Che le cose non esistono senza le parole non è meno vero di quanto non lo siano le parole senza le cose. L’evidenza empirica di questa verità non sempre si ritrova nella teoria e nella pratica del senso comune. Si tende piuttosto a enfatizzare ora le cose ora le parole secondo una concezione dura a morire che, nella radicalizzazione di vecchie e nuove antinomie, separa il fare dal rappresentare, la dimensione materiale da quella immateriale, il significante dal significato. Paradossalmente perfino tra i filosofi ancora oggi si discute se la realtà effettuale esista al di fuori del nostro pensiero o se noi non abbiamo mai a che fare con le cose in sé ma sempre e soltanto con apparenze e interpretazioni, con le cose così come appaiono a noi.
Senza smarrirci negli avventurosi tornanti dialettici tra il reale e il virtuale della postmodernità, è bene tenerci ben saldi e fedeli a quell’elementare principio di reciprocità in base al quale si rendono intelligibili i significati per il tramite delle cose, e si possono capire le cose solo attraverso i significati delle parole, in una sorta di relazione consustanziale. Le cose valgono per ciò che significano ma significano qualcosa grazie alla loro forma, al loro volume, alla loro oggettiva fisicità, alla loro irriducibile materialità.
Pur nella consapevolezza che i segni che stanno per le cose non sono le cose in sé ma soltanto la loro rappresentazione, che non esiste cioè cultura disincarnata dagli elementi tattili e vitali delle materie in cui si manifesta, è indubbio che oggi siamo trascinati, come fragili foglie sulle acque di una corrente impetuosa, da un tumultuoso e inarrestabile processo di dematerializzazione della realtà e di evaporazione della fisica degli oggetti, in corrispondenza ad una prepotente e pervasiva conversione digitale delle tecniche, dei linguaggi e dei saperi. Nel mondo del lavoro e, più in generale, in quello della economia, nella cultura mediatica come nella vita quotidiana tutto pare rarefarsi e dissolversi nella dimensione virtuale, nella astratta volatilità della misura ponderale, nella «polverizzazione» di quella realtà che si regge su «entità sottilissime: come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quark, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempi….», per usare le parole di Italo Calvino che nelle sue Lezioni americane del 1985 aveva già intuito che i «bit senza peso» avrebbero governato le vecchie «macchine di ferro».
Prive di densità e di forza di gravità, le cose che abitano il nostro tempo digitalizzato sembrano esistere e vivere nel regime platonico delle idee, nella evanescenza di una realtà liquefatta, nel flusso ininterrotto che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici. Gli oggetti, ridotti a proiezioni fantasmatiche del soggetto, apparentemente non posseggono più corpo né anima, non passano più tra le mani degli uomini, non hanno più referenti tangibili, dissipano – come direbbe Barthes – «il piacere, la dolcezza e l’umanità del tatto», sostituiti da icone, simulacri e pixel a cristalli liquidi. Nel grande potlàch della società dei consumi sulla funzione utilitaria prevale un’ipertrofia del senso che ha convertito l’uso in segno di questo uso. Al processo di dematerializzazione degli oggetti si accompagna dunque una progressiva indistinzione tra il concreto e l’astratto, tra il reale e il reality, tra l’empirico e il rappresentato. Perfino i musei, spazi per antonomasia di solide collezioni di patrimoni materiali, vanno sempre più assumendo un profilo algido e computerizzato, sulla base di certe esasperate soluzioni metalinguistiche che privilegiano ricostruzioni multimediali e rielaborazioni virtuali. Con la dissoluzione delle cose in mute ed effimere parvenze evapora perfino la scrittura, la datità segnica per eccellenza; scompare addirittura l’anello centrale dello scambio, la moneta, che circola invisibile nel cielo della finanza.
A fronte di questa decostruzione della realtà effettuale, dell’impalpabile eclissi dell’oggetto dall’orizzonte della percezione soggettiva, si è sviluppata da qualche anno, in evidente e significativo contrappunto, un’attenzione nuova e diffusa da parte di filosofi, sociologi, semiologi e antropologi che sono tornati ad occuparsi di cultura materiale da una prospettiva diversa, da un’ottica che rovescia l’antropocentrismo, dall’ipotesi cioè di studiare le società e le culture a partire dagli oggetti piuttosto che dalle persone, dall’idea di mettere al centro la materialità che è sostrato visibile e imprescindibile delle vite degli uomini, ciò che rende tangibile e intelligibile il mondo. Da questo presupposto muove l’interesse di molti studiosi che, nel ricongiungere quanto si tende ancora a separare, riconducono ad unità e ibridano le due dimensioni, quella tecnica e quella comunicativa, ovvero, secondo le categorie definite da Alberto Mario Cirese, la fabrilità e la segnicità, che appartengono costitutivamente e indissolubilmente agli oggetti. Contro la concezione grettamente merceologica da un lato e quella eminentemente pansemiotica dall’altro, si restituisce in questo modo la loro vera natura, quella di essere estensioni e appendici del corpo e, in quanto incorporati nelle pratiche e nei gesti quotidiani, soggetti dotati di «biografia culturale», secondo l’espressione di Igor Kopytoff, non materia inerte ma vitale, viva non animisticamente ma socialmente. Del resto, già il vecchio Marx aveva spiegato che nel regime capitalistico non sono soltanto gli uomini a fabbricare i prodotti ma sono gli stessi prodotti a plasmare la vita e l’identità degli uomini.
La verità è che non esiste cultura che non sia oggettivata e oggettualizzata, né oggetto che non sia segno di qualcos’altro, dal momento che nulla è più eloquente delle parole che sono materializzate nelle cose. Nel processo di oggettivazione dei soggetti e di soggettivazione degli oggetti, questi ultimi sono non soltanto buoni da usare ma anche “buoni da pensare”, per dirla con Lévi-Strauss. Che gli oggetti abbiano una loro vita per certi aspetti indipendente, per altri in autonoma e densa interazione con quella degli uomini, lo aveva già evocato Borges nei versi di una sua poesia: «Quante cose,/ lime, soglie, atlanti, coppe, chiodi,/ ci servono come taciti schiavi,/ cieche e stranamente segrete!/ Dureranno più in là del nostro oblìo;/ non sapranno mai che ce ne siamo andati». Non solo testimoni ma anche produttori di storia, siano essi esemplari o banali, gli oggetti portano sul loro corpo le tracce dell’umano, anzi, per dirla ancora con Calvino, «l’umano è la traccia che l’uomo lascia nelle cose, è l’opera, sia essa capolavoro illustre o prodotto anonimo di un’epoca. È la disseminazione continua di opere e oggetti e segni che fa la civiltà, l’habitat della nostra specie, sua seconda natura».
Al di là della letteratura, l’antropologia è il luogo in cui ci si interroga con più profondità sul perché le cose non sono soltanto cose, sui modi in cui, assieme agli animali e alle piante, abitano nelle nostre esistenze, vivono oltre la nostra finitudine o si consumano sempre più rapidamente per obsolescenza, rapprendono la memoria del tempo, agiscono sul mondo come punti nodali di una rete che ne ordina e struttura lo spazio. Degli oggetti come centri di irradiazione di relazioni sociali e significati culturali hanno scritto non pochi antropologi, della scuola anglofona (Mary Douglas, Annette Weiner, Daniel Miller, Arjun Appadurai, per citare solo alcuni nomi) ma anche di quella francofona (André Leroi-Gourhan, Jean Baudrillard, Marcel Mauss, Pierre Bordieu, tra gli altri). Hanno ragionato sulla società dei consumi, sulle teorie dello scambio e della reciprocità, sui confini tra merci e doni, sui poteri simbolici iscritti nelle cose e sulle relazioni tra materiale e immaginario, tra saperi e tecniche del corpo.
Sulla scia di un’antropologia che segue le cose, la loro circolazione, la loro funzione e la loro trasformazione, si segnala la recente pubblicazione di due volumi di studiosi italiani che alla cultura materiale hanno dedicato la loro attenzione da due diversi punti di vista. Ugo Fabietti è l’autore di Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa (Cortina ed. 2014). La lettura della metafisica della religione attraverso la fisica del mondo materiale dischiude un inedito percorso di indagine che ossimoricamente conduce dall’assenza del trascendente alla presenza dell’immanente, dalla spiritualità della fede alla materialità dell’azione rituale, dal momento che – come scrive Fabietti – «la dimensione materiale è ciò che, di fatto, rende possibile pensare e “concretizzare” l’esperienza della trascendenza». Non c’è devozione, credenza, rappresentazione sacra o pietas che non presupponga qualche supporto strumentale, artefatto o immagine, oggetto che dall’ambito dell’usuale e del quotidiano slitta nella sfera del simbolico e del cerimoniale.
Nel passare in rassegna le religioni nella storia e nella geografia, l’autore non presenta alcun catalogo dei parafernalia ovvero dei manufatti che corredano culti e liturgie. Articola piuttosto il suo ragionamento intorno a precise unità tematiche e concettuali, a cruciali punti di snodo che incrociano e connettono la cultura materiale e l’antropologia del sacro. Gli sconfinamenti disciplinari e la traiettoria trasversale delle argomentazioni dispiegano uno scenario che per illustrare il senso dell’autorità su cui si fonda la forza della verità di ogni religione, mette insieme, per esempio, lo scettro divino di Agamennone e il simbolo della croce, il santo cristiano tardo antico e quello berbero moderno, Padre Pio di Pietralcina e i martiri islamici kamikaze. Il potere carismatico, in tutti questi casi, è comunque retto e sostenuto dall’uso o ostensione di “cose”, siano esse naturali o credute di origine divina. «Per quanto “spirituale” possa essere una religione, non c’è modo di separarla da una sua base materiale fatta di oggetti manipolabili, di gesti, di immagini reali».
Dall’albero alla roccia, dalla rappresentazione figurata della divinità all’ostia consacrata, vale a dire l’insieme dei feticci e degli idoli, degli amuleti e dei pali totemici, dei simulacri e delle reliquie, costituisce uno straordinario patrimonio materiale, la cui fascinazione sta nella loro capacità di azione e di penetrazione nell’ordine del trascendente, grazie alla loro posizione liminale tra il naturale e il soprannaturale, tra l’umano e il sovraumano, tra il visibile e l’invisibile. Tutte le religioni, pur nella ambivalenza delle rispettive posizioni teologiche, affidano alla materia, alla sua specifica natura, alla sua struttura molecolare, alla sua stabilità nel tempo come alla sua transustanzialità, alla permanenza cioè della sua essenza sotto forme diverse, la straordinaria facoltà di veicolare e rappresentare il sacro, di ospitare la divinità o di agire su di essa. Così come nessuna religione può fare a meno delle immagini, siano esse figure antropomorfe o astrazioni simboliche, dal momento che non esiste alcuna cultura aniconica né è possibile alcun sistema mitico-rituale che non abbia a fondamento un qualche investimento iconografico. «Questo vale – scrive Fabietti – per il cattolico che osserva la sua scatola di Misericordia come per il bororo che si addobba con un manto di penne del pappagallo arara; per il musulmano che guarda la Ka’ba dal vivo o in fotografia (o in un quadro) come per l’ebreo che maneggia i rotoli della Torah o l’iniziando aborigeno che osserva , rapito, le linee incise sul churinga del proprio clan».
Il corpo è al centro di moltissime pagine del libro, dal momento che è «insieme la parte più intima dell’uomo e quella più sensibile dell’universo», come sostiene Augé, emittente, vessillifero e produttore di segni, il primo oggetto tecnico con cui e su cui si esercita l’azione religiosa: il corpo quale oggetto iniziato e addestrato, esposto e sottoposto, offerto e sofferto, manipolato e disciplinato, mutilato ed esaltato nelle sue dimensioni sensoriali e gestuali, codificato nella rigidità e solennità dei riti, sublimato nelle astinenze e negli ascetismi, sacralizzato nel dono di sé. Visceri, ossa, denti, peli, ciocche di capelli e grumi ematici costituiscono preziose reliquie, non solo nei culti del cattolicesimo. Il corpo è associato al sangue e l’uno e l’altro significano la vita e contemporaneamente la morte. La loro commistione nella metafora dei linguaggi e delle prassi religiose vale ad evocare la caducità e l’eternità, l’alfa e l’omega di tutte le teologie. «Nessuna religione – scrive Fabietti – ignora questi due elementi estremamente materiali e corruttibili della vita umana». Nessuna religione sembra estranea alla produzione della violenza, consustanziale alla idea e alla pratica del sacrificio, a quel “fare sacro” che passa attraverso un atto violento esercitato sugli animali destinati a nutrire la divinità con il loro sangue. Da qui anche le radici culturali del fenomeno del martirio, a cui si attinge per raggiungere la trascendenza per via della dissoluzione del corpo, che resta vettore fondamentale di tutte le esperienze religiose. Secondo una concezione circolare del rapporto che in tutte le religioni lega vita, morte e rinascita, il sacrificio del singolo è il passaggio rituale che assicura l’eternità del gruppo dei credenti e della comunità sociale.
I gesti, a cui l’autore dedica un intero capitolo, in quanto associati alle pratiche sacre, sono essi stessi “materialmente” strumenti e supporti oggettuali fondamentali nelle più diverse manifestazioni cultuali. Si pensi al segno della croce da parte dei cristiani, al costume di togliersi le scarpe del musulmano prima di fare ingresso nella moschea, al rito dell’aspersione del terreno con l’acqua da parte dello zuñi, per assicurare la fertilità della terra. All’interno di determinati schemi rituali i gesti non solo accompagnano le parole ma hanno anche efficacia performativa, possono perfino “fare nuovi esseri umani”. Così è, per esempio, con la circoncisione, con la benedizione o con altri atti di iniziazione che trasferiscono forze extraumane iscritte nel gesto ai corpi dei soggetti “consacrati” al nuovo status. Né si tralasci di considerare che cristiani, musulmani, induisti e buddisti usano pregare facendosi guidare nella recitazione da un eguale oggetto, il rosario, con la filza dei piccoli grani, di legno o di corda, che scorrono tra le dita per tenere il conto delle orazioni.
Avvalendosi di amplissime fonti storiche ed etnografiche, il libro di Fabietti si muove in una prospettiva comparativista tessendo sorprendenti corrispondenze e correlazioni tra mondi lontani e tra fedi diverse, tra le icone buddiste e i feticci africani, tra i riti cattolici del Corpus Domini e quelli celebrati a Cuzco, capitale dell’immenso impero Inca, tra i culti dionisiaci dell’antica Grecia e quelli adottati dalle tribù della Nuova Guinea. Tenendosi lontano da ogni trappola etnocentrica che sulla base di gerarchie di giudizio distingue tra magia e religione, tra false superstizioni e vere devozioni, l’antropologo ripercorre la cultura materiale della storia religiosa dell’umanità con lo sguardo di chi sa che le cose investite di un’aura sacra – senza distinzioni tra feticci e reliquie, tra idoli e simulacri, tra amuleti ed ex voto – nel metterci in comunicazione con la trascendenza, parlano di noi, condividono con noi l’orizzonte dell’immanenza, vivono e agiscono come noi, incarnano e materializzano le nostre relazioni sociali, i nostri bisogni culturali. Attraverso questi oggetti mettiamo ordine nelle nostre vite e nella nostra concezione del mondo, nel sistema di costruzione della realtà fisica e di quella metafisica. «La trascendenza – ci ricorda Fabietti – non è una sovrastruttura, ma una struttura vera e propria del sentire e dello stare nel mondo. Gli esseri umani vivono grazie a un continuo rimando tra il piano dell’ordinario e quello del trascendente, che non coincide peraltro col “religioso”, un piano di esperienza che, oltre a comprendere la dimensione della trascendenza, è attraversato da forze storiche, politiche e sociali».
In un tempo in cui le culture religiose sembrano irrompere con una inquietante pervasività in ogni luogo dello spazio pubblico, nelle dinamiche politiche ed economiche come nelle guerre di potere, la ricerca condotta da Ugo Fabietti sugli universi materiali e simbolici del sacro ci aiuta probabilmente a riflettere su quanta violenza sia “incorporata” nell’assolutezza di quei monoteismi concorrenti e confliggenti che rivendicano forme supreme della autorità e della verità. Ci spinge a decentrare lo sguardo e a leggere con nuovi codici quanto accade nella drammaticità della cronaca contemporanea, nel connubio incestuoso tra politica e religione che sta paradossalmente producendo, da un lato, la distruzione di antiche icone di divinità e civiltà illustri e, dall’altro, la elaborazione di nuove icone attraverso i filmati diffusi ed esibiti in forma di moderne autoidolatrie. A guardar bene, la barbarica furia iconoclasta a cui oggi assistiamo impotenti nasconde una segreta e non meno barbarica iconofilia, ovvero la spettacolarizzazione mediatica della violenza distruttrice, una strategia che non fa che confermare la potenza simbolica delle immagini quali oggetti costitutivi e imprescindibili del sacro, cardini fondamentali di quella materia sacra indagata dall’antropologo. Il quale, nell’invitarci a conoscere meglio le “cose” per capirne i significati, ci esorta in fondo a fare i conti con la ricomposizione di spirito e materia, di oggetto e soggetto, per tentare di comprendere le complesse narrazioni delle religioni e le non meno complesse ragioni dei credenti.
Sulle cose che per un verso “sono fatte” dagli uomini ma per altri aspetti “fanno” gli uomini hanno scritto, in un volume appena edito, Antropologia della cultura materiale (Carocci 2015), altri due studiosi italiani, Fabio Dei e Pietro Meloni. La prospettiva è in questo caso orientata a descrivere e a passare in rassegna le diverse teorie e metodologie che hanno storicamente influenzato gli studi della disciplina. Muovendo dalla tradizione del collezionismo e dall’interesse scientifico per gli oggetti rappresentativi delle culture extraeuropee, gli autori ripercorrono l’evoluzione dei modelli museografici in corrispondenza delle ricerche etnografiche via via condotte sulla spinta del colonialismo e della fascinazione esotica. Da qui prende forma il concetto di arte primitiva, promosso e sostenuto dalla sguardo rapito degli artisti occidentali come Picasso, Matisse, Brancusi e Braque. Nel passaggio dalla fase positivistica ed evoluzionista dell’antropologia ai nuovi orientamenti della prima metà del Novecento, dominati dal funzionalismo e dallo strutturalismo, gli oggetti sembrano perdere il loro primato parallelamente ad una «dematerializzazione» durkheimiana dei fatti sociali e al privilegiamento dei temi sovrastrutturali, come la parentela, i riti e le credenze. Sarà la scuola di tecnologia culturale, fondata da Leroi-Gourhan, a rimettere al centro gli elementi materiali, all’interno di un disegno evolutivo del processo di ominazione che spiega il mutuo equilibrio tra “il gesto e la parola”. Questa lezione sarà rielaborata nel contesto italiano dalla riflessione scientifica di Alberto Maria Cirese.
Dopo aver analizzato la tradizione degli studi sul mondo popolare e delle intense esperienze museografiche impegnate nel recupero degli strumenti del lavoro contadino e artigiano, il volume si intrattiene più diffusamente sui più recenti indirizzi di cultura materiale che, nel riconsiderare gli oggetti nella nuova accezione di beni patrimoniali, «estendono l’attenzione alle pratiche della circolazione e del consumo oltre che a quelle della produzione, e includono i manufatti ordinari e seriali dell’industria e del mercato di massa». Sono queste le pagine più interessanti, quelle dedicate a definire il profilo di un’antropologia del quotidiano che, a partire dalla ricognizione delle piccole e banali cose della vita contemporanea, s’interroga sui significati che gli utenti attribuiscono agli oggetti che usano, sui modi in cui il telefonino con cui sto parlando, l’abito che indosso o l’auto che ho comprato interagiscono con un certo tipo di relazioni sociali, incorporano determinate dinamiche culturali.
In questa prospettiva omnicomprensiva dell’antropologia della cultura materiale trovano spazio anche le nuove rarefatte tecnologie digitali, che come tutte le cose finiscono con l’essere investite dei valori di affezione e di emozione umana e come tali sono destinate ad essere personalizzate e risignificate. Nelle molteplici forme di negoziazione e di convivenza con gli oggetti domestici sono in gioco questioni che attengono alla soggettività degli individui e alla identità delle collettività, in una parola alla essenza delle culture. Ecco perché – come scrivono gli autori a conclusione del libro – «l’attenzione dell’antropologia si indirizza non sulle cose o sugli oggetti in sé, ma sui processi di oggettivazione che governano la costante interazione fra esseri umani e mondo materiale». Come dire, se le cose non sono soltanto cose è perchè sono compagne della nostra vita, dialogano con noi, raccontano di noi, mediano il nostro rapporto con il mondo, sono la nostra seconda natura.
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia
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