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Il ‘paradigma New York City’

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Skyline del Grand Central Terminal, oggi, con il Pan Am Building sullo sfondo

di Flavia Schiavo

La trasformazione newyorkese, tra fine XIX e inizi XX secolo, non avvenne con modalità analoghe a quelle europee. In quel contesto geografico (con poche eccezioni, es. il caso londinese), i Piani regolatori erano concepiti sia come un articolato sistema di previsioni utili a garantire il controllo pubblico e la coerenza dello sviluppo attraverso regole stabilite ex ante, sia come uno strumento per irreggimentare e orientare il cambiamento verso una specifica direzione prefigurata, limitando in teoria i gradi di libertà dei singoli individui e delle imprese.  Il Piano, dunque, era un ‘modello’ ispirato a un’esplicita concezione di città e di società (Schiavo, 2004) e conteneva una chiara narrazione di un futuro previsto.

Una ipotesi di città, non precisata ex ante, era comunque veicolata anche dal Commissioners’ Plan del 1811: l’idea, implicita e probabilmente inconsapevole riguardo agli effetti, era quella del ‘non’ definire la trasformazione se non come flusso interscalare (spazi e persone) non governato istituzionalmente. La cultura del ‘piano’ ­– che stava strutturandosi in gran parte dell’Europa su un solido sistema di analisi, su una integrazione delle competenze disciplinari e professionali, sulla stretta interazione tra i portatori di interesse e la politica, a volte su alcuni aspetti utopici e sul binomio ‘controllo e previsione’ – non attecchì a New York dove il dinamismo in corso rese imprescindibile un alleggerimento delle prassi, istituendo un feedback tra le stesse procedure e il cambiamento.

Il governo urbano locale, la forma procedurale del Piano del 1811 e la sua maglia ortogonale senza vincoli, spaziali o temporali, innescarono a New York un’evoluzione fondata sull’iniziativa individuale, piuttosto che su quella pubblica, sul mercato immobiliare, sulla ‘competizione’, sulla rapidità dello sviluppo, sulla pluralità dell’azione, tutte condizioni che contraddistinsero la crescita di New York tra XIX e XX secolo.

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Commissioners Plan del 1811

Per comprendere meglio la differenza tra il modello europeo (pur differenziato al proprio interno) e il processo newyorchese, può essere utile comparare il Plan del 1811 per New York e il Plan Cerdà del 1859 per Barcellona, il piano ottocentesco in cui l’urbanistica del XIX secolo si espresse compiutamente sia in termini teorici che empirici, attuando una rifondazione urbana attiva sia a livello concettuale che materiale (Schiavo, 2004). Se dal mero esame delle mappe dei due piani si rilevano alcune similitudini, soprattutto relative alla trama urbana ortogonale (proposta a Barcellona e a New York), un secondo approfondimento, orientato a valutare la struttura (anche normativa) e gli esiti degli strumenti, rende chiaro come all’altissima volontà di controllo dell’urbanista catalano (Cerdà) corrisponda la scelta opposta dei Commissioners, cioè quella di non fissare alcuna regola: eccetto la geometria del Grid, non furono fornite indicazioni sugli indici di cubatura, sulle altezze, sui distacchi, sulle localizzazioni dei servizi o degli spazi pubblici.

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Plan Cerdà per Barcellona, 1859

Se la Barcellona del XX secolo era stata progettata come uno spazio egualitario (ogni individuo era pari all’altro e aveva i medesimi diritti), New York solo in apparenza era fondata sull’omogeneità del Grid. Esso – trama forte e non strutturata nel contempo – diede vita a una città disomogenea, più apertamente competitiva, in cui lo spazio era una risorsa contesa soprattutto dal settore privato, che produceva ‘valore’ socio-economico e formale ed esprimeva un potere individuale e/o collettivo incrementale (la città diventava, progressivamente, un magnete attrattivo per imprese e persone). Considerando sempre la forza di un comparto di produzione: il real estate market, collegato a tutti gli altri comparti produttivi, la geometria dello spazio data nel Plan del 1811 non influenzò rigidamente la forma urbis newyorchese, nemmeno in planimetria (soprattutto riguardo agli spazi pubblici i quali, non previsti dal Grid, si svilupparono man mano). L’eterogeneità nacque infatti nell’ambito della maglia ortogonale del Piano che non ebbe particolari effetti regolativi se non per ciò che riguarda la struttura viaria.

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Manhattan vista dal Rockefeller Center, 1932

Alla trama dei lotti segnati a terra (a volte estremamente frazionati, a volte accorpati) non corrispondeva difatti alcuna conformità in alzato né alcun riscontro tra forma dell’isolato e forma degli edifici. NYC, allora, eluse la grande illusione dell’urbanistica europea ottocentesca (il massimo controllo e la corrispondenza tra l’idea urbis e gli esiti prefigurati), integrando l’incertezza e trasformando essa in un punto di forza. L’incompiutezza newyorchese, all’origine stessa della città, era parte del suo DNA urbano e come tale divenne elemento caratterizzante della trasformazione. 

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Barcellona, l’espansione più omogenea in pianta e in altezza

NYC attuava il ribaltamento di quel paradigma che, teoricamente forte, veniva sovente rinnegato nella concreta realizzazione delle città europee, dagli effetti incrociati delle variabili in campo o dal ruolo surrettizio dei privati. Come è noto, infatti, nemmeno la ‘visione’ del catalano Ildefons Cerdà garantì una conformità tra il Piano del 1859 e l’esito del Piano: gli isolati aperti di Cerdà, contenenti spazi semi-pubblici a verde furono saturati; le altezze degli edifici, inizialmente limitate, furono trascese; la distribuzione dei servizi venne modificata; l’auspicata omogeneità dei valori immobiliari subì numerose fluttuazioni, innescando gentrification e sperequazione, pur mantenendosi nel tempo alcuni elementi strutturanti del piano che sono ancora l’ossatura della Barcellona contemporanea. Tra essi il sistema di spazi e di strade gerarchico e integrato o la forma degli isolati con gli angoli smussati, un’imponente soluzione estetica e formale che mostrava, nel paesaggio urbano del Novecento, l’integrazione possibile tra architettura e urbanistica.

Il Commissioners’ Plan fu, invece, un incipit lineare e basico che liberò gradi di libertà imprevisti, non-lineari e incrementali, innescando feed-back tra l’assenza di strategie e di regole prefissate e la vitalità urbana: i valori immobiliari in fluttuazione, le scelte di localizzazione spesso di iniziativa individuale esterne al governo urbano istituzionale (il primo zoning è del 1916), il ruolo dei privati e degli investitori o delle compagnie, i vantaggi della mobilità e dei posizionamenti, furono motore dello sviluppo e delle opportunità tra caso, necessità e ‘intelligenza produttiva e adattiva’.

In tal senso furono emblematici i progetti via via realizzati: le grandi stazioni e la metropolitana; i parchi e i giardini; gli spazi pubblici; gli edifici ‘alti’. Anch’essi parte attiva del ‘mercato’, connessi alle tecnologie costruttive, alla produzione dell’acciaio, alle migrazioni (altissima disponibilità di manovalanza), fecero di New York un laboratorio sperimentale in progress, estraneo alla razionalità dell’urbanistica europea ottocentesca e novecentesca.

Esempio chiaro della ‘logica’ non predeterminata del Commissioners’ Plan si riflette sia nella localizzazione degli spazi pubblici o dei parchi urbani, delle Compagnie o degli skyscrapers, come delle stazioni (Penn Station e Grand Central Terminal), sia nel ruolo dei singoli imprenditori nelle realizzazioni, che negli effetti combinati sulla città e sul sistema dei valori urbani soprattutto nella prima parte del XX secolo quando, a proposito dei grandi hubs, fu ultimato il Grand Central Terminal  e furono interrati i binari che correvano al centro di Park Avenue (prima chiamata Fourth Avenue).

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New Grand Central Terminal, 1913 (da New York  Library)

Le ferrovie e la nascita di una città nella citta: il Grand Central Terminal

Un ruolo determinante nella costruzione del grande Terminal completato nel 1913 lo ebbe Cornelius Vanderbilt sr (1794-1877), imprenditore in ambito ferroviario in un secondo momento della sua ascesa, iniziata con il comparto marittimo. Vanderbilt, olandese di origine, fautore di un’immensa fortuna, avviò con la sua azione imprenditoriale il processo che condusse al compimento di una grande impresa urbana, la costruzione dell’attuale  Grand Central Terminal (aperto il 2 febbraio 1913) che non si configurò solo come una stazione, un ombelico urbano, un punto di snodo o un edificio ‘monumentale’ (in stile Beaux Arts di matrice francese e con influenze catalane al proprio interno)[1], bensì come l’esito di un iter inizialmente disarticolato, fortemente competitivo, in cui più imprese avevano gestito tranche differenti della rete (tra esse: la New York & Harlem Railroad; la New York & New Haven Railroad; la Hudson River Railroad; la New York Central Railroad), poi unificate per la partenership pubblico/privato, connaturale al ‘paradigma New York City’. Fu proprio coerentemente con tale paradigma che gli investimenti dei Vanderbilt, l’evoluzione tecnologica, la risposta della municipalità, l’apporto di altri stakeholders locali, la competizione, e il ruolo tecnico di alcuni professionisti, avviarono un andamento in progress che condusse, nel 1913, al compimento del Grand Central Terminal.

Tra i tecnici che ebbero un ruolo determinante, William J. Wilgus, ingegnere capo (che, tra l’altro, con una creativa soluzione ingegneristica, progettò l’assemblaggio della rete elettrificata, nel centro nevralgico del nascente Terminal) e vicepresidente della New York Central Railroad (NYC)[2] linea ferroviaria fondata nel 1853, poi fusa con la Pennsylvania Railroad.

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da Associated Press, 1954

Furono vari fattori – l’espansione urbana, l’arrivo di un enorme quantità di migranti, l’insediarsi di attività economiche sia a Manhattan che negli altri 5 Distretti, tra cui soprattutto Brooklyn e i Queens – a rendere pressante la riorganizzazione del sistema ferroviario, e fu proprio C. Vanderbilt sr che, in avanzata età (circa settanta anni), rivolse l’attenzione verso il comparto costruendo un impero economico transcontinentale, non unicamente limitato a New York.  Il Commodore (questo era il suo soprannome) tra il 1863 e il ‘67, infatti, acquisì il controllo della New York & Harlem, della Hudson River Railroad e della New York Central Railroad, consolidando le tre società in una nuova che divenne fondamento della rete diffusa, incanalata a Manhattan, utilizzando inizialmente un’unica linea (l’Harlem) per circa 8 km, tra la 42nd Street, la 48th Street e il Bronx.

Per l’edificazione delle stazioni nella loro realizzazione definitiva furono acquistati i lotti nell’area tra Fourth Avenue e la 42nd Street. All’ultimo edificio, risultato insufficiente già nel 1898 (anno chiave per lo sviluppo urbano, per il ‘Consolidamento’ dei Five Bouroughs), vennero apportate alcune modifiche sotto la direzione di B. Lee Gilbert, il progettista del primo edificio ‘alto’, forse il primo skyscraper, il Tower Building (1889, 11 piani e mansarda, demolito nel 1913).

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New York, elevated Railroad 6th Avenue line, 1886

Due anni dopo l’architetto Samuel Huckle e l’ingegnere William J. Wilgus intervennero sugli interni, mentre era indifferibile la necessità di ricalibrare ulteriormente il terminal per dotare la città di uno snodo, e insieme di un punto di arrivo, in grado di assorbire il crescente traffico ferroviario della metropoli in rapido sviluppo innervata con il resto dell’America del Nord e del mondo. La costruzione risultante da queste progressive demolizioni e modifiche fu ribattezzata Grand Central Station.

Nel contempo era diventato impellente risolvere il nodo del tunnel sottostante l’attuale Park Avenue (completato nel 1875 e finanziato da privati e dalla municipalità), spesso pieno di fumo per l’uso delle locomotive a vapore. Per tale ragione occorrevano sia la complessiva elettrificazione del sistema sia l’interramento della ferrovia (ancor più dopo il 1902 anno in cui si verificò un grave incidente nel tunnel).

In quella fase una linea concorrente, la Pennsylvania Railroad, puntando a invadere i ‘territori’ dei Vanderbilt, annunciò che sarebbe stata costruita una nuova stazione sulla West Side, mentre la Rapid Transit Commission minacciò di istallare una linea di subway sotto la Grand Central Station, contrastando i diritti sotterranei della rete ferroviaria.

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Park Avenue tunnel

Anche per le pressioni da parte dei competitors, Wilgus riformulò per intero il progetto – approvato nel marzo del 1903, esso sostanzialmente riflette l’attuale Grand Central Terminal – pensando a un terminale sotterraneo a due livelli su cui edificare uffici, strutture rappresentative e produttive e numerosi servizi. Un sistema complesso e pianificato che prevedeva non unicamente l’estensione della rete, sia in verticale che in orizzontale, ma progettava una intera città artificiale nella città, costituita da corridoi di attraversamento, lobbies, spazi monumentali e pubblici tutti interni alla stazione. Esito e attivatore di dinamiche, si configurò come una infrastruttura al cui interno si esperiva un ‘quotidiano sociale’ innovativo, e divenne uno tra gli spazi e tra i luoghi più complessi e rappresentativi di New York.

Un lungo viaggio, tra azzardo e potenza di impresa

Va ricordato che il sistema ferroviario a New York, parte vitale del ciclo economico e catalizzatore di trasformazioni sociali e urbane, iniziò a strutturarsi dal 1832 quando furono connesse Prince Street, all’estremo Nord di Downtown, la Bowery, Union Square (ribattezzata in tal modo proprio nel 1832), con il ‘villaggio’ di Harlem in Uptown, tramite locomotive in parte trainate da cavalli, attivando così un maggiore sviluppo del tessuto edificato nella parte settentrionale di Manhattan.

Se dal 1849 le fermate per i passeggeri vennero incrementate, toccando le 42nd, 51th, 61th, 79th, 86th, 109th, 115th, 125th e 132nd Streets, fu stabilito un limite meridionale, la 42nd Street, per l’uso delle locomotive che correvano da Nord verso Sud. Da quella strada esse venivano rimorchiate da cavalli verso la porzione meridionale di Manhattan, sia per contenere l’impatto a Midtown e Downtown sia perché gruppi di abitanti, tra cui, nel 1858, alcuni facoltosi membri della upper class residenti a Murray Hill (tra la 34th Street, la 40th Street, Madison Avenue e l’East River), convinsero il Common Council a emanare un decreto che vietasse il vapore oltre la 42nd Street (per le esplosioni delle caldaie, gli incendi conseguenti e l’inquinamento). Anche per tale ragione l’area intorno alla 42nd, già fulcro urbano e ambito di connessione a forte densità sociale e di impresa, venne scelta come luogo idoneo per la costruzione della nuova stazione completata nel 1871, la prima delle due poi sostituite dal Grand Central Terminal, inaugurato appunto nel 1913.

Fu, come già detto, Cornelius Vanderbilt sr il primo magnate americano che, investendo localmente nelle ferrovie, incrementò la ‘rete’ e il proprio impero economico costruito originariamente su una vasta attività di navigazione sull’Hudson River e verso San Francisco, durante la Corsa all’oro, la California Gold Rush, iniziata intorno al 1850. Confermando il rapporto tra comunicazioni, infrastrutture e sviluppo dell’America del Nord, spostando il suo interesse verso le ferrovie e acquisendo Compagnie del settore, Vanderbilt inaugurò nuove forme di comunicazione mediatiche ante litteram (anche con strategie pubblicitarie populiste), di rapporto con il potere politico e di organizzazione aziendale, unendo le numerose linee ferroviarie prima concorrenti, trasformando le infrastrutture e ‘rimodellando’, attraverso le infrastrutture stesse, non solo NYC  (i Five Boroughs), ma l’intero Stato di New York.

L’operato di Vanderbilt fa emergere, soprattutto se osservato ex post, una raffinata strategia politico-economica che potrebbe aver guidato il visionario magnate dei trasporti, azionista di tre delle quattro compagnie ferroviarie attive in quella fase. Strategia nata per caso e, forse, elaborata valutando i processi in corso e le interazioni tra essi: la grande immigrazione di irlandesi (forza lavoro insieme ai cinesi della rete ferroviaria nazionale), tedeschi e russi e il configurarsi di New York City come capitale economica. Fenomeni che indussero una crescita immobiliare senza precedenti che interessò, pur in misura diversa, i Five Bouroghs anche prima del Consolidamento, del 1898. A scala urbana, infatti, lo sviluppo della rete e, specificamente, l’interramento dei binari e della stazione, nella sua forma definitiva (il Grand Central Terminal, ha due livelli fuori terra e altrettanti interrati) nonché il passaggio dal sistema a vapore a quello elettrico, influenzarono ampie porzioni urbane e riconfigurarono anche l’intero asse di Park Avenue, prima sede di abitazioni di migranti. Su quel nascente e rinnovato percorso urbano furono, infatti, tracciati i nuovi lotti che attrassero investitori immobiliari e acquirenti danarosi sedotti da quel boulevard americano. 

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Park Avenue Crash, 1902

L’idea di razionalizzare l’intera struttura di collegamento, la scelta di interrare i binari e di elettrificare si fece strada nel corso di alcuni anni, per l’aumento del traffico urbano ed extraurbano alla fine del XIX secolo, come per i numerosi incidenti, sebbene tra controversie e progetti di estensione non realizzati (es. quello proposto dal Commodore in una fase precedente, al di sotto di City Hall). 

L’8 gennaio 1902, quando ormai Cornelius Vanderbilt sr era morto, nel tunnel di Park Avenue avvenne un grave incidente, in cui perirono diciassette persone e ne furono ferite una trentina. Nel 1899, era stata approvata un’ulteriore legge che vietava alle locomotive a vapore di percorrere i tunnel, dando tempo sino al 1908 alle compagnie per adeguarsi ed elettrificare le linee. Gli incendi e gli incidenti erano infatti una minaccia costante: dopo gli incidenti le inchieste avevano rilevato che le stesse nubi tossiche emanate dal vapore avevano accecato gli autisti dei treni, anche per tale ragione le locomotive a vapore iniziarono ad essere limitate già dal 1858. 

Il disastro del 1902, che rese più impellente l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia (come l’elettricità), non fu l’unico; un altro, avvenuto nel 1907 (in cui perirono 24 persone e ne furono ferite 143), ebbe una forte risonanza mediatica producendo una ulteriore spinta al cambiamento, anche se già nel marzo del 1903, Wilgus aveva presentato una proposta dettagliata relativa al terminal che prevedeva una completa elettrificazione e livelli separati per i pendolari e le ferrovie interurbane. Quando il piano fu approvato il Grand Central Depot allora attivo fu demolito in più fasi e sostituito con l’attuale Grand Central Terminal.

Lo sviluppo dell’impero Vanderbilt, tra trasporti marittimi e ferrovie, mette in evidenza ancora una volta quale fosse il ‘paradigma New York’, espressione della profonda interconnessione tra volontà, intuizione e iniziativa individuale (che dava spazio alla voracità e alla intraprendenza degli imprenditori), tra eventi casuali e flussi della storia (esempio le grandi migrazioni e il ruolo dei coloni europei), tra settori pubblici e privati, in un magma che generava rapide e fluide filiere produttive ramificate aventi una stretta attinenza con la trasformazione urbana e territoriale, già fin dal XIX secolo in America del Nord e soprattutto a New York City.

È utile allora ribadire come mai sia ricorrente il termine “caso”, qui inteso come processo non definito apriori: il paradigma newyorchese non nacque infatti da una specifica intenzione, ma dalla confluenza di circostanze in assenza di vincoli stabili. In assenza di troppe norme vincolanti le prassi scaturivano anche in seno all’azione privata (micro e macro) e cambiavano velocemente, fornendo input alle istituzioni di Governo. In altre parole l’interscambio tra la norma e l’iniziativa, talvolta imprudente e spregiudicata, se osservata da occhi europei, divenne (sempre se declinata legalmente) linfa vitale e parte costitutiva del “paradigma New York”.  

Forti relazioni si istituivano tra luoghi e soggetti, anche distanti. Dal 1830 circa, per esempio, furono costruite numerose fabbriche tessili nel New England (regione Nord-Est che comprende gli Stati del Maine, Vermont, New Hampshire, Massachusetts e Connecticut). In questo macro ambito, caratterizzato da una solida realtà coloniale, in cui si distingueva la città di Boston, si manifestarono i primi effetti della Rivoluzione industriale e vi giungeva il cotone dal profondo Sud, coltivato a ‘costo zero’ dagli schiavi. Anche per tale ragione alcune delle prime ferrovie furono costruite da Boston (tra i fulcri originari della nascente ricchezza americana) a Long Island Sound (un canale naturale dell’Atlantico compreso tra la costa oceanica e Long Island, prossima a NYC), proprio per collegarsi ai battelli a vapore che andavano a New York che si stava configurando come la capitale finanziaria del Paese.

Cornelius Vanderbilt sr, che dominava il comparto marittimo, iniziò a rilevare le ferrovie di interconnessione, fin dalla metà degli anni ‘50 dell’Ottocento e, abbattendo le tariffe, con la sua linea ferroviaria offrì un servizio concorrenziale. In quegli anni il magnate diversificò il proprio impero anche acquistando imprese e proprietà immobiliari a Manhattan e a Staten Island (di cui era originario), dove rilevò la Staten Island Ferry nel 1838. Le sue scelte aziendali, come l’acquisizione della linea New York & Harlem Railroad, furono spesso lungimiranti: tale linea, infatti, era l’unica (prima a vapore) a ‘penetrare’ Manhattan e in seguito, percorrendo interrata la Fourth Avenue (poi Park Avennue), giungeva più a sud, fino al deposito ferroviario all’altezza della 26th Street. Questa, insieme a un’altra stazione sulla 27th Street, fu convertita nel 1873 in uno spazio espositivo grazie all’intervento di Phineas T. Barnum (showman, politico, uomo d’affari e fondatore del Barnum & Bailey Circus) e di altri investitori.

Nello stesso modo Vanderbilt sr fu implacabile nella gestione dei ‘conflitti’ con i suoi competitors; tra essi Jay Gould e James Fisk jr, concorrenti per il controllo delle azioni della Erie Railroad (una linea fondamentale per il trasporto merci), contro di essi il Commodore condusse una battaglia, mai sopita, fin dal 1868.

In tale clima il Grand Central Terminal del ‘13 – esito di un lungo processo di consolidamento di impresa, di ricucitura di varie linee ferroviarie prima autonome, di demolizioni e di riconversioni – non diede solo una risposta alla mobilità della metropoli ma fu esempio emblematico delle relazioni tra l’imprenditoria, la politica, la finanza, le migrazioni, lo sviluppo, divenendo un campus urbano, un fulcro, una porta monumentale della capitale finanziaria, non una semplice quinta, ma una struttura che univa rapidità, potenza economica, eleganza ed efficienza.

In termini operativi, quando la prima stazione, completata nel 1871, e la seconda divennero insufficienti, venne bandito un concorso. Era il 1903 e vi parteciparono quattro studi, McKim, Mead & White; Samuel Huckel; Daniel Burnham; Reed & Stem, che vinsero (erano specialisti nella progettazione di stazioni). Vennero aggregati, una partnership burrascosa, alla “firm” dei vincitori, il team Warren & Wetmore (Whitney Warren, Charles Delevan Wetmore), che furono i proponenti della facciata monumentale.

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The glory of Commerce, 1954

Come affermò lo stesso architetto Warren, la stazione sostituiva, nella metropoli moderna, il monumento tradizionale, ancor più a New York dove la crescita urbana e il Piano del 1811 non avevano previsto assetti monumentali in senso stretto. Anche in alcune grandi città europee, tra cui Parigi o Londra, le stazioni avevano avuto un impatto determinante nel ridisegno urbano, riplasmando interi quartieri. Ma a New York City il Gran Central Terminal assunse un duplice ruolo, da un lato fu un monumento innovativo governato e pianificato (alla newyorchese, cioè in progress, per fasi successive), che aveva effetti sulla rete territoriale, sullo sviluppo urbano e sulla percezione del paesaggio, dall’altro fu un potente attivatore delle dinamiche di interazione pubblico/privato e del real estate market, ancor più perché insediatosi in un’area non ancora strutturata e priva di un riconosciuto sedimento storico.

Dotato di un valore simbolico il Terminal è ornato da un gruppo scultoreo – The Glory of Commerce (rievocativo di un altro nome: The Cathedral of Commerce, come fu chiamato il Woolworth Building, anch’esso inaugurato nel 1913) disegnato dallo scultore francese Jules-Felix Coutan e intagliato dalla John Donnelly Company – posto al culmine della facciata principale, costituito da tre figure evocative: un trionfante Mercurio, un potente Ercole e una saggia Minerva. Velocità, forza e sapienza le qualità tutelari della città e della stazione che nasceva per essere un grande motore alternativo dei flussi pedonali e si configurava come centro nevralgico di trasferimento e sosta su scala urbana e territoriale di merci e persone. Un hub in una città che era a sua volta il più grande hub globalizzato ante litteram del pianeta.

Così raccontato il Grand Central Terminal potrebbe essere considerato il simbolo dell’ascesa newyorchese: spazio dei flussi nella città dei flussi. La stazione fu, tra l’altro, il più grande progetto fino a quel momento realizzato a NYC (eccetto Central Park): 70 acri (circa 283.281 mq) 32 miglia di binari (circa 53 km) che confluivano in 46 binari, dei quali 30 erano destinati al traffico dei passeggeri (quasi il doppio delle dimensioni della Pennsylvania Station, costruita dai competitors dei Vanderbilt). Insieme al Rockefeller Center, il Central Park e il Terminal rappresentano una delle facce dello sviluppo urbano newyorchese, frutto di una pianificazione flessibile, affatto rigida, integrata, sia dal punto di vista degli interventi a scale diverse, sia riguardo alle interazioni (collaborazione e scontro) tra potere politico e potere imprenditoriale.  

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Pennsylvania Station

Negli stessi anni, nel 1910, l’altra stazione, la Pennsylvania Station, fu completata (poi demolita nel 1963), consentendo l’ingresso a NYC da Sud. L’edificio progettato da una delle maggiori firme dello star system newyorchese (McKim, Mead & White; McKim e White morirono rispettivamente nel 1909 e nel 1906) racchiudeva 11 binari che ne servivano 21. Conteneva al proprio interno varie sale di attesa che si configurarono, già in quel periodo, come grandi spazi pubblici, così come accadde al Grand Central Terminal. Dopo la II Guerra Mondiale il traffico iniziò a diminuire, la Penn Stazione vendette i diritti aerei, e ridusse lo spazio deputato al traffico. Dal 1963 iniziò quel processo di demolizione che da un lato stimolò le azioni di tutela dei landmarks urbani, dall’altro privò la città di un edificio storico di pregio. Sul lotto risultante dalla demolizione furono edificati il nuovo Madison Square Garden e la Pennsylvania Plaza.

I Diritti aerei

Il progetto del Grand Central Terminal nella sua realizzazione definitiva, per l’altezza ridotta, consentì il trasferimento dei ‘diritti aerei’ (gli ‘Air Rights’) potenziali, del mega lotto occupato dalla stazione, agli edifici circostanti. Il design originale del Grand Central Terminal infatti comprendeva una torre di 23 piani, in stile Beaux-Arts, in connessione con la porzione centrale del Terminal, formalmente simile al Plaza Hotel (completato nel 1907), mai edificata, da destinare a uffici e da costruire sopra l’atrio. L’idea ebbe origine all’inizio del XX secolo quando William J. Wilgus era già ingegnere capo e vicepresidente delle consociate New York Central Railroad e Pennsylvania Railroad.

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Proposta di Warren-Wetmore, con Reed e Stem Mckin Mead

Quando i Warren & Wetmore vennero chiamati a lavorare con Reed & Stem (i vincitori del concorso), influenzarono la stesura finale del progetto che fu realizzato con solo due livelli fuori terra. Anche per tale ragione restarono inutilizzati i cosiddetti diritti aerei, gli Air Rights.

Oltre a incidere e plasmare lo sviluppo recente di New York City, soprattutto sulle altezze, gli Air Rights hanno funzionato come un atipico sistema di pianificazione in progress. Infatti, se gli investitori del real estate market furono interessati a costruire edifici alti perché attraenti e redditivi, le restrizioni esistenti puntarono a limitare la costruzione di edifici alti troppo vicini, istituendo nel tempo alcuni vincoli di zonizzazione.

Una questione nodale risiede nel fatto che gli Air Rights erano e sono trasferibili da un edificio a un altro, riferendosi allo spazio vuoto potenzialmente edificabile, sopra il lotto o su edifici esistenti. Ciò in quanto essi definiscono un potenziale inutilizzato in vendita: se un edificio avesse avuto un’altezza inferiore rispetto a quanto previsto dalla zonizzazione dell’area, un edificio vicino (in costruzione) avrebbe potuto acquistare lo spazio aereo non usato, al fine di costruire un fabbricato più alto (attraverso i Transfer Development Rights).

Lo sviluppo disciplinato dallo zoning, dopo il 1916, riguardava la costruzione di un edificio su un lotto o l’attribuzione di una destinazione d’uso. I Transfer Development Rights (cui afferiscono gli Air Rights) si riferivano invece alla quantità massima di superficie consentita su un lotto. Quando la superficie coperta effettiva era inferiore alla superficie massima consentita, la differenza veniva definita ‘unused development rights’, (diritti di sviluppo inutilizzati).

Tra le possibilità contemplate sussisteva inoltre l’unione di due o più lotti di zonizzazione adiacenti. I diritti di sviluppo inutilizzati potevano, così, essere trasferiti da un lotto all’altro, anche attraverso l’unione tra lotti differenti. Il trasferimento dei diritti tra lotti non limitrofi era possibile solo in alcune circostanze, a esempio per consentire la conservazione di edifici storici, open spaces o luoghi con caratteri culturali significativi.

Cosa indussero e inducono tali norme? – peraltro collegate alla FAR (Floor Area Ratio, il rapporto variabile a seconda del distretto, della zonizzazione, della destinazione d’uso e che indica la relazione tra misura del lotto e mq complessivi edificabili sul medesimo lotto). Indussero un’indubbia eterogeneità del paesaggio, una mixité di destinazioni d’uso e di altezze, una grande vitalità del mercato immobiliare, da sempre estremamente competitivo, mettendo sul mercato non solo il suolo, ma l’aria sopra di esso.

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Tenement a Park Avenue all’incrocio con la 107th St., 1900

Park Avenue

Con l’eliminazione del rumore e dell’inquinamento delle locomotive a vapore, la lunga Avenue e l’ambito circostante un tempo indesiderabili divennero attrattivi per il mercato immobiliare di New York City. Chiamata Terminal City, l’area si trasformò in una tra le zone residenziali più seducenti della città.

Anche se solo nel 1880 la Fourth Avenue fu ribattezzata Park Avenue, già dal 1870 iniziarono a essere costruiti alcuni edifici residenziali per classi medio-alte.  I condomini, inizialmente asseverati ai tenements, dove viveva la working class fin dall’inizio del XX secolo, persero tale stigma quando, intorno al 1880, iniziarono a essere costruiti edifici residenziali di lusso.

Il Tenements Acts del 1901, che regolava tutte le abitazioni multiple, limitava le altezze, già ridotte a 80 piedi (circa 24 m) nel 1885, a uno o due volte la larghezza della strada con una norma che consentiva la costruzione di strutture più alte solo in strade ampie, come la Broadway e Park Avenue (42.5 m).

La medesima legislazione sanciva che gli edifici eretti su lotti angolari avrebbero potuto occupare l’intera superficie generando massicce forme scatolari (prima dello zoning del 1916 che prevedeva il set back), configurando fronti stradali continui. Questo portò a un incremento delle costruzioni residenziali sempre più alte occupate da quella upper class che abbandonava le dimore private monumentali e unifamiliari, privilegiando, spesso, gli attici in prestigiose Avenue come la neonata Park. Due esempi: il 1105 Park – dell’architetto Rosario Candela, costruito nel 1923 da un immobiliarista, Michael E. Paterno – aveva un appartamento con giardino pensile al settimo piano; il 1040 Park, il cui ultimo piano, inizialmente pensato per la servitù, fu trasformato in un duplex di lusso di grandi dimensioni. Tali abitazioni anticipavano alcuni dettami di una nuova legge sui condomini, approvata dallo Stato di New York nel 1929 che, anche grazie al set back, consentiva l’edificazione di terrazze a uso esclusivo e di ascensori privati che portassero direttamente al piano.

Il paesaggio cambiò non solo per le terrazze di lusso ma per il diffondersi dei serbatoi di acqua, posti sui tetti e camuffati esteticamente (da apici o da coronamento degli edifici). Le cisterne garantivano agli attici una riserva d’acqua e una protezione anti incendio.  Anche per questo, durante gli anni ‘20 edifici come il 940 Park, il 929 Park, il 1075 Park (tutti su Park Avenue) proposero elementi decorativi Art Deco anche in cima. Altri edifici, come il 944 Park, invece, declinavano più sobriamente la ricchezza dei committenti, mettevano in evidenza quanto l’eterogeneità a Park Avenue si esprimesse soprattutto in variazioni che avevano in comune unicamente l’agiatezza dei singoli proprietari: un alto tenore di vita tradotto formalmente, secondo numerosi linguaggi estetici.

L’impatto della costruzione del Terminal e tutto il processo precedente riguardarono l’intera città, anche perché razionalizzare il traffico ferroviario significò eliminare edifici prima esistenti, come enormi capannoni ferroviari utili per il rimessaggio dei vagoni prossimi alla stazione che interrompevano il traffico urbano. Ma alcune aree limitrofe al Terminal mutarono radicalmente attraverso interventi privati e pubblici e attraverso una specifica progettualità mirata anche alla costruzione delle residenze multipiano di lusso.

Uno degli interventi generali più significativi in tal senso fu il Fourth Avenue Improvement che disciplinò le scelte e riarticolò l’intero comparto urbano con lavori imponenti, non solo relativi all’interramento dei binari sotto la Avenue, ma alla costruzione di tunnel e di viadotti di acciaio sopraelevati.

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Park Avenue, 1905

In definitiva il Grand Central Terminal, tra la 42nd Street e la Fourth Avenue (denominata così nel Piano del 1811, oggi Park Avenue) divenne il fulcro ferroviario dell’Isola e motore di ingenti trasformazioni immobiliari. Interrare per circa 3 km i binari liberò l’asse di comunicazione che acquisì un nuovo ruolo, fu diversamente percepito (per il sostanziale cambiamento del paesaggio) e fu ripensato anche attraverso la creazione di uno spartitraffico centrale piantumato (la larghezza della Avenue lo consentiva).

La strada rinnovata prese il nome di Park Avenue e divenne uno tra i nuclei del real estate market del Novecento. Il Terminal e l’interramento dei binari innescarono, infatti, una trasformazione massiva dell’asse che divenne uno dei ‘corridoi residenziali’ più ambiti della città, sede di operazioni immobiliari (e di gentrification, essendo in precedenza occupato da una working class) prima nell’area chiamata ‘Terminal City’, estesa circa dalla 42nd alla 51st Street, tra la Madison e Lexington Avenue (inizialmente case a schiera e piccoli condomini).

Già dal 1880 alcune strade del distretto furono pavimentate, nel 1908 fu completato il primo condominio ‘alto’ (14 piani): il 925 Park Avenue, di Delano & Aldrich, sito all’angolo Nord-East della 80th Street. Molti edifici successivi seguirono tale modello adottando varianti dello stile classico, come il revival rinascimentale, o quello coloniale.

Ulteriore interessante edificio realizzato fu il 903 Park (1912-13) in stile rinascimentale da Robert T. Lyons, architetto del 955 Park (1915) e da Warren & Wetmore, il co-progettisti del Grand Central Terminal. All’angolo Nord-East della 79th Street, questa struttura un tempo descritta come il ‘condominio più alto del mondo’, ha un ingresso ad arco e un cornicione in rame, caratteristiche tipiche dell’architettura del Rinascimento italiano. L’edificio fu progettato con un’unica residenza per piano.

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Park Avenue, anni Venti

La rapida trasformazione di Park Avenue generò attenzione da parte dei media alla fine degli anni ‘20, definita come un fenomeno recente e improvviso, e la strada residenziale più grande ed esclusiva del mondo, considerata sinonimo di ricchezza, divenne sede di una rampante upper class che rinunciava alle proprie dimore sulla Fifth Avenue per trasferirsi in un ‘duplex’ o in un ampio appartamento in un condominio di Park Avenue.

Inizialmente per guidare la trasformazione del viale nel 1894 fu fondata la Park Avenue Association, costituita da residenti che cercarono di tutelare il carattere della strada, opponendosi con successo all’introduzione degli autobus pubblici negli anni ‘10.

Un incremento notevole del mercato immobiliare si ebbe nel 1924, quando furono completati circa sette edifici, commerciali e residenziali, alcuni occupati da rilevanti compagnie o da una classe abbiente: la maggior parte dei fabbricati, infatti, era destinata a famiglie con un reddito elevato, anche a causa degli affitti alti. Nel 1927, ad esempio, il reddito medio delle persone che abitavano lungo la Avenue era stimato a $ 75.000 all’anno, equivalente a più di un milione di dollari odierni.

Park Avenue, soprattutto dagli anni ‘30 e nonostante la crisi del ‘29 (anche se durante la Great Depression crollarono i fitti), divenne sede di edifici e hotel esclusivi (inizialmente pensati per gli utenti della ferrovia) con valori immobiliari elevatissimi; tali operazioni diedero vita a un Historic District tra i più interessanti e contaminati della città che, come molti altri, esprime e rende chiari i criteri di trasformazione urbana newyorchese, il paradigma New York. Un paradigma fondato sull’assenza di precise strategie preordinate, sulle azioni forti di poteri economici privati a volte coordinati con le iniziative municipali, su interventi nati da opportunità e necessità, sulla subordinazione dei processi di pianificazione finalizzati alla realizzazione dei progetti, pensati come fortemente flessibili.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Ad esempio per l’uso all’intero del Terminal della volta ‘catalana’ interpretata da Rafael Gustavino, nato a Valencia nel 1842, trasferitosi a New York dove visse e lavorò. Il Museum of the City of New York, ha dedicato all’architetto e al figlio, Rafael jr, una mostra intitolata: Palaces for people. Gustavino and the Art of Structural Tile (March 26, September 7, 2014) Le volte in mattoni, spesso disposti a spina, si ritrovano in tutta New York City: Grand Central Terminal (Oyster Bar); Cattedrale di Saint John the Divine; Ellis Island Registry Hall; Elephant House allo Zoo del Bronx; Boathouse e Tennis Shelter a Prospect Park; Central Park; Grant’s Tomb, Riverside Church. Le volte, che sono molto più leggere di quelle in muratura, sono strutturali e uniscono portanza ed estetica.
[2] La New York Central Railroad era inizialmente operante nelle regioni dei Grandi Laghi e del Medio Atlantico, connettendo New York City, Boston, Chicago e St. Louis nel Midwest, con Albany, Buffalo, Cleveland, Cincinnati, Detroit e Syracuse.
Riferimenti bibliografici
W. A. Croffut (1887), The Valderbilts and The story of their fortune, Clarke & Company Publishers, Chicago and New York.
J. M. Fitch (1974), Grand Central terminal and Rockefeller Center. A Historic-critical Estimate of Their Significance, The Division, Albany.
W. Irvin (1927), The melting pot of the rich, «New York Herald Tribune», Marc, 27, 1927.
F. Schiavo (2004) Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, Sellerio edizioni, Palermo.
Stiles T. J. (2010), The first Tycoon: The Epic Life of Cornelius Vanderbilt, Vintage Books, New York City.

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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, urbanista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. Tra le sue ultime pubblicazioni, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi, 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.

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