il centro in periferia
di Emanuela Rossi
Da diverso tempo in Toscana mi occupo di tematiche legate al patrimonio culturale e di recente ho condotto una ricerca in provincia di Pistoia che mi ha portato ad osservare da vicino un piccolo gruppo di persone e le loro attività patrimoniali. Attraverso l’uso di quelle che ho definito “tecnologie patrimoniali”: un museo, una mappa di comunità, rievocazioni di antichi mestieri, un gruppo di persone assimilabile alla definizione di “comunità di eredità” [1] della Convenzione di Faro definiscono una località e il loro essere appunto comunità.
Nel testo che ho dedicato alla ricerca pistoiese (Emanuela Rossi, Produrre località tra immaginazione, desiderio e patrimonio. Sulle performance patrimoniali alla Querciola in Toscana, in “Lares”, maggio-agosto 2019, n. 2: 207-232. ), ho puntato a mostrare come e perché certe forme del patrimonio si rivelino uno strumento della contemporaneità [2] utilizzate come mezzo per produrre località, anzi per creare un luogo attraverso un complesso lavorìo patrimoniale da parte di un gruppo di persone dai confini variabili che con perseveranza agisce per portare avanti un proprio progetto di futuro, una propria visione. Passato presente e futuro si coniugano nell’uso del codice patrimoniale e non lo fanno in teoria, lo fanno in contesti precisi che sono fondamentali per osservarne le varie declinazioni.
Nello scrivere questo mio testo, dove provo ad aprire un terreno di ricerca per me nuovo, mi colloco, da un punto di vista teorico, nel quadro dello studio delle pratiche del patrimonio e della memoria culturale e mi sono posta all’interno della pista di ricerca suggerita da Fabio Dei, legata allo studio delle rievocazioni del passato in Toscana. Dei afferma che le politiche patrimoniali «si diffondono in modi nuovi e creativi quanto più si indeboliscono i fattori ‘strutturali’ dell’identità locale. Quelle forme di socialità e coesione locale che non sono più garantite dagli aspetti materiali dell’esistenza vengono ricreate – o se si preferisce, immaginate, rappresentate – sul piano simbolico. Si tratta di una grande varietà di pratiche sociali e forme culturali, che qualche volta vengono fatte rientrare nella più ampia categoria dei ‘processi di patrimonializzazione’»[3]. Dei inserisce in questa categoria quelle attività che definisce legate al patrimonio culturale sia materiale che intangibile, ma anche forme di valorizzazione di tradizioni locali legate al mondo dell’artigianato, di tradizioni alimentari, le feste. Queste attività in certi casi vengono ricomprese in una cornice istituzionale, ma «più spesso si collocano sul piano della società civile e dipendono da associazioni più o meno formalizzate» [4].
Come Dei, anche Rodney Harrison, nel suo testo dedicato ad uno approccio critico al patrimonio, connette quella che definisce l’«abbondanza patrimoniale»[5] che caratterizza la nostra epoca con un crescente senso di crisi ed incertezza. È il senso di incertezza, secondo Harrison, che ci porta a mettere da parte ciò che è in disuso, ridondante, antiquato come potenziale materia prima per la possibile produzione di memorie che sentiamo di non voler perdere, ma alle quali al momento non siamo neppure in grado di assegnare un valore preciso. Il senso di crisi è l’esito di diversi fattori: della sensazione di velocità e del tasso di cambiamento tecnologico, ambientale, sociale al quale tutti noi siamo esposti. Harrison afferma che la nozione di patrimonio, in questo momento storico, è talmente ampia da comprendere praticamente tutto.
L’abbondanza patrimoniale, e qui includo anche il proliferare di feste di rievocazione del passato, sembra dunque connettersi alla percezione di un vuoto, di una crisi, di un senso di incertezza legati a vari fattori e tra questi la velocità e il cambiamento che caratterizzano il nostro tempo. Secondo questa prospettiva, i processi di patrimonializzazione, che vediamo in corso un po’ ovunque, rappresenterebbero una risposta che vede, nella manipolazione del passato, un ruolo creativo nella produzione di futuro.
Secondo Fabio Dei le attività culturali, che si muovono attorno a quelle da me avvicinate alla nozione di “comunità di eredità” messe in moto attorno a memorie condivise, ricomprendono anche il fenomeno delle rievocazioni storiche che in Toscana vedono una diffusione sistematica e capillare. Secondo Dei i confini che separano tradizioni, patrimonio e rievocazioni non sono mai così netti.
La ricerca
In Toscana sono sostanzialmente due gli antropologi che hanno lavorato sistematicamente e teorizzato sulle rievocazioni medievali, Fabio Mugnaini prima e quindi Fabio Dei. Sia Mugnaini che Dei mostrano che le rievocazioni storiche sono un tema fondamentale per lo studio delle forme della cultura popolare nel mondo contemporaneo e non qualcosa da demonizzare od ignorare.
La mia ricerca su una festa che si ispira al Medioevo si colloca entro questa cornice teorica. Siamo a San Casciano in Val di Pesa, in una delle zone più note della Toscana: il Chianti fiorentino. La ricerca è iniziata nel novembre 2019 e si è poi interrotta per lo scoppio della pandemia da Corona virus; così come, per le stesse ragioni, si è interrotta la festa.
San Casciano è un paese di circa 17 mila abitanti a una ventina di chilometri da Firenze. È situato nella zona del cosiddetto “Chianti Classico” e le produzioni del vino e dell’olio, che fortemente incidono sull’aspetto del territorio, sono tra le principali attività economiche della zona assieme al turismo, spesso a queste connesso. Nonostante la sua estrema vicinanza a Firenze, San Casciano non si configura come un paese “satellite”, anche se ovviamente gli studenti delle scuole secondarie e parte della popolazione, per ragioni di lavoro, frequentano quotidianamente il capoluogo, che è raggiungibile molto velocemente attraverso un raccordo autostradale. San Casciano, che ha un proprio teatro, un cinema, un museo di arte, un circolo ARCI e uno MCL ed anche uno SPRAR ospitante alcuni rifugiati africani, è un paese dove si riscontra una forte sensibilità ed interesse verso la storia e le tradizioni locali. Mi colpì che un paio di anni fa, durante un discorso pubblico di fine mandato il precedente Sindaco, Massimiliano Pescini, ricordasse di aver partecipato a decine e decine di presentazioni di libri e pubblicazioni dedicate a vari aspetti del paese e del territorio, scritti da cittadini qui residenti. Pochi tratti per dire che San Casciano è un paese “vivo”, popolato, con una sua identità. In questo contesto nasce nel 2010 la festa denominata “Carnevale medievale” che va ad arricchire l’abbondantissima offerte di feste di rievocazione del Medioevo di cui, secondo le statistiche, la Toscana è la regione più ricca a livello nazionale [6].
Anche qui, procedendo giusto per tratti, vorrei provare a dare un’idea di cosa è la festa. Nel far ciò mi sono avvalsa del Regolamento del carnevale medievale sancascianese, oltre che di una frequentazione personale dell’evento. Il Regolamento recita: «Il Carnevale medievale è costituito dalla sfilata delle cinque contrade sancascianesi: la contrada del Cavallo, la contrada del Gallo, la contrada del Leone, la contrada del Giglio e la contrada della Torre. Attorno all’organizzazione e alla valorizzazione di tale manifestazione si sviluppa la vita delle Contrade durante tutto l’arco dell’anno»[7]. È l’Associazione delle Contrade che si è formata nel 2016 che regola, in accordo con l’Amministrazione comunale, lo svolgimento del carnevale, «sceglie le date […], approva i regolamenti, approva il calendario degli eventi […]»[8].
La Sfilata ha come orizzonte tematico «l’immaginario medievale locale: quello che esisteva ma anche i sogni, le paure, le superstizioni e le idee di quel tempo in Toscana e nel Chianti, visti in chiave e spirito carnevalesco. Tutto il resto è fuori tema»[9]. Il Regolamento avverte che, per la realizzazione dei vestiti, armi ed utensili è necessario utilizzare materiali compatibili con il Medioevo. Possono essere usati materiali come plastica o polistirolo solo se opportunamente camuffati. L’esibizione delle varie contrade si svolge davanti alla giuria e al pubblico collocati in spalti, appositamente allestiti, nel “Piazzone” (piazza della Repubblica) del paese. La giuria è composta da 9 giurati, nominati dall’associazione delle contrade. I giurati sono divisi in 3 sezioni: 4 giurati compongono la sezione generale: si tratta della giuria “popolare” senza specifiche competenze; 3 giurati sono scelti tra esperti di Medioevo e compongono la sezione storica; 2 giurati sono scelti tra esperti in ambito teatrale e compongono la sezione scenografica.
La festa dura due giorni (sabato e domenica) e comporta la chiusura, ad una certa ora della domenica, del centro storico del paese al quale si può accedere dietro pagamento di un ingresso di 2.50 euro. Per le vie del paese in quei giorni si può assistere a performance, giochi, musica, viene venduto dai negozi locali cibo “medievale” e vengono allestiti due mercati: uno “didattico” dove si può assistere alla dimostrazione di varie produzioni artigianali ed uno nel quale si vedono merci di vario tipo, sempre in sintonia con il tema della festa.
Una festa per tutti
Da quanto ho potuto appurare dalla mia ricerca, la festa chiamata “carnevale medievale” nasce a tavolino e dall’ “alto”, come probabilmente molte feste, dopo uno studio attento di un appassionato organizzatore di eventi. È Roberto Ciappi, attuale sindaco di San Casciano, che da Assessore con delega a feste, eventi e sagre popolari, nel 2010 pensa che sia giunto il momento di ideare un evento che possa coinvolgere quei cittadini di San Casciano non impegnati in attività associazionistiche. Il paese infatti si caratterizza per la presenza di una gran quantità di associazioni (circa 80) che con i loro iscritti si danno da fare sul territorio in vario modo, manca invece qualcosa che possa coinvolgere i “liberi cittadini”, i “gruppi non organizzati”. Nella memoria del Sindaco e delle persone il qualcosa che univa tutti era rappresentato in passato dalla festa di carnevale con sfilata di carri che cessò di esistere negli anni ‘80 del secolo scorso.
Ho intervistato il sindaco nel suo ufficio in Comune, un pomeriggio dello scorso novembre. Gli ho chiesto di raccontarmi come nasce la festa, visto che in paese diverse persone mi avevano consigliato di parlare con lui riconosciuto come l’ideatore.
Racconta Ciappi:
«L’idea nasce da un confronto con Massimiliano Pescini, sindaco precedente a me, viene fuori da un esigenza: a San Casciano mancava una manifestazione che fosse un po’ la spina dorsale del capoluogo. Rispetto alle altre frazioni dove c’erano già delle iniziative simili come la festa della Vendemmia a Mercatale o il palio del ciuco a Cerbaia o altre simili, a San Casciano non c’era più dalla fine degli anni ‘80 una manifestazione che tenesse di conto, diciamo così, dei liberi cittadini e non dei gruppi organizzati. San Casciano è un comune fortemente organizzato da un punto di vista sociale perché ci sono tantissime associazioni, se ne contano all’incirca 80, che non hanno neanche una vita così visibile, nel senso che sono proprio delle attività finalizzate a una cosa specifica, legate soltanto a un piccolo tessuto territoriale. Sul capoluogo si sentiva un po’ questo ribollire, quindi l’analizzare il tessuto sociale di San Casciano mi ha fatto pensare di fare una progettazione di un evento. Io credo molto nell’organizzazione come elemento che crea una stabilità. Buttare proposte, idee senza crearci intorno un progetto ha poco senso. Quindi la prima base era quella di fare un evento importante per San Casciano per attirare san cascianesi e visitatori in qualche modo. L’altro aspetto era, nell’area nostra cioè San Casciano, Barberino Tavarnelle, Greve e Montespertoli non c’erano manifestazioni di tipo medievale importanti».
Ciappi dà una lettura molto interessante del grande numero di associazioni presenti in paese che può aver rappresentato un ostacolo al passaggio intergenerazionale e prodotto un fermento tra i giovani che sentono mancare qualcosa che li rappresenti e li coinvolga.
Afferma il Sindaco:
«Si percepiva che tra i giovani, che spesso e volentieri vivono contesti simili, bar, luoghi comuni diciamo così, si sentiva un fermento che probabilmente era dovuto anche a una troppa organizzazione di associazioni, cioè: le associazioni strutturate solitamente ti danno una certa garanzia di stabilità, dall’altra parte naturalmente fanno un po’ da tappo, cioè è più facile inventare qualcosa di nuovo che ritirare su qualcosa che è andato giù perché fino a quando ci rimane un nucleo saldo è difficile fare il passaggio di consegna cioè lo scambio generazionale tra generazioni vicine è complicatissimo e in una dinamica anche di trasformazione della società perché insomma ora si rimane giovani più a lungo».
Sul perché il nome dell’evento che lega Carnevale e Medioevo Ciappi afferma:
«Da subito mi sembrava sbagliato fare una rievocazione storica tout court. Cioè l’idea era quella di dare sfogo un po’ all’immaginazione. Creare cioè una manifestazione che potesse tener conto sia del Medioevo sia del Carnevale e quindi metterci un po’ di passione, un po’ di idee, un po’ di slancio. Poi c’era anche un altro motivo di tipo economico perché nell’idea di destagionalizzare un po’ l’offerta di manifestazioni che son tutte tra giugno e luglio e quindi di attirare persone appassionate al Medioevo e che a parte quei 3 mesi lì d’estate non rivedono nulla; dall’altra parte c’era il fatto che il Lupo rosso, che era questa compagnia che venne ad aiutarci, come tante altre in quel periodo lì era fortemente disponibile perché non avevano niente e costavan pochissimo: portare cioè 40 armigeri a febbraio era un conto, a giugno sarebbe stato impossibile; nessuno avrebbe scommesso su una manifestazione del genere».
Realizzare la festa costa circa 30 mila euro che in buona parte sono resi disponibili dalla Fondazione Chiantibanca e dal Comune, ma che arrivano anche dalle varie attività che ogni contrada organizza durante l’arco dell’anno per autofinanziarsi. Un complesso sistema di eventi più piccoli che concorrono alla possibilità di organizzare il Carnevale, tanto che ho pensato che una giusta definizione del Carnevale medievale potrebbe essere: una “festa di feste”.
Mi racconta il Sindaco a proposito dei finanziamenti e della necessità di mettersi da parte una volta che un evento è entrato a regime:
«C’è uno sponsor che è Chianti Banca che mette una cifra consistente, poi c’è il comune… c’è una festa che mi sono inventato, insieme al Carnevale medievale, che è San Carnival Party, una festa in maschera sul Poggione che riesce ad ottenere una parte importante di risorse, poi dagli ingressi 2,5 euro quest’anno. Io ho fatto un lavoro un po’ di allontanamento perché dopo 10 anni bisogna essere in grado di passare il testimone, bisogna sapersi sganciare perché la spinta propulsiva che tu riesci a dare a un evento dopo è naturale ripercorrere i proprio passi. Cioè dopo, quello che funziona, o quello che ha funzionato per te, tendi a pensare che funzioni per sempre, ed è un errore tremendo, e invece bisogna saperli far crescere da soli, cioè, è diventato grande il Carnevale. È per quello che non bisogna mai affezionarsi a un evento, perché ti puoi affezionare e lo continui a guardare, ma non puoi essere sempre te l’unico a mettere l’ultima parola, a dire: è così che bisogna fare, perché tu rischi di portarlo su un tracciato sbagliato. E poi non diventa condizionabile da nessuno, quindi dopo non diventa più scalabile. Cioè, se vuoi che qualcuno ci metta il suo, bisogna tu glielo lasci, perché poi tu non puoi chiedere alla gente di fare i sacrifici, ma è tuo. … Sono una cosa particolare gli eventi. Io adoro organizzare gli eventi, mi piace».
Alla mia considerazione che il Carnevale medievale sembra una manifestazione in crescita Ciappi obietta che piuttosto si è stabilizzata. Aggiunge:
«Non c’è più l’entusiasmo di un tempo ma c’è molta più consapevolezza. Sono consapevoli che è una cosa importante. Si cominciano a sentire le responsabilità addosso, che è una cosa importante, e per questo hanno cominciato veramente a fare un po’ da tappo certe cose – e non è positivo secondo me, perché invece bisognerebbe un po’ andare a briglia sciolta su certe cose, perché poi altrimenti non riesci ad attrarre le nuove generazioni. Soprattutto c’è il rischio che ci sia il bambino che entra in Contrada dopo il periodo dell’adolescenza – perché così funziona – ma non c’hai il ragazzo o la ragazza di 20, 22, 23 anni. C’è un po’ quel salto lì. Perché c’è chi comincia già ad essere cresciuto nella Contrada, no, i primi figli dei contradaioli, quelli che cominciano a diventare adolescenti ma essere cresciuti nel Carnevale, in Contrada, davvero, e quindi hanno davvero una percezione di Contrada».
Poi il Sindaco mi palesa la sua preoccupazione rispetto a quella che a me è parsa una sorta di “maledizione” delle feste a San Casciano e che cioè, compiuti i 10 anni, cominciano a morire. E di nuovo porta la riflessione sul tema del rapporto tra le generazioni che più volte è emerso nel corso dell’intervista. Poi anche il confronto inevitabile, in questa parte della Toscana, con la festa per eccellenza che è il Palio di Siena. E da questo vengono prese le distanze perché è visto come tradizione, e in questo senso più “irrigidito”. Il Carnevale medievale, che invece è invenzione, e semmai una valorizzazione di tradizioni di tipo manifatturiero e di professionalità locali, deve rimanere in movimento, non deve irrigidirsi.
Racconta Ciappi:
«la mia paura di fronte il carnevale medievale come manifestazione è quella che viva… a San Casciano tanti dicono che le manifestazioni non duran più di 10 anni. Lei ha superato 10 anni, quindi ho paura. La mia paura è che riprenda le stesse logiche che hanno ripreso tante altre cose, cioè si fa un’associazione, si fa per fare una cosa, siamo noi, siamo bravi solo noi e da lì si ritorna a zero. Oppure i ragazzi stessi non percepiscono più il bisogno di entrare in una contrada perché dicono: ma come? che vado a fare in una contrada, vado lì a farmi comandare, a non inventare niente, vado lì e la mia parola non conta quanto quella di chi ha fatto servizio 10 anni. Perché il problema vero del fare il passaggio generazionale è quello di sentirsi più bravi di quelli che ci son stati prima, dire: eh ma io ci sono, ci sono stato e poi mi mettete da una parte. Ma infatti è sbagliatissimo mettere gli anziani o i vecchi da una parte; è fantastico quando si mettono da una parte da soli e danno tutta l’esperienza, tutto l’aiuto, tutte le possibilità per crescere, è lì la cosa bella di un passaggio generazionale, che non vuol dire non fare così perché io l’ho fatto e ci son rimasto male ma significa dire stai attento perché io ho fatto così e ci son rimasto male, ci potresti rimanere male anche te, come a te ti potrebbe riuscire perché sei più bravo di me oppure perché son cambiate le condizioni e ora può funzionare e 10 anni fa non poteva funzionare, magari ero troppo avanti, magari l’ho fatto coi tempi sbagliati e basta.. È un po’ quello che si genera spesso nelle associazioni con dei gruppi consolidati e questo è un rischio che c’è, è per questo che secondo me il Carnevale medievale deve rimanere in movimento. Un mio carissimo amico, che mi ha insegnato anche tanto per quanto riguarda l’organizzazione degli eventi, mi dice sempre: non ti affezionare ai tuoi eventi. Poi è naturale che ti affezioni, quando tu organizzi una cosa, quando pensi una cosa, quando fai una cosa c’è la prima fase che è l’innamoramento, poi ci può essere la delusione oppure ci può essere la fase lunga, però bisogna essere bravi a non affezionarsi […] cioè il carnevale come ogni manifestazione è di chi lo fa, di chi lo vive e bisogna essere bravi a interpretare cosa vuole lo spettatore e cosa serve per farlo andare in una direzione che poi la direzione si decide insieme, è anche frutto dei cambiamenti del tempo però bisogna stare in movimento. Un evento, secondo me, sbaglia a consolidarsi, soprattutto un evento inventato, cioè capisco il palio di Siena, più rigido è più rimane legato a quello perché è una tradizione e solo tradizione. Questa è una valorizzazione di tradizioni che sono espresse all’interno del Carnevale, tutta la capacità manifatturiera, la capacità di insegnare a un ragazzo che non ha mai preso un cacciavite in mano come si fa a fare un carro, imparare a saldare, imparare a tagliare, a cucire, a dipingere, a creare una storia, perché dietro c’è delle professionalità incredibili, creare una storia, immaginarsi una storia, insegnare a un gruppo di persone a recitare in mezzo a una piazza».
La festa “del potere”
Appare evidente che il carnevale medievale sancascianese è un festa che nasce con una tensione ad essere festa “emblematica” nell’accezione che Mugnaini dà a questa tipologizzazione. La festa san cascianese sembra configurarsi come “festa emblematica” nel senso che «è quella che si è guadagnata sul campo il diritto di rappresentare la comunità per la quale e dalla quale viene messa in scena»[10].
È emblematica perché intercetta «la politica dell’identità culturale che si dà nel presente, utilizzando spesso il passato – la memoria come la storia – come risorsa retorica ed emozionale; quella festa che troverà un proprio equilibrio «con la politica istituzionale, con le amministrazioni locali, con le fondazioni finanziarie, e che saprà imporsi sia nel momento del suo farsi (una festa deve avere successo: non sopravvive a una serie di fallimenti) che nei tempi lunghi dei programmi di finanziamento, della progettazione delle linee di gestione di assessorati alla cultura che, proprio in questi decenni, sembrano pigramente attratti dal potenziale di orientamento del consenso che è amministrato da chi sa fare una grande, bella festa e soprattutto ‘per tutti’!»[11].
Il Carnevale medievale in quanto festa emblematica è una festa “del potere”, sempre seguendo Mugnaini, poiché legata a un delicato equilibrio di autorità diverse: della gente che la vive e la realizza, della politica, delle banche locali, dell’autorità religiosa, mediatica e così via. È una festa del potere anche nel senso che è una invenzione della politica locale, non diversamente da molte altre feste di questo tipo.
Mugnaini nei suoi scritti afferma che le feste le fanno gli assessori ed in effetti il caso sancascianese sembra confermare questo. «Ma è anche vero – scrive Mugnaini – che gli assessori sono fatti dalle feste»[12] e questo implica che le feste vanno studiate anche tenendo conto «di come si è costruita la rappresentanza politica nelle nostre comunità locali, negli ultimi venti e trent’anni, potremmo dire dalla caduta dei tradizionali sistemi di partito»[13] .
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note
[1] La Convenzione di Faro definisce la comunità di eredità come «costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future» (articolo 2 – b).
https://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1492082511615_Convenzione_di_Faro.pdf (consultato il 19/10/2020)
[2] Se è ormai dato per assodato che il patrimonio si configuri come fatto metaculturale, prodotto di una trasformazione dell’habitus in qualcosa di diverso; do per ugualmente acquisito il fatto che il ‘codice patrimoniale’ sia parte di un’ideascape: un codice transnazionale cioè che può essere variamente utilizzato ovunque e secondo modalità locali (I. Maffi, «Antropologia», 7, 2006).
[3] F. Dei, C. Di Pasquale (a cura di), Rievocare il passato: memoria culturale e identità territoriali, Pisa, Pisa University Press, 2017: 12-13; F. Dei, Rievocazioni storiche, «Antropologia Museale», numero monografico, Etnografie del contemporaneo: le comunità patrimoniali, anno 13, n°37/39, 2017: 144-148.
[4] Ibidem.
[5] R. Harrison, Heritage. Critical Approaches, London, Routledge, 2013.
[6] F. Mugnaini, Le feste neo-medievali e le rievocazioni storiche contemporanee, “Lares”, LXXIX, n°2-3, 2013; Fabio Dei, Caterina Di Pasquale, Rievocare il passato, cit.
[7] Documento dattiloscritto; non pubblicato.
[8] idem
[9] idem
[10] Fabio Mugnaini, Le feste neo-medievali, cit. :138
[11] Ivi: 139
[12] Fabio Mugnaini, Le libertà della festa tra storie e teatro. Rievocazione storica e pratica festiva in F. Dei e C. Di Pasquale cit.: 83
[13] Ivi: 84
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Emanuela Rossi, docente di discipline DEA all’Università di Firenze dove insegna Antropologia Culturale e dei Patrimoni. Presso la Scuola di Specializzazione in Beni DEA dell’Università di Perugia insegna Antropologia museale. Ha cominciato a lavorare su temi patrimoniali, inizialmente da una prospettiva museale, nel 2003, conducendo la ricerca di dottorato presso il Museum of Anthropology di Vancouver (Canada). Qui ha lavorato sul processo di formazione della collezione di manufatti prodotti dagli indigeni della costa nordoccidentale del Canada. Sempre in Canada fa parte della Great Lakes Research Alliance for the study of Aboriginal Arts and Cultures (GRASAC): un gruppo di lavoro internazionale che sta conducendo un progetto di digital repatriation. Attualmente sta facendo ricerca sui processi di “indigenizzazione” dei musei nazionali canadesi con una ricerca sulla National Gallery of Canada (Ottawa). In Italia, in questo momento, sta lavorando su alcune «comunità di eredità» nella prospettiva dell’antropologia dei processi di patrimonializzazione.
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