dialoghi sul negazionismo
di Aldo Aledda
Dovrebbe essere pacifico che la negazione di un qualcosa deriva in genere dalla sua affermazione. Mentre può esistere una affermazione fine a se stessa altrettanto non si può dire della negazione, che dipende sempre dalla prima. Analogamente si dovrebbe sostenere che anche il loro derivato, il negazionismo, a rigore di logica dovrebbe dipendere da un affermazionismo o un affermativismo, come dir si voglia. Ma i rapporti in questo secondo caso appaiono storicamente più complessi.
Il più celebre negazionismo è quello che ha attraversato la civiltà occidentale con l’avvento del Cristianesimo: la negazione dell’esistenza di Dio. Se prendiamo in considerazione l’epoca medievale, quando il paganesimo era totalmente estirpato e la stessa società si poteva definire finalmente “cristiana”, vediamo come questo fenomeno più che all’indimostrabilità scientifica e alla difficoltà di provare anche in sede filosofica l’esistenza di Dio, si legasse maggiormente a ragioni politiche (Giordano Bruno docet). Decisivo fu che il potere spirituale, pari o superiore a quello temporale, che dal primo traeva legittimazione, realizzò la sacralizzazione forzata della società, con tutto il seguito di conflitti, guerre e persecuzioni e il suo stretto controllo di istituzioni quali l’Inquisizione, l’Indice dei libri proibiti, ecc.
Una volta giunto a maturazione il processo di laicizzazione della società agli albori dell’epoca moderna, già con l’avvento dell’Illuminismo, la negazione dell’esistenza di Dio cominciò a divenire sistemica soprattutto a partire dalle prime forme di scetticismo, che approdarono rapidamente all’ateismo, conoscendo il loro apice nella Rivoluzione francese. L’ultima scossa alla teocrazia fu inferta dal materialismo marxista che bandì definitivamente dalle sue visioni di società ipotesi di religione e di esistenza di Dio. Quello che è accaduto dopo, con la caduta del potere temporale della Chiesa (che quella moderna non ha mai smesso di ringraziare) e la laicizzazione della società civile e politica, è storia recente e ben conosciuta.
In buona sostanza era accaduto che, per reazione a un eccesso di affermazione, in alcune avanguardie si fossero sviluppati forti sentimenti di negazione, segnatamente anticlericali, su cui poi si innestò l’ateismo militante. La stessa negazione di Dio che era paventata e perseguita come opera del demonio mentre in alcuni creò timore in altri determinò scetticismo divenendo a un certo punto anche oggetto di scherno («Son lo spirito che nega sempre tutto… Voglio il Nulla e del Creato la ruina universal…» è la celebre aria di Mefistofele nell’omonima opera lirica di quel sofisticato e dissacrante intellettuale alla moda che fu Arrigo Boito). Il resto è storia dei nostri giorni: nella società moderna l’opposizione della Chiesa al consumismo, all’edonismo, al sessismo accanto alla difficoltà a riconoscere il ruolo della donna e di alcune libertà individuali quali il divorzio, l’aborto, l’eutanasia, l’omosessualità, ecc. hanno accentuato la distanza di molti segmenti della società dalla religione (e dalle religioni) rendendo molto più arduo il recupero di affermazioni fondamentali da parte della Chiesa cristiana.
Di altro segno è stato l’altro celebre negazionismo del secolo scorso che proietta i suoi effetti anche ai giorni nostri, ossia quello della Shoah. Tuttavia, diversamente dal problema dell’esistenza di Dio, quest’ultimo non si fonda sulla carenza di prove scientifiche, giacché salvo il maldestro tentativo di qualche storico di negare l’esistenza dei campi di sterminio degli ebrei e la loro persecuzione, tutta la materia è abbondantemente provata. Non a caso l’allineamento sulle posizioni negazioniste quando è stato in buona fede è avvenuto da parte di persone intellettualmente insufficienti e culturalmente rozze sulla base di soli pregiudizi razziali o visioni politiche estreme.
Quest’ultimo negazionismo, che ha attraversato come una corrente carsica tutta l’ultima metà del secolo scorso e l’inizio di quello nuovo, ha ripreso fiato di recente saldando alle sue affermazioni tutta una serie di altre di diverso segno, sino a dare vita a quel fenomeno fine a sé stesso su cui stiamo ragionando. Così sul fronte del negazionismo si è schierato chiunque fosse portatore di rivendicazioni attinenti ad alcuni temi del nostro tempo, dal rigetto dei flussi migratori a quello dei cambiamenti climatici e, poi, i tanti altri anti e no di varia natura, molti dei quali d’interesse locale (gilet gialli, anti Tav, no vacs, ecc.).
L’ultimo affluente del negazionismo è stato il Covid 19, la pandemia che è riuscita a mettere in ginocchio il mondo. Anche in questo caso è bene analizzare dapprima il fronte dell’affermazione e poi quello della negazione da cui la prima dipende.
Sul primo versante l’attendibilità scientifica pare ineccepibile, ma è proprio da questa che si è sviluppato il filone del negativismo. Infatti, sul fronte opposto si è tentato senza successo, anche ad altissimi livelli, di attribuire l’origine del fenomeno a una cospirazione internazionale ipotizzando la creazione del virus in laboratorio. Da lì è nato il negativismo più celebre dei nostri giorni, che però più che semplificato è stato complicato dal pur corretto intervento degli Stati sovrani, in nome della tutela della salute pubblica, per fronteggiare il fenomeno. Già da subito i rimedi, messi in campo per effetto soprattutto dell’elevata contagiosità e del pericolo di mortalità che facevano della pandemia un’emergenza pubblica, prestavano il fianco agli attacchi di chi provava sentore di strumentalizzazione politica giacché pareva che il rispettivo governo si occupasse del problema più che altro con un occhio rivolto al consenso elettorale e l’altro alla dialettica maggioranza/ opposizione.
In terzo luogo, nei casi più estremi la trattazione del fenomeno è apparsa a larghi strati delle rispettive opinioni pubbliche un pretesto per aiutare a stare in carica governi autoritari. Viceversa, nei Paesi che le prevedono nei loro ordinamenti costituzionali, non sono state apprezzate o apparse sospette limitazioni come la libertà di circolazione e la lesione della sfera individuale con seri dubbi dei giuristi e qualche pronuncia giudiziaria contraria, come è già avvenuto a Madrid e a Berlino. Il fenomeno, poi, ha favorito la strumentalizzazione politica di alcuni passaggi cruciali del nostro tempo, come la Brexit e il problema del debito pubblico, consentendo anche ai governi democratici più o meno forzatamente di dare maggiore continuità al proprio potere col pretesto dell’emergenza.
Dal punto di vista dell’impatto economico e sociale, con relativo successo del negazionismo, ha giovato al partito degli scettici-negazionisti che il primo risultato del tentativo di contrastare la diffusione sia stata la crisi economica che ha aumentato il numero degli sfiduciati e degli emarginati (500 milioni di disoccupati nel mondo in breve tempo, calcola l’Economist), le sacche di povertà e le disuguaglianze sociali per effetto del crollo sia dei Pil nazionali sia di quello mondiale, tranne nel Paese in cui tutto è iniziato (aspetto questo che ha alimentato ancora di più i sospetti di cospirazione). Ha pesato ulteriormente che siano rimasti irrisolti alcuni problemi reali che la diffusione del virus ha consentito di aggravare o che non hanno giovato ad attenuarne le conseguenze, come la debolezza strutturale, economica e sociale di singole realtà nazionali (caso italiano e non solo) che li hanno resi più vulnerabili alla crisi.
Infine, si sono riaffacciati più impellenti di prima alcuni problemi drammatici e urgenti del nostro tempo, come quello dei cambiamenti climatici che rende indifferibile la modificazione degli stili di vita. Tant’è che molti ritengono che il passaggio di questa crisi potrebbe rivelarsi salutare solo nella misura in cui giova a fare migliorare il mondo concentrandosi maggiormente sui cambiamenti nel clima e sugli stili di vita, mentre può rivelarsi esiziale se si lascia tutto come prima, una volta scampato in qualche modo il pericolo.
La politicizzazione del problema ha aggregato, quindi, sul fronte della negazione una massa indistinta di persone con le motivazioni più varie che oggi, a più riprese e in più occasioni (per esempio di provvedimenti più rigorosi) fronteggiano spavaldamente le istituzioni pubbliche. La conseguenza è stata l’estensione del fronte della negazione fino a staccarsi quasi del tutto dal momento dell’“affermazione” e far vivere alla prima quasi una vita propria. Anche se, in ultima analisi, si assiste a un movimento, sì, di popolo ma con una testa molto aggressiva e motivata e un corpo che segue, mosso dal bisogno di negare solo perché è attraversato da stanchezze e paure profonde da esorcizzare più che spiegare o dominare con le presunte certezze della negazione.
Si potrebbe andare avanti con le spiegazioni psicologiche e sociologiche più sottili, ma il problema che adesso porrei è “Che fare”? Come uscire da questo che rischia di diventare un pericoloso vicolo cieco? Basta lavorare sul lato dell’“affermazione”?
La prima osservazione è che esso va affrontato liberandolo da ogni strumentalizzazione politica, verrebbe da dire agendo più da statisti che da politicanti. Invece, quasi dappertutto la gravità del momento è stata legata e addossata a scadenze elettorali, come in Usa e in Italia, a crisi di consenso, come in Francia e in Russia e ad altre ragioni particolari come la Brexit. Per giunta, per lo più in termini di emergenza con decisioni assunte volta per volta e all’ultimo momento. Questa è anche la ragione che ha spinto le frange più radicali dell’opposizione a brandire l’arma del negazionismo come strumento di lotta politica.
La seconda osservazione è che, soprattutto in un Paese come l’Italia, la gestione dell’emergenza è stata fatta senza logiche programmatorie e ricorrendo a logori strumenti tradizionali, segnatamente quelli burocratici. La distorsione burocratica, si sa, in misura modesta è creata dal risentimento e dalla frustrazione del ceto degli impiegati pubblici, mentre più rovinosamente è dovuta alla produzione legislativa e regolamentare che impone a chi sta dietro lo sportello di vessare il più possibile l’utente e rallentare l’erogazione dei servizi. Orbene, se si guarda agli oltre quattrocento provvedimenti emessi a livello governativo, regionale e di enti locali sul Covid 19, con tutte le disposizioni dettaglio che li contengono, la gran parte ridicole e inapplicabili per limiti di mezzi e di personale, si comprende quale sfiducia e risentimento ciò abbia potuto creare nella società, soprattutto in quella parte di essa che si ritiene più vessata e per quella più impegnata nella produzione e nel lavoro, alimentando scetticismo e incredulità.
L’altro elemento che ha fatto parte del corredo della propaganda è il conflitto generazionale. Me ne sono già occupato en passant nel numero precedente a proposito delle migrazioni. La contrapposizione strisciante che si è fatta tra le giovani generazioni che avrebbero fatto e farebbero da untori nei confronti di quelle precedenti rappresentate dai familiari, infatti, pone una questione delicata, su cui o si parla seriamente o è meglio tacere: un conto è il desiderio e la volontà di non creare ulteriori problemi di salute a genitori e nonni che è pacifico, un altro è essere percepiti come gruppo (“i giovani”, quelli della “movida”, come sono oggi etichettati) cui si chiede di modificare abitudini sociali per salvaguardare la generazione anziana, omettendo di dire, a proposito di gruppi, che si tratta proprio di quella ha lasciato solo l’osso a chi viene dopo e che proprio in occasione della pandemia non fa che aggravare per il futuro un gigantesco debito pubblico da pagare mentre nel contempo tutti i paracaduti economici e gli elicotteri distributori di denaro vanno in larga misura a favore di quelle stesse generazioni da non infettare e che di fatto sembra si voglia legare quelle giovani ancora di più a quelle anziane, facendole dipendere da stipendi e pensioni di genitori e nonni.
Questi ragionamenti non sempre sono espliciti, ma sicuramente sono presenti e orientano inconsciamente i comportamenti in questa circostanza definiti irresponsabili, spesso anche dagli appartenenti alle medesime coorti di età e che oggi stanno al governo o che fanno parte della classe dominante (e che, quindi, si sono messi al riparo dai rischi del futuro). E nondimeno forniscono potenziali adepti a quel fenomeno del negazionismo di fatto che popola le piazze e i luoghi di aggregazione giovanile.
Probabilmente gli amministratori pubblici, per dimostrare meglio che il governante è quello che mira all’interesse esclusivo degli amministrati e non solo al proprio tornaconto avrebbero dovuto dare una forma più manageriale, più programmata e più razionale all’intervento pubblico e meno emergenziale (soprattutto dopo che ci si era ripresi dalla sorpresa). Ma soprattutto si sarebbe dovuta rivolgere attenzione alla comunicazione, che quanto più si è rivelata carente, contraddittoria e allarmante, tanto più ha alimentato il negazionismo e le teorie cospirative. Infatti, è fortemente radicata nella società civile la convinzione che quella politica coltivi sempre disegni differenti da quelli che proclama e che al suo interno sia costantemente rivolta ad andare contro l’interesse della collettività.
In conclusione, va da sé che la dimostrazione di forza da parte di uno stato di riflesso ne provoca un’altra di segno uguale e contrario in chi per qualsiasi ragione si opponga o non condivida le decisioni. Su queste si riconoscono soprattutto le frange più estreme della società politica alla ricerca di consenso ispirandosi a valori di segno contrario. Da qui la facile presa che ha il negazionismo anche su chi non coltiva alcun disegno di stravolgimento delle istituzioni, ma è segnato solo da scetticismo e sconforto.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016).
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