di Chiara Dallavalle
La pandemia al tempo dei social network non è stata soltanto un fenomeno di carattere sanitario, fatto di medici in corsia, ospedali congestionati e pazienti attaccati al respiratore; ha anche assunto le vesti di un’onda dilagante di notizie di qualunque genere e forma, che ha letteralmente invaso il mondo virtuale in cui, volente o nolente, ci troviamo a vivere. In questa pletora di informazioni è risultato estremamente difficile discernere la qualità e l’origine dei contenuti trasmessi. Le persone hanno espresso un viscerale bisogno di saperne di più sul Covid-19 e su quanto stava succedendo nel nostro Paese e nel mondo, e in rete era possibile accedere praticamente a qualsiasi dato e spiegazione in proposito. Ovviamente il web non offre solo contenuti provenienti dalle principali testate giornalistiche italiane e straniere nonché dal mondo accademico e della ricerca scientifica. Molta della circolazione di notizie in rete, relativa al virus ma non solo, si autodefinisce contro informazione e si pone come punto di vista alternativo all’informazione cosiddetta mainstream. L’assunto di fondo è che il mondo del giornalismo e della ricerca siano allineati con i centri del potere, e che quindi ci raccontino verità molto parziali e volutamente distorte. Secondo questo filone di pensiero la realtà in cui ci troviamo a vivere è ben diversa da quella rappresentata dai media di corrente.
Il desiderio di verità e di contenuti attendibili che rispecchino ciò che sta realmente accadendo nel mondo nasce proprio dalla quantità spropositata di informazioni che il web mette a disposizione e dalla conseguente impossibilità di verificarne l’attendibilità. Molti sentono che la verità dei fatti si fa sfuggente e che diventa sempre più facile manipolare narrazioni, resoconti giornalistici e persino immagini, cosa che crea una sorta di sottile diffidenza verso le notizie che ci vengono riportate. Sarà poi vero? È la domanda che molti si fanno. Pertanto, l’informazione non mainstream di suo non ha nulla di sconveniente, anzi contribuisce ad arricchire il dibattito sulla ricerca della verità, facendo circolare anche voci fuori dal coro e costruendo un pensiero critico che ci dovrebbe aiutare a riflettere maggiormente sul significato del mondo attorno a noi. Il problema nasce quando si affronta l’aspetto della qualità dell’informazione a nostra disposizione. Nel caso della pandemia da Covid-19, spesso la controinformazione è andata non solo a presentare visioni alternative sulla gestione dell’emergenza e sul virus stesso, ma perfino diverse teorie negazioniste, anche quella più estrema secondo cui il Covid-19 non esiste o non è nulla più di una semplice influenza.
La recente, e decisamente estesa, diffusione dei social network ha infatti scosso alle fondamenta i cardini stessi su cui la produzione e la circolazione delle informazioni si sono svolte fino a pochi decenni fa. Come ben riporta Carlo Magnani:
«dai tratti costitutivi della comunicazione attraverso i social network emergono problematiche nuove per il mondo dell’informazione: la disintermediazione tra il pubblico destinatario delle notizie e le agenzie di diffusione; la perdita di prestigio e di centralità dei professionisti; la possibilità di un relativo anonimato; la pervasività e capillarità della diffusione delle notizie; la circolazione pressoché incontrollata di opinioni e teorie che sfuggono alla verifica scientifica; l’invadenza della pubblicità; l’impiego di algoritmi che consentono alle grandi piattaforme della Rete di proporre le notizie considerate più appetibili e affini al destinatario» (Magnani 2018: 28).
Questo pone seri problemi rispetto alla veridicità dei contenuti che circolano in rete, in quanto la comunicazione tramite il web raggiunge una platea molto più ampia rispetto ad esempio alla carta stampata, e rende la produzione delle notizie alla portata di chiunque. La mole delle informazioni disponibili in rete è infinita ma questo paradossalmente provoca una maggiore incertezza rispetto alla realtà in cui stiamo vivendo, dovuta anche all’impossibilità di determinare la veridicità degli assunti con cui entriamo in contatto. Il web consente di far circolare contenuti in cui la distinzione tra la ricerca della verità e la semplice opinione si fa più sfumata, sfuggente, ambigua e spesso nemmeno possibile. Capita con una certa frequenza di leggere articoli in cui si fanno proclami equiparati a dati di fatto, senza che sia stata fatta alcuna verifica e che siano citate fonti attendibili. Tuttavia, questi pareri più o meno personali automaticamente si pongono come fonti autorevoli e, sulla base del numero di condivisioni, lo diventano. Tutto questo crea consenso attorno a tesi che spesso non hanno nessun fondamento reale, oppure che se lo creano dal nulla basandosi su fatti più o meno travisati e manipolati.
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità».
Così il semiologo Umberto Eco ha definito il ruolo dei social media al giorno d’oggi durante una lectio magistralis tenuta all’università di Torino nel 2015. Senza essere così drastici, il problema delle fonti e dell’autorevolezza di chi si esprime sul web rimane, e non è una questione di poco conto. L’aumento della quantità di contenuti disponibili e di utenti da essi raggiunti va di pari passo con lo svilimento del lavoro dei professionisti dell’informazione, i quali in qualche modo si fanno garanti della qualità dell’informazione prodotta, ma che oggi sempre più spesso sono sostituiti da siti e blog di qualunque tipo.
Ma perché le persone oggi sono così diffidenti rispetto alla parola non solo dei giornalisti ma anche del mondo accademico e scientifico, e sentono il bisogno di andare ad indagare per conto proprio dove stia la verità? Antonio Camorrino ritiene che nel corso degli ultimi decenni il mondo scientifico è stato a sua volta sottoposto a relativizzazione e rinegoziazione, sia di metodo che di significato. Questo ha contribuito ad erodere la fede e la fiducia nelle conoscenze scientifiche, fino a pochi anni fa considerate oggettivamente autorevoli, delegittimando così studi e ricerche condotte in ambito accademico (Canorrino 2018). Ecco che allora la ricerca della verità passa attraverso altri canali, spesso ufficiosi e apparentemente non controllati da lobbies di potere più o meno occulto. Qui si entra nel campo delle teorie complottiste, che leggono la realtà secondo strumenti di indagine alternativi ma che propongono anche una chiave di lettura della realtà ben più oscura ed inquietante.
L’impossibilità di determinare la veridicità degli assunti con cui entriamo in contatto, insieme al desiderio di saperne di più di quanto ci raccontano, dà luogo al diffondersi di rumors e delle ben note fakenews. Diverse realtà del mondo accademico sono interessate a questo fenomeno e alle dinamiche personali e collettive che concorrono alla sua diffusione. I rumors, cioè le voci, tutto ciò di cui si sente parlare ma che non è stato in alcun modo verificato, sono un modo per cercare di colmare la mancanza di informazioni su un dato argomento e di conseguenza dare un senso a ciò che accade intorno a noi. I ricercatori Nicholas DiFonzo e Prashant Bordia (2007) ritengono che le persone tendano ad essere d’accordo e a credere a determinati rumors quando:
- I rumors sono affini al proprio pensiero ed opinione;
- provengono da una fonte autorevole, che sia una testata giornalistica, un telegiornale o canale televisivo o altri media informativi;
- la notizia è ridondante nei media e condivisa da un elevato numero di persone;
- non sono accompagnati da alcuna confutazione o rimando alle fonti primarie.
Quindi in un certo senso i rumors, soprattutto quando sono fake – cioè falsi – contribuiscono ad accrescere il nostro senso di identità e di appartenenza, in quanto ci fanno sentire in assonanza con altre persone che condividono la nostra stessa visione del mondo. Da qui la loro fascinazione e anche la loro pericolosità, perché nel momento in cui le persone non si pongono la questione della loro veridicità e delle fonti che li sostengono, li accettano indiscriminatamente e in questo modo trovano una facile conferma a quello che è già il loro universo valoriale e identitario.
Purtroppo, smascherare le fakenews è un processo più lento non tanto per la fattiva verifica della veridicità o meno della notizia stessa, quanto piuttosto per la possibilità reale di andare a incidere in senso opposto su chi l’aveva condivisa. L’impatto dello smascheramento è spesso di gran lunga più debole rispetto a quello prodotto dalla notizia iniziale, questo per le dinamiche identitarie di cui sopra ma anche per la diffidenza che le persone mettono in campo qualora un contenuto contrasti con la propria visione del mondo. Da qui il radicamento di certe credenze che nell’assolutismo delle prese di posizione sfidano la realtà empirica e ne negano evidenza e fattualità. Certo negazionismo in circostanze connesse alla diffusione del coronavirus sembra avere genesi e sviluppo sui social e qui autoalimentarsi di fake news e riprodursi in una perversa e vertiginosa spirale.
Quali strumenti abbiamo allora per muoverci nel meandro dell’informazione digitale? Sicuramente la verifica delle fonti è un ottimo punto di partenza. Articoli senza riferimenti bibliografici, in cui non è possibile capire da dove arrivino i dati citati, e che esprimono semplici pareri anziché il resoconto puntuale dei fatti dovrebbero farci alzare le antenne. Il tema delle fake news e dell’informazione digitale ci costringe a non essere più riceventi passivi di notizie ma al contrario di diventare ascoltatori attivi, che recepiscono, vagliano e selezionano ciò che arriva attraverso il web e i social network. Solo con un allenamento costante del nostro spirito critico saremo in grado di apprezzare la circolazione dell’informazione sui digital media, anziché cadere vittima delle sue forme più distorte e manipolatorie.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Riferimenti bibliografici
Camorrino A., (2018), “Paura della fine. Cospirazioni e complotti nell’immaginario della società contemporanea”, in H-ermes, J. Comm. 12 (2018):107-126.
DiFonzo N.,Bordia P. (2007), Rumor Psychology: Social and Organizational Approaches, American Psychological Association. Washington, DC.
Magnani C., (2018), “Libertà di espressione e fake news, il difficile rapporto tra verità e diritto. Una prospettiva teorica”, in Costituzionalismo.it, 2018, n. 3: 1-47.
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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