pur avendo vissuto sempre in città, prima a Sassari e poi ad Olbia, hanno preferito trasferirsi a Sa Pedra Bianca in una casa più piccola ma confortevole. Abituati alla vita in città, soprattutto mio padre lamenta la mancanza della colazione al bar, di cui Sa Pedra Bianca è privo, come momento di convivialità; mia madre si rammarica invece del clima più freddo al quale dice di non essere più abituata e soprattutto della lontananza dei suoi nipotini gemelli, ma oggi pur con tante difficoltà grazie alla tecnologia è riuscita in parte a surrogare queste esigenze di vita, con il vantaggio di poter stare all’aria aperta in tempi di confinamento, coltivando l’orto e godendo di una sicurezza sanitaria migliore nei confronti del virus.
I piccoli paesi sono stati meno colpiti dal distanziamento sociale che in molti casi era già la normalità. La qualità della vita, la possibilità di camminare in campagna, di coltivare l’orto sono sicuramente alcuni tasselli che nel futuro prossimo permetteranno ancor più l’arrivo di nuovi abitanti e con loro di nuovi processi di rivitalizzazione. Nuovi abitanti che attraverso il processo del pendolarismo diventano i nuovi locali non indigeni, di molteplici comunità o di una comunità molteplice. Chi sono i nuovi abitanti? Sono pensionati, artigiani, coltivatori part-time, persone in fuga dall’urbe che ritornano per feste religiose e sagre, pendolari che portano un flusso di denaro vitale per l’economia locale, persone che contribuiscono alla stratificazione sociale del luogo che consente ai sociologi di parlare di gentrificazione. Sono persone che promuovono nuove esperienze dell’abitare i luoghi, sono la linfa che ne riattiva saperi e conoscenze proiettandole nella visione di un altro mondo possibile, che guarda a culture d’avanguardia e che investe in capitale culturale e turismo di qualità, sono nuovi locali che attuano un ritorno non nostalgico ma dove i saperi di ieri diventano le basi per quel buen vivir non monetizzabile.
Questo nuovo pendolarismo dà origine a nuove comunità radicate ma mobili; «i soggetti protagonisti non sono i nativi ma sono i locali» [6]. Se è vero che dalle crisi nascono le opportunità questo momento storico offre numerose possibilità. «I momenti di crisi, di trasformazione, di cambiamento come occasioni per riarticolare e ridisegnare l’esistente, attraverso l’utilizzo di nuove lenti e di nuovi sguardi»[7].
Anche i mass media un tempo sordi o afoni si accorgono di queste inversioni di sguardi. Trasmissioni televisive sempre in quantità maggiore puntano il focus sulle retrovie. Nelle ultime puntate del 2020 del programma televisivo “Che ci faccio qui” su Rai tre, Domenico Iannacone in compagnia del paesologo Franco Arminio diventa pendolare fra numerosi paesi colpiti dall’abbandono, oscillando fino al suo paese natale Torella del Sannio in Molise, dove invita Arminio a visitare la sua dimora che vuole chiamare Itaca come a segnare un nuovo ritorno. Fra le bellissime immagini della spietata evidenza dei vuoti e degli abbandoni, si riesce comunque a scorgere una speranza, una promessa come la chiama Arminio. Avere reso visibili quelle terre, aver rivolto verso loro gli sguardi permette di scorgere un barlume di speranza, come un alito di vita sotto la cenere. I pendolarismi, i nuovi locali possono portare gente nuova. Come dice Arminio, «ci vuole una comunità ruscello non una comunità pozzanghera, occorre agitare le acque»[8].
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note
[1] V. Leuzzi, in I trasporti in Italia, Italy. Parlamento. Camera dei deputati. Segretariato generale, ed. Ambiente e informatica: problemi nuovi della società contemporanea. Vol. 16. Servizio studi, legislazione e inchieste parlamentari, 1974.
[2] G. Caputo-G. D’Onofrio, Migrations without roots: long distance commuters from South to North, in “Sociologia del lavoro”, gennaio 2011.
[3] Intervista associazione Realtà Vituose, Pigna, Ottobre 2019.
[4] G. De Matteis in Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli Roma, 2018: 289.
[5] P. Clemente in Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, 2018: 376.
[6] Ivi: 370.
[7] A. De Rossi in Riabitare l’Italia: Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, 2018: 5.
[8] F. Arminio e D. Iannacone, Che ci faccio qui, Da casa tua a casa mia, Rai Tre.
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Corradino Seddaiu, laureato in Sociologia a La Sapienza di Roma con una tesi dal titolo “Paesaggi culturali. L’esempio dei Saltos de Joss nella Sardegna nord orientale”, è Presidente dell’Associazione culturale Realtà Virtuose, che opera nel nord Sardegna, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo e la valorizzazione dei piccoli borghi con un’attenzione particolare alle tematiche ambientali e sociali locali orientate verso il cambiamento dei paradigmi in agricoltura e nel turismo. Attualmente collabora con sociologi della musica e tecnici del suono per la realizzazione di una mappa sonora dei territori (fiumi, risorgive, borghi abbandonati, chiese, botteghe artigiane) al fine di creare un archivio sonoro a disposizione della collettività e di artisti che ne vogliano rielaborare i suoni e i rumori dando vita a musica e forme d’arte.
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