Negli ultimi decenni si fa un gran parlare di identità: identità culturale, geografica, etnica, religiosa e così via. E quanto più il mondo si spinge verso una globalizzazione sfrenata e senza controllo, tanto più da ogni dove – e non solo in Occidente – si rivendica il diritto di riconoscere le proprie radici e le proprie appartenenze. Una vera “ossessione identitaria” per dirla con Francesco Remotti (2010), che ha finito per travalicare le barriere dell’accademia scientifica, antropologi in prima battuta, e approdare al dibattito politico con pericolosi risvolti sul piano delle discriminazioni ideologiche. Tutta la storia del Novecento – è ancora Remotti a ricordarlo – è costellata infatti da massacri, genocidi e attentati fino ai più recenti episodi del terzo millennio, dovuti a razzismo e omofobia e scatenati da un presunto quanto esasperato concetto di identità.
A voler far luce sulla vicenda è ora Maurizio Bettini nel suo ultimo libro edito dal Mulino, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità (2020). Il titolo riprende una quartina di Giorgio Caproni tratta da “La Cabaletta dello stregone benevolo” che ben rappresenta questo bisogno di difendere sè stessi e respingere “lo straniero” dal proprio habitat:
non chiedere più,
nulla per te resta.
Non sei della tribù.
Hai sbagliato foresta.
Da filologo del mondo classico, l’Autore dimostra in apertura come nella lingua latina di Cicerone e Seneca la parola identitas non sia mai esistita, mentre compare solo nell’età volgare, a partire dal IV secolo e cioè in ambito cristiano. È allora infatti che si rende necessario ribadire la “stessità” della sostanza del Padre, Figlio e Spirito Santo. Su questo assioma indiscutibile si sviluppa e prende origine il concetto di identità da idem, identico a sé stesso, complice il pensiero filosofico occidentale da Aristotele in poi, convinto assertore del principio di identità e di non contraddizione: A=A e non è non A, nel senso che A deve essere tenuto rigorosamente separato da B.
Il ricorso al mondo antico e al significato filologico della parola è decisivo, poiché rivela in qualche modo il legame fra l’identità e la dimensione del sacro. Tuttavia gli stessi filosofi cristiani che avevano dato vita all’identità, dovevano contestualmente considerare il suo rovescio, il secondo termine di paragone, “l’alteritas”, da “altro”, nel senso che per poter definire gli stessi ci si deve poter confrontare e distinguersi necessariamente dagli altri.
Ma cosa succede – si chiede allora Bettini – quando l’identità va incontro all’alterità, mescolandosi e contaminandosi con essa? Si determina un’impurità, in quanto nell’atto di inoculare l’alterità nell’identità questa si adultera, determinando in sostanza quello che i Romani chiamavano adulterio (ad+alter), l’unione fedifraga di una donna con un uomo diverso dal coniuge. Sia la legge romana che quella ebraica punivano severamente l’adulterio, considerandolo un atto di contaminazione e dunque impuro.
Di conseguenza l’identità per poter riconoscersi tale deve restare isolata e non aver rapporti con gli altri, potenziali fattori di rischio. In altre parole – e torniamo a Remotti – l’identità richiede esclusività, stabilità e permanenza, è ancorata al passato. Ma solo «un’identità grossolana, immediata, di “superficie”» può trascurare «una ricerca delle strutture profonde che conformano l’identità nel suo aspetto relazionale: la questione dell’Altro appare come costitutiva dell’identità» (Benoist 1980: 19). Non potrebbe essere diversamente perché tutta la storia dell’uomo ha avuto origine da contaminazioni, intrecci e mescolanze e ogni popolo ha dovuto accogliere lo straniero, dapprima conflittualmente poi assimilandolo, perché indispensabile al funzionamento e allo sviluppo della società. I Greci, reputandosi detentori della civiltà e spingendosi fuori dai loro territori incontrarono e si scontrarono con coloro che non esitarono a definire “oi barbaroi”, non uomini (Bauman 1976). E i Romani, al contrario, intuirono il valore dell’accoglienza, dando asilo ai popoli confinanti (Bettini 2019) e con essi fondarono una grande e duratura civiltà.
Ecco allora che l’identità più che essere un concetto dato e definito una volta per tutte, appare più che altro come un’aspirazione dell’uomo verso qualcosa che nella realtà è impraticabile, poiché rinvia non ad una fissità della sostanza e ad una permanenza dell’essere, ma piuttosto ad un processo costantemente aperto alla molteplicità e alla complessità delle relazioni esterne. Si tratta di un paradosso che se da un lato proclama l’univocità dell’essere sè stesso, dall’altro ne ammette necessariamente la relazione col suo opposto, riconoscendo che il meticciato è un elemento fondativo dell’uomo, del suo corredo genetico, frutto di incroci e mescolanze.
Se l’identità è dunque un continuo divenire, ciò che oggi appare identitario e incontaminato è in realtà l’effetto di un lento assorbimento di elementi altri, provenienti da terre lontane, “esotiche”, solo successivamente entrati a far parte della nostra cultura. È il caso della pizza napoletana, come ricorda Bettini, ritenuta a buon diritto simbolo della gastronomia italiana, che contiene fra gli ingredienti connotativi il pomodoro, storicamente importato dalle Americhe. E così anche i tortellini di pollo, anziché di maiale, col tempo entreranno a far parte della tradizione culinaria emiliana e romagnola, con buona pace dei cittadini bolognesi e a tutto vantaggio dei musulmani immigrati e dei loro tabù religiosi.
Eppure, malgrado tutto, l’irriducibile identitario è fermamente convinto che esista un legame sacro, quasi un’investitura religiosa fra una comunità e il suo luogo di nascita. Su questo presupposto si fonda il concetto di “pulizia etnica”, che ha provocato i più efferati massacri, volti a difendere l’identità serba. La verità è che – come ha insegnato Mary Douglas – pulizia equivale a ordine e ordine equivale a porre confini. Alzare muri e delimitare frontiere sono considerati nei primitivi atti sacri, come eliminare lo sporco e le impurità (1993). Da qui, con ogni probabilità, le posizioni estreme e radicali dei sovranisti, ostinati nella difesa dello loro purezza identitaria da possibili attacchi esterni dei migranti, ritenuti responsabili di ogni sorta di sacrilegio.
Non può essere un caso, inoltre, che i più accaniti difensori dell’identità religiosa – l’Occidente e l’Islam – provengano dai monoteismi. Il monoteismo è una religione esclusiva, divide il mondo in chiave dicotomica, fra ciò che è e ciò che non è, contrappone il “noi” ai “loro”, identificandosi con la verità. Al contrario il politeismo è per sua stessa definizione polivalente e pluralista, molteplice e aperto, accoglie e riconosce le altre religioni, non pretende di convertirle in nome della verità assoluta, nè fa apostolati.
In linea generale, come potrebbe esistere la cultura, intesa come tratto pertinente dell’essere umano, senza quei processi di comunicazione e di scambio che hanno sempre regolato, fin dal suo nascere, tutta la vita associata? E su cosa si fonderebbero le società senza il tabù dell’incesto, come ricorda Lèvi-Strauss (1978), nel ribadire il bisogno universale di uscire dal gruppo del “noi”, praticando l’esogamia e garantendo la circolazione delle donne fra i vari clan?
Ma c’è di più, secondo Bettini: la tenaglia identitaria si serve di stereotipi e pregiudizi, di categorie facili e generiche che occultano la complessità dei processi reali, frutto di innumerevoli variabili e sfaccettature. Anche in questo caso si cade in una logica binaria assumendo come metro di giudizio il proprio punto di vista contro il suo opposto: ad esempio, italiani vs migranti, padani vs terroni etc. Si tratta solo di concetti assertivi, costruiti per difetto, per sottrazione, senza capire che dietro ad ognuno di questi vi sono molteplici variabili dovute a fattori di classe, di censo, di ambiente, culturali e religiose.
Questa visione statica del concetto di identità, la sua artefatta stabilità, la necessità di arroccarsi su posizioni esclusive, determina di fatto un impoverimento culturale (Remotti cit.), tralasciando il fatto che ogni fenomeno è frutto di una selezione fra le tante possibili. La cultura, intesa come processo semiotico, di comunicazione e informazione, è sempre – come ricorda Silvana Miceli (1982: 396-440), introduzione di neg-entropia, limitazione di quelle possibilità di relazione, opposizione e correlazione che sono tutte potenzialmente in grado di realizzarsi.
Così come avviene nell’anagramma e nella metamorfosi delle parole. Qui Maurizio Bettini si diverte con alcuni accostamenti, facendo sì che da un austero “saio” monacale compaia all’improvviso una meravigliosa “oasi”, mentre da una “gendarmeria” possa uscire una “regina madre”. Ma per riuscire nel gioco bisogna accettarne i rischi e le conseguenze. Per comporre nuove parole è necessario perdersi nella confusione senza senso di altre inaspettate combinazioni, turbando l’ordine esistente e rimescolando le carte per arrivare a equilibri, talvolta, ma non sempre, migliori. Non bisogna arrestarsi di fronte al disordine – avverte Bettini – scardinare, alterare, invertire, significa comprendere che l’ordine attuale e consolidato non è l’unico possibile. Fino a che considereremo i diversi dei “fuori posto”, portatori di sporcizia, malattie e disordine, non arriveremo mai ad apprezzare fino in fondo le infinite potenzialità che la cultura, le culture, proprio nel loro essere un dispositivo stereotipante di “messa in ordine”, offrono all’uomo. Accettare questo presupposto equivale a riconoscere tutte le infinite possibilità creative di uno stato di disordine.
Non è questo in fondo il senso ultimo dell’attività simbolica della cultura, che si fonda e si rifonda periodicamente sull’irruzione del caos per rigenerare il cosmos (Buttitta 2016: 37-46)? Come potrebbe spiegarsi in altro modo la vitalità delle feste religiose se non con il bisogno ricorrente nell’uomo di superare quella coincidentia oppositorum (Eliade 1976) che garantisce, in ultima analisi, il superamento della morte?
La prerogativa della cultura è data dalla sua molteplicità, dalla sua ricchezza, dalla volontà di conoscere e di sporgersi e provare ad uscire dai propri confini per esplorare universi che stanno al di là, e dunque dalla capacità di riformulare i discorsi, cambiando idee se occorre. Sono parole dell’Autore. La consapevolezza del fatto che nella vita si ha sempre a che fare con persone, diverse sì ma anche simili a noi.
Non sarebbe più giusto a questo punto, come sostiene Remotti (2019), parlare di somiglianze e differenze, anziché incaponirsi sul concetto di identità? Solo così si apriranno le strade non solo per una legittima coesistenza con i migranti, ma anche per una pacifica e rigenerativa convivenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Riferimenti bibliografici
Bauman, Zigmunt
1976 Cultura come prassi, Bologna, il Mulino
Benoist, Jean-Marie
1980 Sfaccettature dell’identità, in Claude Lévi-Strauss (a cura di), L’identità, Palermo, Sellerio editore
Bettini, Maurizio
2019 Homo sum. Essere “umani nel mondo antico, Torino, Einaudi
Buttitta, Antonino
2016 Mito, fiaba, rito, Palermo, Sellerio editore
Douglas, Mary
1993 Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna, il Mulino
Eliade, Mircea
1976 Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri
Lévi-Strauss, Claude
1978 Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli
Miceli, Silvana
1982 In nome del segno. Introduzione alla semiotica della cultura, Palermo, Sellerio editore
Remotti, Francesco
2010 L’ossessione identitaria, Bari, Laterza
2019 Somiglianze. Una via per la convivenza, Bari, Laterza.
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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