Il 25 novembre 2020 se n’è andato Diego Armando Maradona, uno dei più grandi calciatori della storia. La notizia della sua prematura scomparsa ha immediatamente fatto il giro del mondo e, com’era prevedibile, ha suscitato grande commozione e sorpresa oscurando per diversi giorni – potenza del personaggio – la pandemia da SARS-CoV-2 e sfidando, soprattutto nei Paesi che più sono stati testimoni delle sue imprese, persino le restrizioni che l’emergenza sanitaria in atto impone da quasi un anno. Le immagini della gente che, a Buenos Aires come a Napoli, è scesa in strada per pregare, condividere il dolore in barba ad ogni distanziamento fisico e portare in processione, dai quartieri popolari alle cattedrali laiche rappresentate dagli stadi La Bombonera e San Paolo, simboli riconducibili al calciatore sudamericano, hanno monopolizzato i racconti giornalistici testimoniando l’enorme affetto che milioni di persone hanno provato, e continuano a provare, per quest’uomo.
Diego Armando Maradona è stata una figura in grado come pochi prima di lui di uscire dalle mere cronache sportive per diventare una vera e propria icona postmoderna. Ha sfruttato i mezzi di comunicazione di massa, e la visibilità guadagnata calcando i campi da calcio di mezzo mondo, per costruirsi un’immagine da rivoluzionario sempre pronto a combattere contro le ingiustizie. Allo stesso tempo, non ha mai nascosto vizi e debolezze e ha sperimentato fino in fondo le conseguenze del radicale abbattimento del confine tra pubblico e privato che ha segnato la sua intera esistenza. In questo modo ha intercettato i sogni di rivalsa di interi segmenti di società che in lui si sono identificati e, contemporaneamente, si è attirato gli strali di quella parte di pubblico meno propensa a farsi incantare dai trucchi che ha dispensato sul terreno di gioco. In entrambi i casi, tuttavia, è stato sempre al centro della scena, guadagnandosi – già in vita – l’ingresso nel pantheon dell’odierna cultura di massa in qualità di divinità ambigua e sfuggente.
Artista del pallone, tribuno del popolo, fiero oppositore dei potenti, saltimbanco sempre pronto alla burla, viveur a suo agio tanto nei salotti buoni quanto nei vicoli controllati dalla malavita, uomo fragile, dissoluto e controverso, Maradona ha fatto saltare i confini tra le categorie (pubblico/privato, dentro/fuori, bello/brutto, luce/buio, sport/vita, calcio/politica, sportività/antisportività, legalità/illegalità), provocando un vero e proprio shock epistemologico in chi ha cercato di approcciarsi alla sua figura. La sua morte, come fosse un’ultima beffa da lui ordita, lascia gli appassionati di calcio e i semplici curiosi (e gli antropologi appassionati di calcio…) nella medesima incertezza che egli stesso ha costantemente alimentato: il vero Diego Armando Maradona è stato il giocatore sublime, oggetto di venerazione in Argentina e a Napoli (un d10s, secondo il gioco di parole che ne ha accompagnato la carriera e che fonde insieme il lemma spagnolo dios e il celeberrimo numero di maglia del fantasista argentino), oppure il principe oscuro delle cronache mondane?
Cercare di districarsi tra queste narrazioni contrastanti – che nel loro rigido manicheismo sembrano quasi produrre due entità distinte: il calciatore (divino) e l’uomo (umano, troppo umano) – è lo scopo delle righe che seguono. Poiché Maradona può essere considerato un autentico mito della contemporaneità, oggetto insieme di culto parareligioso, attenzione morbosa e viva repulsione, dalla cassetta degli attrezzi dell’antropologia credo sia possibile estrarre alcuni strumenti in grado di leggerne la parabola. Per scoprire, magari, che l’anomalia che ha segnato la sua esistenza non è stata frutto di schizofrenia comportamentale e che la figura geniale e corrotta che egli ha incarnato si è nutrita avidamente di tendenze opposte quasi fuggendo il principio di non contraddizione.
Un mito trasgressivo, insomma; un (anti)eroe culturale che con la sua apparizione e i suoi comportamenti indecifrabili e antitetici ha prodotto storia, appartenenza, sogni; e insieme ilarità, disgusto, odio. Sempre con un sorriso beffardo stampato in volto e senza mai prendersi veramente sul serio. Accettando di buon grado (anche) la parte del cattivo, fino a farsi schiacciare e restarne schiavo. Fuggendo lontano quando l’effimero universo che aveva edificato è irrimediabilmente crollato (doping, guai con la legge) per concedersi al pubblico adorante e ai detrattori giusto il tempo di qualche estemporanea epifania.
Non intendo dilungarmi sulla biografia di Maradona, basteranno qui pochi cenni. Nato in povertà a Lanus nel 1960, trova presto la sua strada grazie al calcio distinguendosi per un talento fuori dal comune che gli vale, dopo le prime vittorie con le maglie dell’Argentinos Juniors e del Boca Juniors, il sogno di un ricco contratto in Europa, al Barcellona. L’esperienza catalana non è però fortunata: tra difficoltà di ambientamento, gravi infortuni e colpi di testa, Maradona non lascia il segno e viene venduto, quasi come fosse uno scarto, alla società sportiva del Napoli. L’approdo alla Serie A italiana e l’incontro con la città campana, alla fine del 1984, segnano il vero e proprio inizio dell’epopea maradoniana. Il fuoriclasse argentino, infatti, trascina la squadra partenopea alla vittoria di due campionati nazionali e di una Coppa Uefa: eventi epocali per un calcio italiano da sempre dominato sportivamente ed economicamente dalle squadre del nord. Sempre nello stesso periodo, raggiunge il traguardo più alto per un calciatore spingendo una nazionale argentina avara di grandi individualità alla vittoria dei Campionati mondiali di Messico 1986.
Raggiunto l’acme calcistico, la sua stella sportiva comincia inesorabilmente ad appannarsi. Stritolato dall’affetto, ai limiti dell’idolatria, di una città e di un intero Paese, Maradona si allontana definitivamente dall’immagine dell’atleta disciplinato (cui d’altra parte non aveva mai veramente aderito) e diventa protagonista delle cronache per fatti lontani dalla sfera agonistica: rivendicazioni politiche, vita dissoluta, frequentazioni pericolose, abuso di droga. La sua carriera finisce nel 1991, dopo essere stato trovato positivo alla cocaina in seguito a un controllo antidoping. Da quel momento – nonostante i ripetuti tentativi di tornare a giocare, nuovamente in Spagna, al Siviglia, e in Argentina con la nazionale e ancora col Boca Juniors – Maradona resta al centro dell’attenzione soltanto per la scandalosa vita privata.
La sua traiettoria presenta tanti tratti tipici, banali quasi: ascesa inarrestabile e tonfo rovinoso. Per chi lo ama è stato la personificazione del riscatto sociale: il ragazzino povero che grazie alla sua classe infinita non soltanto ha realizzato i suoi sogni, ma ha esaudito i desideri di una nazione economicamente, politicamente e militarmente debole (l’Argentina) e di una città che cerca di rivivere il suo passato glorioso ogni domenica allo stadio (Napoli). Un uomo del popolo che ha dichiarato guerra ai potenti e ha vinto: una narrazione che lui stesso, con le sue dichiarazioni dopo ogni trionfo sul campo da calcio, ha deliberatamente alimentato.
Per chi lo odia, invece, Maradona è stato un traditore: un genio baciato dalla luce divina che ha dilapidato un talento cristallino perdendosi nella corruzione e nel malaffare. Un traditore tanto più colpevole quanto più lontano dall’imperativo che i tifosi notoriamente impongono a ogni atleta di livello: la completa dedizione all’ethos sportivo. Un tacito accordo, basato sulla retorica dell’impegno e della dedizione alla maglia, che suona pressappoco così: io tifoso alimento la macchina che permette a te sportivo di arricchirti e farmi sognare; tu, però, non avrai altro pensiero che non sia il mio intrattenimento e la mia realizzazione vicaria (o almeno simulerai abilmente di non averne per tenere viva la finzione della nostra relazione).
Non è raro, quindi, quando si parla di Maradona, che questi due atteggiamenti producano una netta scissione dell’atleta dall’uomo, del calciatore (“il più grande di tutti i tempi”) dalla persona (“un debole e vanaglorioso drogato”), come fossero soggetti distinti. Diego Armando Maradona, tuttavia, ha saputo incarnare queste tendenze apparentemente discordanti senza alcun tipo di rottura e/o scissione interiore: a ben guardare, è stato semplicemente sé stesso in campo, quando alternava giocate sublimi a furbate decisamente odiose, e fuori, quando rivendicava con forza la solidarietà alla causa cubana contro l’imperialismo americano e contemporaneamente si faceva fotografare con i boss della camorra a causa della sua dipendenza dagli stupefacenti. Ogni suo gesto, ogni sua azione, ogni sua affermazione pubblica – per quanto illogiche, inspiegabili, ingiustificabili – originavano da un soggetto che per tutta la vita ha giocato ironicamente con la popolarità che via via si costruiva e con l’alone di santità e maldicenza che lo circondava.
Due esempi.
22 giugno 1986. Al minuto 51’ del quarto finale dei Campionati Mondiali di calcio tra Inghilterra e Argentina, Maradona sigla uno dei gol più famosi della storia di questo sport. Impossibilitato a raggiungere un pallone spiovente in area di rigore avversaria, e sovrastato fisicamente dal portiere britannico Peter Shilton, il fantasista argentino, in piena elevazione, allunga il braccio e colpisce il pallone col pugno. Le immagini televisive un po’ sgranate di fine anni Ottanta mostrano due macchie di colore che si scontrano e una piccola sfera bianca che si stacca dal quadro centrale per rotolare lentamente, ma inesorabilmente, in rete. Dopo esser caduto a terra insieme al giocatore avversario, Maradona si rialza e gesticola nervosamente in direzione del guardalinee, quasi a giustificarsi e ad attendere l’inevitabile annullamento del punto. La terna arbitrale però non ha visto nulla e lui, a sua volta, si guarda bene dal prendere le distanze dal gesto che ha appena compiuto; al contrario esulta senza freni e corre a ricevere gli abbracci dei compagni festanti. Al termine della gara, e nei decenni successivi, tra un ammiccamento e un altro, tra un sorriso e un altro, sempre tra il serio e il faceto, leggerà quell’azione come la riproposizione rituale della mitica vicenda di Davide e Golia. È stata la mano de dios – ripeterà più e più volte – a guidare la sua verso la sublimazione delle tensioni geopolitiche che da anni contrapponevano l’Argentina al Regno Unito. Una rivincita burlesca, servita sul rettangolo verde, ai danni dello storico nemico del Paese sudamericano nell’affair Falkland/Malvine.
22 giugno 1986. Al minuto 55’ della stessa partita, mentre ancora i giocatori in campo, il pubblico sugli spalti e gli spettatori televisivi si interrogano sulla regolarità della rete del vantaggio argentino, Diego Armando Maradona si produce in un gesto tecnico-atletico di rara bellezza (il cosiddetto gol del secolo). Il numero 10 sudamericano riceve palla nella sua metà campo e si lancia in una folle corsa di oltre sessanta metri scartando gli avversari come fossero birilli. Giunto in area di rigore inglese, supera anche il portiere in disperata uscita e, in equilibrio precario, braccato da un difensore che tenta di abbatterlo, infila il pallone in porta. La telecronaca del giornalista argentino Victor Hugo Morales fotografa perfettamente quello sprint di sessanta metri palla al piede coperto in appena dieci secondi: metro dopo metro, secondo dopo secondo, la voce del cronista si rompe, incredula, fino all’urlo liberatorio e incontenibile. Su un campo da calcio non si era mai visto nulla di simile; nulla di simile a quelle velocità. L’ordine è stato ripristinato dopo il caos.
Ecco, per quanto la vita di un essere umano non si possa certo ridurre a un collage di episodi, l’essenza di Diego Armando Maradona si può cogliere qui, in questi novanta minuti che, nel bene e nel male, ne hanno sancito la leggenda sportiva e ne hanno rivelato al mondo la doppiezza. Chi, sia quando il fantasista argentino era in vita sia adesso che è prematuramente scomparso, tende a separare il calciatore (sublime) dall’uomo (mediocre), non coglie nel segno. Perché non è mai esistito il campione distinto dalla persona e Maradona, tanto nel gioco quanto nella vita, ha sempre navigato in bilico tra gli opposti e le contraddizioni. Capace di poesia calcistica e di atti di pura antisportività; sincero difensore delle cause popolari (celebre la sua amicizia con Fidel Castro e con i più importanti rappresentanti del socialismo latino-americano) e vile amico di malviventi per quieto vivere; interprete dei sentimenti di rivalsa e liberazione di un’intera nazione e di una città e impotente schiavo della cocaina.
Maradona, il pibe de oro, ha racchiuso in sé l’alto e il basso, il giorno e la notte, il bello e il brutto. Ha sussunto nella sua persona questi aspetti contraddittori realizzando una coincidentia oppositorum che per una vita intera ha celebrato, come in una messa laica, sul campo da calcio e fuori, rompendo la barriera tra sport e vita e diventando, nell’epoca dell’iper-visibilità mediatica della post-modernità, un mito. Un mito, beninteso, del tutto particolare, la cui duplicità, a ben vedere, è stata avvertita per tempo dai suoi stessi fruitori, specie quelli più giovani. Quando il calcio era ancora un gioco da strada e orde di bambini dedicavano interi pomeriggi a partite improvvisate su campi di fortuna, ad esempio, il soprannome Maradona – il più ambito – non era semplicemente riservato al più bravo di tutti, bensì al ribelle refrattario alle regole che col pallone tra i piedi faceva miracoli e voleva vincere a qualunque costo. Probabilmente non era un caso.
Più che una bestia o un dio, a chi scrive Maradona ha sempre ricordato una misteriosa figura folklorica che stuzzica la curiosità degli antropologi sfidandone la capacità di comprensione: il trickster. Protagonista di molteplici mitologie indigene – dall’Africa all’Oceania, dall’America del Nord all’America del Sud, passando anche per l’Europa – questo strano personaggio intrattiene una relazione sui generis con le sue comunità di riferimento e racchiude in sé antinomie irresolubili: dio creatore e dissacratore buffonesco; demiurgo e maldestro pasticcione; eroe culturale e sciocco capro espiatorio.
La cifra stilistica del trickster, ciò che lo rende un vero e proprio enigma per gli studiosi, scrive Silvana Miceli, non sta soltanto nel semplice accostamento di caratteri contradditori che si possono di volta in volta isolare nei cicli mitici in cui egli compare, bensì in «una vera e propria sovrapposizione e compenetrazione tra astuzia e stoltezza, intelligenza e stupidità, saggezza sapiente e ingenuità puerile» (Miceli 1984: 80). Il trickster, cioè, è una contraddizione vivente, un «demiurgo trasgressivo»: un personaggio intrinsecamente ambivalente che può fare il male (anche) quando vuole fare il bene e che può fare il bene (anche) quando vuole fare il male. Spesso senza nemmeno accorgersene.
Non a caso, all’interno delle più disparate culture in cui si muove, la relazione con questa figura è di un tipo molto particolare, del tutto diversa da quella intrattenuta con altre divinità più canoniche. Del trickster si ammira l’astuzia e si apprezzano i doni portati agli esseri umani sfidando l’autorità degli dèi più seriosi. Del trickster, d’altra parte, si ride e si motteggia. Del trickster si prende in giro l’inettitudine e i ridicoli tentativi, quasi sempre votati allo scacco, di ingannare tutto e tutti. Del trickster si celebra l’attività demiurgica: la creazione del mondo e dell’ordine socio-culturale così come sono.
E contemporaneamente del trickster si biasima la stessa attività demiurgica (spesso involontaria o solo casuale rispetto ai suoi reali, e più prosaici, propositi): la creazione del mondo e dell’ordine socio-culturale così come sono, con tutte le loro imperfezioni, e non diversamente. Del trickster, infine, si esaltano l’innato gusto per lo scompiglio categoriale e «le sue sfide a ogni forma di ordine costituito» (Miceli 1984: 117).
Questa figura, come ha evidenziato recentemente anche Francesco Remotti, è dunque intimamente legata alla polisemia del riso: nelle storie di cui è protagonista «da un lato è oggetto di riso» e dall’altro «pone in ridicolo tutti coloro che gli stanno attorno, compresi gli dèi e – beninteso – sé stesso» (Remotti 2020: 213). Un riso forte e profondo, ambivalente (vivificatore e mortifero), quello generato da questo buffone divino, che non risparmia nessuno e grazie al quale gli indigeni possono (meta)riflettere sulla propria cultura e il proprio sistema di valori sapendo che ciò che è potrebbe sempre essere diversamente.
E se, adesso che ha lasciato questo mondo, provassimo a scorgere in Maradona una sorta di trickster contemporaneo? Attraverso questo eroe folklorico, un groviglio simbolico di tendenze centrifughe, non si potrebbe rendere giustizia alle opposte sfaccettature mostrate dal calciatore argentino nel corso della sua vita? Alle sue magie in campo (ai tricks con cui ipnotizzava gli avversari), come alle sue odiose furbate? Agli attacchi all’arma bianca contro il potere (incarnato, di volta in volta, dalle organizzazioni politiche che governano il calcio – la FIFA e l’UEFA – o dai governi imperialisti), come alla sua ambigua e imperdonabile vicinanza alla criminalità organizzata? Alla determinazione dimostrata nel corso delle sue battaglie politico-sociali e al concreto interesse per la sorte dei più poveri, come alla debolezza che lo ha reso dipendente dagli stupefacenti e dunque involontario foraggiatore di un sistema di oppressione?
Maradona il dio che all’interno del rettangolo verde ha creato qualcosa che, prima di lui, non c’era. Maradona l’eroe culturale che fuori dal campo ha guidato migliaia di persone a una metaforica, ancorché percepita come autentica, rivincita. Maradona il demiurgo trasgressivo che ha regalato ai fedeli un assaggio di mondo alla rovescia (l’Argentina che umilia l’Inghilterra; il Napoli che trionfa sull’Inter, la Juventus e il Milan) per poi dedicarsi all’involontaria distruzione della sua costruzione. Maradona il beffardo burlone che ha preso in giro le autorità e sé stesso. Maradona il malevolo figuro che ha cercato di aggirare la legge (sportiva e non) perché, in una sorta di delirio di onnipotenza, ha finito col credersi al di sopra di quella stessa legge.
E non potrebbe, d’altra parte, la figura del trickster, spiegare l’ambivalenza con cui Maradona è stato percepito dall’opinione pubblica? Di volta in volta, e secondo i diversi contesti, un dio, un uomo, un artista, un derelitto, un idiota, un capopopolo, un opportunista, un violento, un drogato? E spesso tutti questi epiteti insieme?
Nei miti di cui è protagonista il trickster solitamente non pensa troppo a ciò che compie e sembra quasi condannato a una vitalistica, e per questo disordinata, irrefrenabile tendenza al fare. Quando si ferma a osservare ciò che ha combinato di solito è troppo tardi, la frittata è stata fatta e le conseguenze dei suoi atti ormai irreparabili. A (meta)riflettere, invece, sono le persone che, grazie a lui, guardano al proprio mondo e ai propri valori da una prospettiva decentrata, altra.
Maradona il trickster, d’altro canto, non sembra aver molto pensato, nel corso della sua vita, alle conseguenze delle sue azioni e, soprattutto, non ha mai ricercato coerenza nei suoi comportamenti. Considerarlo un trickster della cultura di massa forse potrebbe aiutare a risolvere, senza dipanarne la matassa di contraddizioni, l’ultimo suo tiro: esser diventato un mito senza essere un modello. Non per tutti almeno.
Non sono sicuro che le mie considerazioni possano cogliere veramente l’importanza che il fantasista argentino ha avuto nel folklore contemporaneo – probabilmente resterà per sempre una divinità (perfetta e infallibile) per alcuni e un cattivo esempio (negativo e senza sfumature) per altri. Tuttavia, citando Silvana Miceli, mi piace pensare che, qualora, per caso, dovesse leggere queste righe, Diego Armando Maradona «solitario esploratore condannato al ridicolo, da qualche ultimo “regno” dove – chissà – è ancora confinato, di certo ammiccherebbe».
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Riferimenti bibliografici
Miceli S., 2000, Il demiurgo trasgressivo. Studio sul trickster, Sellerio, Palermo.
Remotti F., 2020, Umorismo e comicità nelle religioni senza nome, in Bettini M., Raveri M., Remotti F., 2020, Ridere degli dei, ridere con gli dèi, il Mulino, Bologna.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.
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