il centro in periferia
di Francesco Erbani
La pandemia che stiamo vivendo ci interroga sugli interventi indispensabili che, una volta superata l’emergenza, consentono di non tornare alla normalità precedente il Covid. In molti ambienti si assiste a una tensione fra chi auspica il rientro in una condizione rassicurante, quanto più possibile simile a quella vissuta fino al marzo 2020 e chi invece parla di cambiamento d’epoca che impone di rimuovere molti dei presupposti che hanno reso la pandemia non solo una crisi sanitaria, ma una crisi di sistema.
Le città, il territorio e soprattutto le relative politiche sono fra i settori maggiormente interessati a una visione che parta dall’assunto che quel che stiamo vivendo è appunto un cambiamento d’epoca. Città, territorio e relative politiche intese per quanto attiene alla dimensione fisica e anche alla dimensione sociale. Le città e il territorio sono l’ambito in cui abbiamo sperimentato nei mesi del confinamento il riprodursi delle disuguaglianze, il loro accentuarsi e il prodursi di nuove disuguaglianze. Ma nelle città e nei territori, spesso nelle parti più disagiate, si è anche assistito a fenomeni di solidarismo che traevano linfa da iniziative di tipo comunitario avviate già da tempo e laddove queste non hanno potuto esprimersi a causa delle restrizioni da confinamento si è sentita acutamente la loro assenza.
Molti studi dimostrano come ricchezza e povertà abbiano accentuato negli anni a noi più vicini la loro divaricazione sia in ambito planetario sia nelle nostre città. E che anzi le città, luogo privilegiato dell’egualitarismo, abbiano moltiplicato quelle vecchie e inventato nuove disparità. Torna in mente il bel saggio di Bernardo Secchi, uscito poco prima che l’urbanista morisse, La città dei ricchi e la città dei poveri. Ed è troppo evidente che la sofferenza può essere alleviata solo adottando politiche pubbliche, locali e nazionali, che investano la città, la quale nel suo insieme contiene tante più periferie di quante non si sia disposti a riconoscere, e che siano ispirate, queste politiche, all’idea di abbattere le disuguaglianze non solo di reddito.
La pandemia da Covid-19 ha reso l’urgenza ancor più evidente e, detto senza enfasi, l’ha iscritta fra le priorità della Repubblica italiana, da Palazzo Chigi alla presidenza di municipi e circoscrizioni, la quale Repubblica è tenuta, dall’articolo 3 della Costituzione, «a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». L’infezione ha infatti confermato che le parti di città che vivono una condizione periferica, che si trovino nella periferia topograficamente intesa, nelle aree vicine al centro o addirittura al centro, sono il campo d’azione delle disuguaglianze intese in senso lato, a cominciare da quelle relative al reddito, per passare a quelle che riguardano l’accesso all’istruzione, alla partecipazione civica, agli spazi pubblici, al web, e poi il diritto alla salute, alla cultura, alla mobilità, a un ambiente sano.
In un breve saggio uscito da qualche settimana e intitolato proprio Cambiamento d’epoca (Giannini editore), due urbanisti, Roberto Giannì e Giovanni Dispoto, e un sociologo urbano, Francesco Ceci auspicano «un programma straordinario per il rinnovamento dell’habitat». Un programma straordinario, ma ispirato al principio della cura di città e territorio, una cura tutt’altro che astratta dai contesti e radicalmente alternativa al criterio che presiede alle grandi opere.
Provo a sintetizzare alcune riflessioni, sollecitate dall’emergenza, ma che insistono su questioni di lungo periodo: blocco totale del consumo di suolo, ma vero, non a chiacchiere, e in particolare del suolo agricolo; lotta alle disuguaglianze nell’accesso alla casa: ancora nel 2016, stimava Nomisma, il 42 per cento di chi abitava in affitto (1,7 milioni di famiglie) pagava canoni superiori al 30 per cento del reddito familiare e dunque si trovava in una condizione prossima alla povertà; nel 2017 si calcolavano 170 mila sfratti e questo disagio si è accentuato gravemente durante il Covid, se solo si considerano le richieste di contributi per l’affitto triplicate, secondo l’Unione inquilini.
Nel saggio si segnala dunque l’urgenza di non trascurare i tessuti urbani più poveri, per esempio elaborando una serie di indicatori del degrado edilizio per individuare gli edifici nei centri storici più bisognosi di intervento e di restauro. Oppure mettendo mano a situazioni allarmanti, inerenti il patrimonio pubblico, come il fatto che poco meno di 50 mila alloggi di edilizia pubblica siano inagibili o che in molti centri storici siano diffusi edifici pubblici inutilizzati e in cattive condizioni e che potrebbero essere destinati a usi abitativi, oppure a servizi (sanitari, scolastici, assistenziali, associativi, culturali…) sottraendoli alle mire speculative. E anche, si può aggiungere, approfittando che l’economia legata al turismo non è lì con le fauci spalancate per divorarli.
Altro argomento centrale è l’uso di grandi contenitori dismessi in aree periferiche per progetti insediativi che innovino l’offerta abitativa, con abitazioni collettive e spazi dedicati a iniziative comuni (le richiama Luciana Mastrolonardo nel suo contributo al volume Cronache dell’abitare. Esperienze a partire dalla periferia a cura di Sara D’Ottavi e Alberto Ulisse, in cui si fa riferimento alla Carta dell’habitat elaborata dall’urbanista milanese Giancarlo Consonni). Si mettono dunque insieme residenza, servizi, luoghi di lavoro, comunità d’imprese giovanili. Sono esperienze che in Nord Europa sono consolidate, ma che richiamano anche le idee, se si vuole le illusioni, circolate in Italia dal dopoguerra in poi intorno ai progetti Ina-Casa e quindi per i grandi interventi di edilizia pubblica dagli anni Sessanta agli anni Ottanta.
Insomma, scrivono Giannì, Dispoto e Ceci, «dall’estensione del rinnovamento edilizio alla città povera, sia periferica sia centrale, può venire un incremento dell’offerta abitativa, anche ipotizzando diverse modalità, dalla tradizionale edilizia residenziale pubblica, all’edilizia residenziale sovvenzionata, in cooperazione pubblico-privato». In esergo del saggio troviamo una frase di papa Francesco: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».
Ma il Covid-19 ha anche mostrato che, parlando di periferie o di aree centrali affette da una condizione periferica e di marginalità, non ragioniamo dell’inferno. L’impossibilità di muoversi ha consentito a molti di leggere con meravigliata attenzione i propri luoghi. E l’attenzione genera cura verso di essi e verso chi li condivide, alimenta il reciproco sostegno, il senso di vicinato, l’affetto fra le generazioni. Le cronache hanno registrato episodi di solidarietà dentro i condomini, fra un condominio e l’altro. Si sono risvegliate forme di mutualismo, si è riscoperto il beneficio di una relazione fondata sullo scambio. In tanti casi è maturata un’idea dell’abitare non limitata alla soddisfazione del primario bisogno di una casa, di muri, di porte e di infissi che garantiscano protezione, ma che si è estesa al contesto, a quel che la prossimità può assicurare.
Il Covid-19 ha fatto riflettere sull’uso degli spazi pubblici, di quelli all’aperto e di quelli al coperto, che in grande quantità giacciono in abbandono nei complessi di edilizia pubblica e anche nei centri storici. Da più parti si è sottolineato che essi sono i luoghi nei quali realizzare servizi di cui le periferie hanno bisogno e molte sollecitazioni sono giunte ai decisori politici da chi quegli spazi già li rende utili a quegli scopi, evitando che vadano in malora o che siano vandalizzati.
I mesi di confinamento, i contagi che ora raggiungono livelli mai visti prima, lasciano anche scorie fatte di paura e di diffidenza. Ma in ogni caso si è dimostrato che altri modi di concepire la convivenza sono possibili: vanno riconosciuti e sostenuti, e fra i protagonisti vanno rinsaldate le relazioni. Inoltre è anche a partire da quelle pratiche che è possibile costruire politiche pubbliche e attrarre investimenti pubblici che non siano una cascata di meteoriti piovuti nell’atmosfera.
A Corviale, periferia sud ovest di Roma, superficialmente indicato come esempio iconico del disagio metropolitano, di una condizione senza speranza, sono invece tante le associazioni attive, i comitati impegnati su vari fronti: c’è il calcio sociale, c’è una biblioteca comunale fra le più vivaci di Roma, c’è una parrocchia che è un luogo privilegiato di ascolto. Dopo un lungo processo partecipativo si è arrivati a due progetti d’architettura, uno per gli spazi intorno al grande edificio e per gli accessi (curato dall’architetta Laura Peretti) e un altro per il quarto piano, che nel disegno originario avrebbe dovuto ospitare i servizi, ma che invece fu occupato da un centinaio di famiglie (anche la parrocchia ha sede al quarto piano).
Al quarto piano si stanno realizzando (in base al progetto di un’altra architetta, Guendalina Salimei) oltre cento appartamenti, più aree comuni. Ma a questo progetto d’architettura, già in fase di cantiere, si è affiancato un Laboratorio di città, con una convenzione fra Regione, Ater e università Roma 3. Il Laboratorio, animato da due giovani ricercatrici, Sara Braschi e Sofia Sebastianelli, svolge una funzione di accompagnamento sociale per le famiglie occupanti aventi diritto a una casa popolare che si spostano nei nuovi alloggi. Il trasferimento è operazione delicata, potrebbe innescare conflitti, scatenare strumentalizzazioni alla CasaPound, ma invece si sta svolgendo lentamente e con inciampi di vario genere, però senza tensioni.
Operando a Corviale, il Laboratorio ha assunto la fisionomia di un “portierato sociale”, ha allargato le sue funzioni ed è diventato un luogo d’incontro, d’ascolto e anche di mediazione fra gli abitanti tutti, non solo quelli del quarto piano, e l’Ater. Durante la pandemia, sebbene a distanza, il telefono del Laboratorio è rimasto sempre acceso. Braschi e Sebastianelli sono state fondamentali anche per evitare che si diffondesse lo scoramento sulle sorti del progetto per il quarto piano, considerato solo l’avvio di una serie di interventi che riguardano l’intero edificio, che in tante parti casca a pezzi. Troppe volte sono state promesse iniziative che poi sono fallite sul nascere e la sfiducia dilaga a Corviale. Ed è proprio sul recupero di fiducia che sta agendo il Laboratorio di città.
Esperienze di “portierato sociale” svolgono anche i giovani di Acmos a Torino. Oltre a praticare ormai da vent’anni forme di coabitazione, di autogestione, di consumo responsabile, di accoglienza, di consapevolezza antimafia nell’ala dell’ex stabilimento Ceat nel quartiere Barriera di Milano, dal 2006 alcune decine di animatori aderenti all’associazione vivono in appartamenti di edilizia popolare e in cambio di un affitto concordato offrono ore di volontariato all’intero condominio: dalla pulizia degli spazi comuni alla soluzione di tanti problemi vissuti dagli inquilini. L’attività è svolta in accordo con l’ATC (l’azienda territoriale per la casa) e il comune di Torino ed è sostenuta dalla Compagnia di San Paolo. Come per il Laboratorio di città a Corviale, ma in modalità diverse, anche in un contesto disagiato e fragile come l’edilizia pubblica torinese, è essenziale la presenza fisica degli animatori sociali.
A poche centinaia di metri da Casa Acmos, sempre a Barriera di Milano, e sempre con il sostegno delle istituzioni pubbliche e della Compagnia di San Paolo, ecco i Bagni pubblici di via Agliè. Qui una cooperativa si è insediata nell’edificio che dal 1959 garantisce agli abitanti del quartiere, ai senza fissa dimora e a chiunque voglia servirsene, una doccia, un set di asciugamani, un phon per i capelli. È l’ultimo presidio del genere rimasto a Torino, ha sempre funzionato salvo che dal 1991 al 2004, quando è stato riattivato alla vigilia delle Olimpiadi invernali. Da allora le iniziative si sono moltiplicate: ci sono sartorie, laboratori di marionette, un bar, un ristorante, si svolgono corsi di italiano per stranieri e tante altre iniziative si irradiano da qui al quartiere contro la povertà educativa, la fragilità sociale e familiare. Durante il confinamento si recuperava l’invenduto dei mercati rionali e si raccoglieva quel che tanti negozianti donavano e così si sono confezionati pacchi alimentari per oltre 1500 famiglie.
Da Torino si scende a Catania dove Trame di quartiere agisce invece nel pieno della città storica, a San Berillo, nella porzione di quartiere sopravvissuta a un terribile sventramento realizzato alla fine degli anni Cinquanta inseguendo il mito di una Milano del sud. L’operazione affaristico-speculativa è rimasta un patetico incompiuto, ha espulso 30 mila persone, lasciato un gigantesco vuoto in corso Martiri della Libertà e, appunto, un moncone di quartiere. San Berillo è storicamente il quartiere della prostituzione e dalla fine degli anni Ottanta in poi qui si sono installate comunità di senegalesi prima e di gambiani poi.
I giovani di Trame di quartiere si sono insediati al piano terra di uno dei palazzi di pregio del quartiere, palazzo De Gaetani, andato in rovina come tanti altri edifici a San Berillo. Hanno ottenuto i locali in concessione dal proprietario, diventato anche lui parte dell’associazione. Da qui partono una serie di attività che, come un sistema nervoso, si diramano in tutto il quartiere: una caffetteria, diversi consulenti ai quali si rivolgono le prostitute, progetti educativi, animazioni teatrali e culturali, corsi di lingua. E poi una presenza fisica costante che funge da mediazione fra le componenti del quartiere, i pochi, vecchi abitanti residui, gli immigrati, compresi i senegalesi di fede musulmana, e le prostitute.
Prima che esplodesse il Covid, Trame di quartiere aveva avviato un progetto intitolato SottoSopra e ispirato all’abitare collaborativo (con il contributo della Fondazione con il Sud). Verranno ristrutturati anche i piani superiori dell’edificio e qui s’installeranno alloggi temporanei, una foresteria e spazi comuni al servizio del quartiere. L’idea, spiegano i promotori, è di invertire la tendenza all’abbandono del quartiere e invece di riabitarlo proponendo però forme di convivenza e di relazione innovative.
La pandemia ha fermato i lavori, ripresi poco prima dell’estate. Ma ha anche dimostrato quanto l’assenza di Trame di quartiere, nonostante l’impegno di molti nel sostenere iniziative di solidarietà, potesse riaccendere focolai di tensione a San Berillo. A luglio poi è stata costituita una cooperativa di comunità. Si è scelta una forma organizzativa innovativa (sono oltre un centinaio le cooperative di comunità già presenti in Italia) che coniuga i servizi offerti al quartiere con opportunità di lavoro per chi li fornisce.
Altre storie come queste si potrebbero raccontare. Le persone che le animano, provano a tracciare una mappa di resistenza cui le politiche pubbliche possono riferirsi. Sono un modesto segnapassi, come le luci soffuse che in un teatro d’opera indicano i gradini ed evitano d’inciampare. Potrebbero, se ci fosse ascolto, evitare astrazioni troppo suggestive e campate in aria oppure soluzioni troppo modeste, diciamo così, da decoroso arredo urbano.
Dalle aree più disagiate, in cui la sofferenza è acuta, arriva l’idea che si possano immaginare forme di vita, modi di abitare, occasioni di lavoro, intraprese culturali che diventino non tanto modelli, ma certo occasioni ripetibili su larga scala in tutto l’organismo urbano.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Francesco Erbani, laureato in Lettere, nel 1994 è stato assunto nella redazione Cultura di “Repubblica”, dove ha lavorato per venticinque anni con il ruolo di capo servizio. Attualmente collabora con la rivista “Internazionale”. Fra le sue pubblicazioni: Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, Laterza (2010), La fine della città, libro-intervista con Leonardo Benevolo, Laterza (2011), Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Corte del Fontego (2013), Roma. Il tramonto della città pubblica, Laterza (2013), Pompei, Italia, Feltrinelli (2015), Roma disfatta (con Vezio De Lucia), Castelvecchi (2016), Non è triste Venezia, Manni (2018), L’Italia che non ci sta, Einaudi (2019)
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