di Luca Pollicino
“Quando le mani sono troppo unte per fotografare” è la mia definizione del concetto di cibo di strada. È un’immagine prepotente che non riesco a togliere dalla testa. Un’immagine che porto dietro da un’intensa esperienza vissuta girando per le stradine arabeggianti del centro storico di Palermo insieme ad alcuni gruppi di turisti [1]. La smania per la fotografia di viaggio [2], per la riduzione a feticcio di qualsiasi cosa si incontra durante il cammino, svaniscono di fronte alla esperienza totalizzante rappresentata dal cibo di strada.
Esperienza totalizzante perché coinvolge tutti i sensi: gusto, vista, olfatto, tatto, udito ma anche propriocezione, senso del tempo, senso dell’equilibrio, senso dell’umorismo, senso estetico ecc. Le mani sono dunque troppo unte per fotografare. La priorità diventa quella di portare il cibo alla bocca, di godere del calore umano, del rapporto che si istituisce con il particolare “ristoratore” e dell’atmosfera di convivialità che si respira.
Ma questo non è tutto. Nel cibo di strada riusciamo a leggere davvero l’essenza dei popoli che l’hanno prodotto. Niente dice tanto di una cultura quanto il cibo. Cibarsi è un’esigenza biologica che ognuno deve assecondare, ma dietro il cibarsi non vi è solo questo; c’è un mondo da scoprire, «un linguaggio nel quale la società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni» (Lévi-Strauss, 1999: 445). Dunque il cibo non solo come strumento che garantisce la sussistenza ma anche come veicolo del comunicare.
In premessa vorrei avvertire il lettore che questo articolo non ha alcuna pretesa di esaustività rispetto a temi prettamente etnografici che ritengo fondamentali per comprendere nel profondo il fenomeno del cibo di strada. Tra questi potrei menzionare, ad esempio, l’uso rituale del cibo di strada (testimoniato da Pitrè), le modalità di preparazione e la storia dei piatti tipici (illustrate tra gli altri da Giallombardo) o esercizi di comparazione tra diverse realtà culturali (seppur convinto che tale prospettiva permetterebbe di schiudere orizzonti interessanti).
In tale sede vorrei portare la vostra attenzione sull’aspetto della “fruizione” del cibo di strada e, più precisamente, sulla fruizione turistica di questa originale manifestazione del patrimonio alimentare. Vorrei, inoltre, evidenziare alcuni rischi legati ad una valorizzazione errata di questa fondamentale componente della cultura immateriale palermitana.
Qualche dato numerico ci aiuterà a comprendere quale sia l’importanza del fenomeno che mi accingo a trattare. La cucina di strada (o lo street food come va di moda chiamarlo oggi) è una realtà mondiale. Ogni popolazione ha le proprie pietanze che entrano di diritto nella categoria del cibo di strada. Secondo la Food and Agriculture Organization of the United Nation (F.A.O) lo street food sfama 2,5 miliardi di persone (un terzo della popolazione mondiale). Le ragioni che spingono così tante persone, di qualsiasi parte del mondo, a nutrirsi di questi “piatti” tradizionali sono da ricercare principalmente nella facilità di reperire diversi punti vendita nelle varie città metropolitane e nell’accessibilità economica che tale modello di alimentazione consente.
Come molte delle più tradizionali produzioni culturali, lo street food, è prepotentemente entrato a far parte dei must turistici. Ogni viaggio che si rispetti non può prescindere da quel particolare rito di passaggio rappresentato dalla degustazione di piatti o bevande “non usuali” per chi in quel luogo è solo in transito. Il cibo si configura in questo caso come parte di quel processo di rottura con il quotidiano e la routine (seppur parziale nella nostra società ipermediata), una cesura consumata a cominciare dalla partenza a fini turistici. In tal senso il cibo di strada appare come una particolare forma di altrove. Un altrove lontano non tanto nello spazio quanto nel tempo. Un altrove non fatto di grandi storie e grandi eventi ma sostanziato di gusti, esperienze minime e sedimentazioni culturali.
Se ben valorizzato dal punto di vista turistico, il cibo di strada può essere una fondamentale “risorsa” in grado di avvicinare “ospitati e ospitanti”. Come rileva Giallombardo, infatti, «la situazione comunicativa marcata dalla dimensione pubblica e da forme del comportamento quali il mangiare in piedi davanti alle bancarelle, con le mani, accompagnando spesso i cibi con vino o birra e con ostentata noncuranza degli aspetti di pulizia, connota il cibo come elemento di un codice che vede una solidale partecipazione di emittente e destinatario agli stessi ‘valori’. La realizzazione che nella cucina di strada si instaura infatti tra il produttore del cibo e il suo fruitore comporta che essi siano strettamente coinvolti in un contesto referenziale tale da rendere il ‘messaggio’ operante al massimo grado» (Giallombardo, 2003: 128). È dunque anche questa la forza della cucina da strada: avvicinare produttore e consumatore. Questo vuol dire, nel caso del turismo, avvicinare quelli che le scienze sociali analizzano come due poli della tensione turistica: host e guest. Quale modo migliore per farlo se non quello di coinvolgere i turisti in un rito che prevede una solidale partecipazione di emittente e destinatario agli stessi “valori”?
Si edificano così, attraverso questi secolari manicaretti, ponti culturali in grado di trasformare una dicotomia in un continuum. Un continuum che favorisce un intenso scambio (non solo commerciale) in cui «voci e sguardi si incrociano; in luoghi in cui il meccanismo di costruzione dell’identità, attraverso l’invenzione dell’altro, si sdoppia e disegna attorno ai soggetti impegnati nell’interazione un’ellissi con due fuochi; in situazioni di vita, contingenti e imprevedibili, in cui l’orizzonte si torce due volte e genera, come avviene nel nastro di Moebius, uno scambio continuo tra il dentro e il fuori, parti del sé e parti dell’altro» (Guarrasi, 2012: 59).
Il valore aggiunto dell’esperienza dello Street Food non è vincolata, dunque, soltanto alla scoperta dei sapori ma anche della cultura che li ha prodotti. La matrice comune consiste nel fatto che nei piatti che si ha modo di gustare nel corso dei tour gastronomici cerchiamo e spesso troviamo le radici di una cultura. Radici che disegnano un’identità complessa, che si diramano e si biforcano all’infinito. Man mano che si ripercorre la nobile storia dei luoghi si scoprono dei capolavori culinari che hanno la stessa dignità culturale di tanti bei monumenti che illustrano le nostre città. Nel caso del cibo di strada è importante affidare la “mediazione culturale” (perché di questo si tratta) a quanti quotidianamente vivono Palermo con tutte le sue contraddizioni. Tale considerazione risulta vera se si valuta l’importanza dei tratti culturali “celati” dai particolari metodi di preparazione e presentazione delle pietanze; non meno per quanto riguarda quello che Fischler definisce il “paradosso dell’onnivoro”, ovvero la lotta interiore del consumatore tra «neofilia» e «neofobia», tra la voglia di consumare nuovi alimenti e la paura di ingerire alimenti sconosciuti che potrebbero rilevarsi dannosi sia dal punto di vista “culturale” sia da quello più semplicemente fisiologico.
Un’esperienza gastronomica e culturale, quindi, ma anche relazionale. Il rapporto che si istituisce tra il turista e il proprio “mediatore culturale” è un rapporto vero che definisco così perché l’interazione è fondamentalmente basata sull’esperienza in vivo e sulla fiducia che il turista deve riporre nella propria “guida-amico” proprio in virtù del “paradosso dell’onnivoro”. Quindi è centrale la figura di un mediatore che aiuti il turista a regolare la sicurezza e a sentirsi a proprio agio nel degustare pietanze che non rientrano nelle sue solite abitudini alimentari. Si recupera il senso di scoperta delle radici culturali e, tramite tali radici, si mettono a nudo tratti caratteristici dell’essere siciliano. Il turista scopre così come vive veramente la comunità che lo ha ospitato e ha la possibilità di sperimentare un’esperienza autentica e non standardizzata. Decide il turista cosa mangiare e cosa non mangiare, decide il turista quanto tempo dedicare al tour e quale immagine portare con sè dopo il tour. Non vi è imposizione mediatica che tenga. Tramite la cucina di strada si ha la possibilità di accantonare i tradizionali stereotipi che vogliono la Sicilia e Palermo come terra di mafia per restituire un immaginario nuovo, fatto di gusto e tradizione. Si mette in mostra una realtà secolare che nulla ha a che vedere con l’universo di oppressione e sopraffazione che i media usano per rappresentare la Sicilia.
Come ho avuto modo di osservare nel corso dell’esperienza di campo, chi decide da turista di andare alla scoperta del cibo di strada scopre in fretta tratti culturali peculiari e interessanti che nei “classici” tour turistici non vengono reputati interessanti. Nessuna guida turistica, infatti, insegna che a Palermo prima si mangia e poi si paga [3], nessuna guida spiega al turista il modo giusto per “aggredire” un’arancina e ancora nessuna guida turistica tradizionale insegna che lo sfincione è “scarsu d’uogghiu e chinu i pruvulazzu”. Un tour così pensato non fornisce informazioni storiche ma fa vivere la storia. La storia riprende vita tramite le pietanze e nelle pietanze (oltre che negli edifici storici e nei mercati incontrati durante il tragitto) trova la propria dimensione concreta. La storia continua a vivere e il turista prende a farne parte. Nel cibo di strada si respira la dimensione della lunga durata della storia. Da anni le classi popolari si cibano di quegli alimenti e ora, anche il turista, entra a far parte di quella comunità e, grazie al proprio mediatore culturale, lo fa in maniera consapevole.
Alla luce di questa strategia “meno invasiva” per valorizzare dal punto di vista turistico il cibo di strada, vorrei ora denunciare alcune strategie a mio giudizio errate di valorizzazione dello street food. Oltre alla fortuna in chiave turistica, il cibo di strada sta ritrovando rinnovata affezione culturale da parte dei media e delle istituzioni. Per quanto riguarda i media, al fine di rendere più “vendibile” il bene di consumo, pubblicizzano e dedicano interi format televisivi al cibo di strada. Tuttavia, l’immagine che ne emerge risulta quasi sempre stereotipata; si ascoltano storie vincenti di persone sorridenti, figli di realtà agresti senza tempo. Il contesto è radicalmente differente. La cultura che ha prodotto il cibo di strada è forgiata dalla tirannia della fame e dalla miseria. Questa maniera poco aderente al reale di presentare il mondo popolare porta, inevitabilmente, a banalizzare le tradizioni alimentari passate; banalizza il sacrificio e il sudore che le generazioni precedenti hanno impiegato per trasformare un alimento “non buono da pensare” in un manicaretto che oggi tutti possiamo apprezzare. È stata proprio l’impossibilità di colmare l’appetito ad aver fatto maturare “l’arte dell’abbondanza con poco”. Il cibarsi in maniera sregolata (che è un tratto distintivo dello street food siciliano) è probabilmente la realizzazione di un desiderio ancestrale nelle culture mediterranee (e non solo): quello dell’abbondanza (tipico, anche, delle pratiche festive propiziatorie).
L’intento dei media è inequivocabilmente quello di avviare un processo di valorizzazione strumentale e funzionale, esclusivamente, a brutali logiche commerciali. Anche le istituzioni hanno cominciato a “sfruttare” la macchina dello street food per alimentare la propria immagine all’estero. L’Italia, che a breve si appresta a presentare al mondo il più grande evento di sempre sulla nutrizione, ha deciso di puntare molto sullo street food. Non volendo entrare nel merito dello scempio ecologico, culturale, economico e politico che EXPO rappresenta, vorrei intrattenermi sulle modalità con cui verrà presentato il cibo di strada nel corso di questa straordinaria manifestazione [4]. Come espressamente richiesto dal comitato organizzatore, i commercianti impegnati all’interno del villaggio di EXPO dovranno ingegnarsi per offrire: una ristorazione rapida ed economica, “menù innovativi”, elementi allestitivi accattivanti, spettacoli di showcoocking con chef (anche stellati) e spettacoli musicali, oltre a dover rispettare le restrittive norme di green procurement. Ovviamente attendo di trovarmi “sul campo” per giudicare il lavoro svolto dal comitato organizzatore ma ciò che appare chiaro è che ancora una volta la valorizzazione di un così importante tratto della cultura italiana verrà affidato a quanti saranno in grado di dare garanzie economiche altamente “esclusive” e saranno in grado di inserire “chef stellati” all’interno del proprio organico . Inoltre, ciò che lascia più perplessi è proprio l’uso dell’aggettivo “innovativi” vicino al sostantivo menù. Non sono assolutamente contrario alla re-invenzione della tradizione, anzi, sono convinto sia un volano di sviluppo, ma in una sede come EXPO non sarebbe stato meglio incentivare i produttori a presentare i frutti della secolare storia alimentare italiana? Non sarebbe stato interessante presentarci al mondo per come siamo anziché per come vorremmo essere? Non sarebbe stato utile offrire visibilità a chi ne ha veramente bisogno e non ai soliti “chef stellati” che tutto il mondo già conosce e (forse) ci invidia?
Inoltre, si consideri la disposizione prevista per le piazzole atte ad ospitare i punti vendita dello street food. Come si può evincere dalla planimetria, quasi tutti i punti vendita verranno dislocati nel perimetro dell’area di EXPO. Non so quanto sia stata voluta o meno questa precisa collocazione ma si ha la netta impressione che la cucina di strada è pensata e situata “ai margini”. Una cucina fuori dal centro di interesse, da corredo o da arredo alla cucina “alta”. Ancora una volta, l’evento internazionale sull’alimentazione che prende il sottotitolo di “Nutrire il pianeta, energia per la vita” non prende in considerazione il fatto che un terzo della popolazione mondiale trae sostentamento grazie proprio al cibo di strada. Come può disporre ai margini un tipo di cucina che sfama oltre due miliardi e mezzo di persone?
Nel frattempo accade che tutta questa attenzione mediatica ed istituzionale dedicata al cibo di strada stia provocando dei cambiamenti significativi anche all’interno della tradizione. Capita così che una storica icona del cibo di strada palermitano, la “Focacceria San Francesco”, diventi per il 51% di proprietà di EFFE 2005 (Gruppo Feltrinelli) facendo lievitare a dismisura i prezzi dei prodotti di consumo: solo per fare qualche esempio se volessimo andare a gustare alcuni piatti nel punto vendita di Milano il listino prezzi indicherebbe: Arancina 5 Euro, Pani c’à meusa 5 Euro, Cannolo 5 Euro e così via. In questo caso è chiaro che viene a mancare un tratto distintivo della cucina di strada: l’economicità del modello di ristorazione. Altri cambiamenti ben più incisivi dal punto di vista antropologico si possono constatare nella conformazione stessa delle città. Ad esempio, a Palermo, i mercati storici, si stanno progressivamente trasformando in ristoranti a cielo aperto (non cucine ma ristoranti). Un numero sempre maggiore di turisti si insinua tra le fitte bancarelle dei mercati storici. Accade così che il fruttivendolo o il “carnezziere” decidono di trasformare la propria attività in trattoria/ristorante, allettati (e convinti dai media) da migliori prospettive di guadagno. Quelli che un tempo erano spazi espositivi di merci fresche sono adesso pedane atte ad ospitare gli avventori che diventano, così, la nuova merce da esposizione.
Stiamo perdendo la dimensione del mercato come luogo dell’alimentazione e non solo del consumo. Il bello dei mercati è che puoi anche acquistare ortaggi, pesce, carne e capire come un popolo organizza non solo l’alimentazione ma anche la vita, il regime, gli stili, i tempi. La “moda” dello street food e il mito della dieta mediterranea stanno man mano colonizzando i mercati storici. Quelli che un tempo erano luoghi dell’alimentazione e del convivio cittadini stanno diventando, anche a causa dello straripare mediatico del cibo di strada, luoghi turistici. Inoltre, mentre fino a qualche anno fa eravamo abituati a vedere bancarelle che da generazioni lavoravano e vendevano un solo tipo di cibo, adesso si tende a preparare ed offrire agli avventori quanti più prodotti possibili. Per quanto riguarda il caso palermitano stanno entrando nel “campo semantico” del cibo di strada anche altri manicaretti, che fino a qualche anno fa non erano considerati tali. Accade così che la frittura di pesce, le sarde a beccafico, involtini di pesce spada ecc. vengano venduti e fruiti con le stesse modalità dei più classici dei cibi di strada. Anche se la cucina di strada si connota tradizionalmente per la velocità della preparazione, un fitto lavoro ai fornelli svolto nelle ore precedenti permette di vendere in maniera rapida e istantanea anche pietanze più complesse ed articolate [5].
Appare chiaro pertanto che il rischio non è tanto quello della reinvenzione delle tradizioni quanto quello della perdita delle radici. Inoltre, in quanto fenomeno di moda, lo street food rischia di spegnersi come un tormentone estivo e lasciare solo le macerie di ciò che la storia ha costruito per sfamare intere generazioni di donne e di uomini che di quel cibo facevano il loro sostentamento quotidiano. Bisogna mettere in campo strategie volte a restituire o conservare e tramandare la tradizione. Occorre assolutamente evitare che il cibo di strada diventi una cucina popolare senza popolo.
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
[1] Alla base di tale articolo vi è un lavoro di ricerca sul campo condotto grazie all’aiuto di un gruppo di ragazzi che organizzano, da anni, tour enogastronomici volti alla scoperta del cibo di strada e della cultura che lo ha prodotto.
[2] Come fa notare Urry, «la fotografia è fondamentale per la nascita dello sguardo del turista» (Urry, 1995: 197). Sono convinto infatti che il viaggio moderno si configura sempre più come reificazione di qualcosa di già visto; ruolo fondamentale in tale processo viene assunto dalla fotografia.
[3] Questo è un tratto fondamentale del cibo di strada palermitano, in quanto il corrispettivo economico non si configura come propedeutico per l’alimentazione ma diventa un compenso che l’avventore riconosce al “cuoco” per il servizio ricevuto. Si favorisce così in maniera spontanea e quasi involontaria «una combinazione di relazioni, innanzitutto interpersonali, in cui i soggetti generatori/confezionatori, al di là di un mero orientamento alla vendita, fanno proprio un atteggiamento di sentita e condivisa ospitalità che recuperi il gusto di far scoprire la bellezza e la peculiarità del proprio patrimonio storico, artistico, folkloristico, enogastronomico e soprattutto d’umanità; ed in cui gli utilizzatori da semplici consumatori finali, diventano soggetti generatori di valore, protagonisti possibilmente chiamati a completare attivamente la stessa offerta turistica» (Ruisi, 2004: 32).
[4] In realtà le manifestazioni legate allo street food sono due. In questa sede tratterò esclusivamente degli espositivi distribuiti all’interno del villaggio mentre l’altra manifestazione dedicata prende il nome di Street Food on the road (http://www.streetfoodontheroad.net/)
[5] Interessante in tal senso sarebbe rivedere il ruolo della donna. Nel processo di preparazione di molte di queste “nuove pietanze da strada” svariate fasi sono a carico delle donne, alle quali viene, solitamente, relegato un ruolo marginale nel ciclo produttivo del cibo di strada.
Riferimenti bibliografici
Avviso pubblico volto alla selezione di uno o più soggetti concessionari per la gestione della ristorazione di EXPO Milano 2015 relativamente al format denominato “progetto steet food” e suoi allegati, Milano, 4 Novembre 2014 Prot. n. 721/U2014 (http://www.rfp.expo2015.org/rfp/progetto-street-food)
Fischler Claude, L’onnivoro: il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Mondadori, Milano, 1992
Food And Agriculture Organization of the United Nations (F.A.O), Food for the Cities – Multidisciplinary Area, Roma, 2009 (ftp://ftp.fao.org/docrep/fao/011/ak003e/ak003e.pdf)
Giallombardo Fatima, La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Sellerio, Palermo, 2003
Guarrasi Vincenzo, La città cosmopolita. Geografie dell’ascolto, Palumbo, Palermo, 2012
Lévi-Strauss Claude, Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, Milano, 1999
Naselli F., Ruggeri G., “Turismo relazionale”, in Purpura A., Naselli F., Ruggeri G., La componente relazionale nell’ analisi sistemica del turismo, in “Quaderni Arces” n. 4, Palumbo, Palermo, 2007: 24-46
Ruisi Marcantonio, Turismo relazionale. Logiche di sviluppo reticolare ed etica dell’ospitalità per le aziende turistiche di piccola dimensione, Giuffrè, Milano, 2004
Urry John, Lo sguardo del turista. Il tempo libero e il viaggio nelle società contemporanee, Seam, Roma, 1995
______________________________________________________________
Luca Pollicino, conseguita nel 2014 la laurea magistrale in Studi storici, antropologici e geografici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Palermo, ha partecipato ad un master intensivo in Europrogettazione, organizzato da “Eurogiovani, Centro di Ricerche e studi Europei”. Dal 2010 esercita la sua attività nel Terzo Settore e si occupa di organizzazione e gestione di eventi sociali e culturali in qualità di presidente dell’Associazione di interesse e promozione culturale AMUNì. Ha messo a frutto tali competenze progettando e realizzando alcune iniziative tramite fondi POR e PON.
______________________________________________________________
La Constitution tunisienne, en janvier 2014 adoptée, mandate la création d’une Constitution
Salle d’audience qui peut invalider lois qui ne sont pas
conformes aux normes internationales Individual . mais les
autorités n’ont pas encore établir la salle d’audience et nommer ses membres.