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di Nino Giaramidaro
Lampi con le folgori ben disegnate, crepitanti in attesa dei tuoni che rimbombavano dentro se stessi e si infilavano nelle case squassando pareti campagnole e gracili tetti. Un castigo di Giove sulle rovine di Selinunte. Oppure un monito del dio dimenticato che forse considera ancora suo quel cumulo di vecchie pietre costrette all’abiura. E il vento.
Si avvitava sempre più rapidamente il vento che spirava da ponente e ora non si capiva più da dove – il vecchio Eolo confuso. Un fungo danzante alla rinfusa: minaccioso e veloce aveva imboccato l’esile via che riluceva dei riverberi del sole anemico e dall’acropoli scendeva verso il fiume. Scivolava con la grazia rotante di un ballare antico seguendo le anse del secolare tracciato di quella che fu una grande via ora ridotta a un viottolo accidentato e solitario.
E olivi, pini, alberi senza frutto, le odorose tamerici, i colori della lavanda e della santolina, e il mirto come guardie ai margini della stradella, familiare solo alle pecore.
La “cura di Drau” alias “ddraunara”, tempesta di vento che sradica, scippa e porta lontano sotto la pioggia feroce del “mazzamareddu”, termine delicato per significare quello che accade.
Gli alberi, le canne e la macchia mediterranea scossi dalla violenza della tempesta, improvvisa e scura che cancella dall’orizzonte le colonne del tempio di Apollo sul crinale di ovest dell’acropoli.
Più nessuno conosce le parole che tagliano quel drago di vento come una volta sapevano fare marinai e contadini socchiudendo i loro antichi segreti. Bisogna aspettare che la luce dissolva quella violenza rotante e senza bussola.
Tutto sulla via sacra che dall’acropoli conduce alla Gaggera e poi a Manicalunga Timpone nero: la “grande città dei morti”, la più vasta delle tre necropoli di Selinunte. Oltre il Selino. Dove il sentiero è piantonato anche dai rossi lentischi, dalla furtiva erica, dalle nobili agavi con le loro alabarde fugaci, verdi sentinelle fra le quali si insinua il giallo velenoso della morella di Linneo, unica pianta superstite del fuoco di Sodoma.
Preservano la strada sacra dalla sabbia: un’ipotesi di deserto arginato dai folti ed estesi canneti e dagli ulivi saraceni, tarchiati e centenari, schierati in formazione militare su tutt’e due i lati del percorso dei mesti cortei.
Sul placarsi della tempesta, nel breve tempo prima della schiarita, le figure mobili dell’annuvolato fanno pensare alle anime vaganti di antichi eroi e non, che non sono riuscite a raggiungere il recinto di Ecate, l’accompagnatrice dei morti, davanti al santuario della Malophoros.
Il tempio dove si fermava il carro con il corpo destinato alle terre di Manicalunga dopo i lunghi riti per auspicare l’accoglienza nei Campi Elisi oppure nel Prato degli Asfodeli.
Malophoros o Malophoras, vi sono abbondanti scritti per spiegare questo difficile nome. Ma, col senno di oggi, facendosi forti di una buona ignoranza, si può tradurlo come portatrice di male: sulla sua ara vi giungevano coloro i quali avevano subito l’ultima sventura. Cortei dolenti che cantilenavano lo strazio e le virtù dell’accompagnato ai riti estremi, in un percorso con – immaginiamo – soste davanti al tempio di Hera, il primo e oltre il Modione nella discesa dall’acropoli, poi la Malophoros, Ecate, il sacro recinto di Giove, fra gli arcani del tempio M.
Forse come mistero, insoluto arcano fra i tanti che avvolgono il tempo trascorso e che spesso fruiscono di dotte rivelazioni d’argilla.
Molte migliaia di scritti descrivono ciò che accadeva a Selinunte, tangenti la realtà o dritte frecce di Eros. Ma si può ancora immaginare, come sogni ad occhi socchiusi per non perdere di vista il bianco sinuoso della via sacra e l’“opre e gli eventi” che la percorrono oggi, affidata alla cura e all’uso di un terzo secolo malfermo.
Il fuoco. Canadair che volano in picchiata sul tempio C, consacrato ad Apollo, dio delle arti e della profezia, per spegnere il divampare dei focolai innescati da eredastri dello Zoppo dell’Etna, beceri e con scopi futili, inconfessabili anche ai più intimi, con la dea/dio dell’inutilità anch’essi increduli.
Roghi ostinati, con gli aerei che vanno e vengono per ore, sganciando acqua di mare sulle tamerici arse, sulle lavande e gli ogliastri, sugli alti eucalipti e sui rovi fioriti.
Non c’è alcuna dedizione per la sacralità passata di quei luoghi, resti di quei simulacri che hanno resistito millenni per noi. Memoria di pietra, che tale rimane nella contemporaneità: la strada sacra soverchiata dalle erbacce che a tratti ne fanno sbagliare la direzione, e verso ovest, sull’ultimo dosso prima della spianata di Manicalunga, il disprezzo delle immondizie gettate lungo i margini delle antiche balate per un centinaio di metri ricoperte dall’asfalto.
Sino al delta stradale dove la via sacra diventa superstrada, circonvallazione, infilandosi con tutta la sua modernità fra Manicalunga e il Timpone Nero che ancora conservano sepolcri – tutti scoperchiati – e centinaia di altre tombe.
Un via vai estivo di trattori cingolati che mordono la debole strada, turisti che si illudono di raggiungere Selinunte e risalgono delusi il pendio impervio, automobili incerte che hanno sterzato a sinistra e si arenano sulla piccola radura prima che il percorso si inoltri fra le canne curve.
Che sembrano allettare con il loro ondeggiare suadente e silenzioso fra il lieve stormire di eucalipti lontani, creste cariche di olivi, e il rado e basso garrire di rondini e rondoni, il roteare lento e ostile delle poiane, qualche uccello da caccia inseguito da fucilate maldestre che provocano rapidi voli affollati e con gran dispendio di piume, tortore e colombi a stormi che beccano il terreno commisto alla sabbia.
Il ritornato gruccione, discreto e coloratissimo, cangiante a seconda dei raggi di sole. E le incursioni semiclandestine della guardinga upupa, brevi e veloci, con la cresta in allerta e gli occhi che seguono lo spirare mite dello zefiro, il vento dell’ovest complice dell’accanimento della sabbia sulle terre.
Tutto questo non intenerisce il cuore del furtivo automobilista con il cofano zeppo di immondizie e roba vecchia che, alacre, anche il giorno di festa alle prime ombre della sera, si affanna a gettare: tutto lì, fuori mano senza alcun timore delle anime vaganti che ci devono ancora essere custodi della via sacra.
E non c’è nessuno che mette riparo ai sacrileghi cumuli. Non riescono sulle strade maestre, in quelle di città, figuriamoci in questa zona dalla fama dimenticata e frequentata dalle greggi con i loro cani, turisti con le loro numerose bottigliette d’acqua, innamorati che invano cercano riparo, raccoglitori di frodo di fichi che debordano da muri e recinti, cacciatori settembrini che credono di essere più furbi dei volatili.
La quotidianità intorno ai santuari della Malophoros, di Ecate e di Giove Melìchios e sulla via che fu sacra, ora che non ci sono più gli assalti predatori dei tombaroli, è rarefatta e silenziosa: nella quiete. Una quiete simile all’oblio.
Certo non tutto del nostro passato remoto si può aggiornare, ma vi sono luoghi che riescono ancora a liberare l’immaginazione, la facoltà di elaborare la percezione di cose assenti, esercitare l’arte della memoria con tutte le imposture della libera fantasia.
La Via sacra con i suoi santuari, i suoi fiori e le erbacce, l’andare faticoso e sdrucciolevole, e forse le sue presenze d’ombra, può rimanere così com’è: fuorimano, lontana dalla velocità, dall’inquietante nuovo. E sì, il saggio nonsenso nei secoli sostiene che non tutti i mali vengono per nuocere.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, marzo 2020
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.
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